NA - Notizie AvventisteFrancesco Zenzale – Si fatica molto a comprendere questa “durezza” di Dio che mal si concilia con la concezione di un “Signore misericordioso e pietoso” (Es 34:6).

Per molti cristiani, il messaggio di un Dio d’amore è degenerato in un sentimentalismo etereo, dove una filosofia astratta, che ha perduto contatto con la storia, si è affermata sulla potenza del pensiero biblico. Lo abbiamo già detto. La salvezza è un fatto reale, essa è un avvenimento, quindi ha dei limiti: se così non fosse, il cristianesimo sarebbe solo un’idea, un’emozione. Il «no» di Dio è l’indice della realtà della sua esistenza e della sua azione nella storia. È la dimostrazione che egli non è un’invenzione dello spirito umano.

Questo blocco si spiega anche sul piano degli esseri umani. A forza di spingere in questa direzione, essi hanno finito per determinare il loro destino. Il sigillo di Dio altro non è che la ratifica, proveniente dall’alto, che essi non possono più tornare indietro. L’esempio del faraone d’Egitto riportato nel libro dell’Esodo, illustra perfettamente questo meccanismo. Nel corso della prima metà delle piaghe, il racconto biblico sottolinea che il faraone stesso indurì il suo cuore (cfr. Es 7:13-22; 8:15; 9:7,35). Solo nel corso della seconda parte delle piaghe, all’improvviso, il racconto biblico cambia la sua visuale: “Il Signore indurì il cuore del faraone” (Es 10:1,20,27; 14:4,8). A forza di intestardirsi nel peccato, si arriva a un punto di non ritorno, nel quale non si è più capaci di pentirsi. Questa osservazione d’ordine psicologico e morale troverà il suo compimento ultimo, nel tempo della fine; quando ognuno sarà, finalmente, determinato dalla deliberata ripetizione dei suoi atti e delle proprie scelte.

Lo stesso principio apparirà successivamente, sotto la forma di un proverbio: “Chi è ingiusto continui a praticare l’ingiustizia; chi è impuro continui a essere impuro; e chi è giusto continui a praticare la giustizia, e chi è santo si santifichi ancora» (Ap 22:11).

Nello stesso senso, durante le sette piaghe, come in un triste leitmotiv, ricorre l’osservazione del profeta: “Essi non si ravvidero dalle opere loro…” (Ap 16:9,11,21). Qualsiasi tipo di angoscia o speculazione a proposito del tempo del suggellamento è assolutamente fuori luogo. Noi non siamo ancora arrivati a quel punto della storia umana. Il fatto di chiedersi se lo viviamo, significa, di per sé, che non ci siamo ancora arrivati. Quando qualcuno si chiede se il perdono è ancora possibile, significa che egli vive il tempo della grazia. Il giorno in cui non sarà più possibile sperare, sarà quello in cui si sarà scelto di smettere di sperare.

Un altro indizio per riconoscere il tempo del suggellamento è costituito dall’osservazione, obiettiva, dell’ira di Dio: le sette coppe versate sul mondo. Il tempo della chiusura del tempio, corrisponde all’inizio del ciclo delle coppe (15:8).

L’ira di Dio già espressa nel sesto sigillo (6:17) e nel settimo schofar (11:18,19) viene annunciata come una futura minaccia, all’interno del messaggio del terzo angelo: “Chiunque adora la bestia e la sua immagine e ne prende il marchio sulla fronte o sulla mano, egli pure berrà il vino dell’ira di Dio versato puro nel calice della sua ira” (14:9,10).

Le sette coppe si collocano cronologicamente dopo la proclamazione dei tre angeli, mentre prendono il via, nel momento in cui il dominio della bestia (13:16) è un fatto compiuto. A cominciare dalla prima coppa, si comprende che il giudizio riguarda “gli uomini che hanno il marchio della bestia e adorano la sua immagine”» (16:2). (vedi J. Doukhan, Il grido del cielo, p. 177-188).

Per saperne di più: assistenza@avventisti.it

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