Leggi qui la parte 1.

Michele Abiusi – La domanda che si impone ora è: “Chi deve dare l’assoluzione per i peccati confessati?”. Cercheremo di spiegare un testo fondamentale contenuto nel Vangelo di Matteo: “Se tuo fratello ha peccato contro di te, va' e convincilo fra te e lui solo. Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello; ma, se non ti ascolta, prendi con te ancora una o due persone, affinché ogni parola sia confermata per bocca di due o tre testimoni. Se rifiuta d'ascoltarli, dillo alla chiesa; e, se rifiuta d'ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano. Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo” (Mt 18:15-18).

Nel brano si parla di come agire quando subiamo offese dal nostro prossimo: “Se tuo fratello ha peccato contro di te”. Una volta chiarita la causa dell’offesa, il testo dice: “Se ti ascolta, avrai guadagnato tuo fratello”. Come si vede è l’offeso che, una volta appurato il pentimento dell’offensore, perdona e mette una pietra sopra la colpa ristabilendo la relazione fraterna.

Gesù stabilì una procedura a tre tappe:

1. Parlare con l’offensore per chiarire la cosa e ristabilire buone relazioni.

2. Nel caso che non si arrivi a un accordo e l’offensore non riconosca le ragioni della parte opposta, ritornare da lui con uno o due testimoni affinché con la loro consulenza si possa ristabilire la pace.

3. Se non si approda ad alcunché, chiamare in causa la comunità, la chiesa, affinché il consiglio della moltitudine possa sensibilizzare il cuore dell’offensore a far pace con la parte lesa.

In tutte queste tappe non si tratta di stabilire dove stia la ragione ed emettere una condanna del colpevole, ma piuttosto il restaurare relazioni amorevoli compromesse dal peccato. Lo scopo di questa procedura è riavvicinare il colpevole alla chiesa, facendogli fare pace.

Come comprendere le parole di Gesù “se rifiuta d'ascoltare anche la chiesa, sia per te come il pagano e il pubblicano”? Questo è l’ultimo passo suggerito da Gesù per risolvere i contrasti tra “fratelli” nella fede. La chiave per capire queste parole è l’espressione “sia per te”. Gesù indica che tutta la questione rimane a livello individuale, non di chiesa. L’intervento della chiesa ha il solo scopo di ristabilire spiritualmente il colpevole. Se il colpevole non mostra di capire il punto e rimane della stessa idea, allora l’ultima possibilità per aiutarlo è quello di considerarlo come un esattore delle tasse (pubblicano) o un pagano.

Dato che è Gesù a proporre questa procedura, è chiaro che si deve trattare il colpevole come Gesù trattava i pubblicani e i gentili (i pagani), cioè con amore e interesse sincero. Nella società ebraica del tempo di Gesù, i pagani e i pubblicani erano considerati i peccatori per eccellenza dai quali bisognava mantenere le distanze. A differenza dell’opinione corrente, Gesù fu sempre ben disposto verso costoro. Ricordiamo che un esattore delle tasse, Matteo, fu scelto per essere parte del gruppo degli apostoli. Anche i pagani ricevettero l’amorevole interesse di Gesù, come il centurione romano di cui esaltò la fede: “Io vi dico in verità che in nessuno, in Israele, ho trovato una fede così grande!” (Mt 8:10). Condannando gli altezzosi farisei, Gesù li apostrofò: “Io vi dico in verità: I pubblicani e le prostitute entrano prima di voi nel regno di Dio.” (Mt 21:31).

Quindi se il colpevole non aveva l’intenzione di ravvedersi, la controparte doveva fare in modo che, per quanto dipendesse da lui, l’amore e la pace regnasse tra loro, creando occasioni di riconciliazione.

L’ultimo versetto del nostro brano biblico termina dicendo: “tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo”. Ovviamente queste parole hanno relazione con quanto detto prima. Risulta chiaro che è l’atteggiamento del peccatore a determinare il perdono e l’assoluzione da parte di Dio. Se c’è pentimento, allora Dio convalida il perdono che l’offeso concede all’offensore, assolvendolo dal peccato commesso. Ora chiediamoci: “Su cosa si basa, secondo la Bibbia, il perdono dei peccati per noi discepoli del Signore?”.

Citiamo tre passi scritturali: 
“… se alcuno ha peccato, noi abbiamo un avvocato presso il Padre, cioè Gesù Cristo, il giusto. Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati…” (1 Giovanni 2:1,2). 
“Poiché in lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo le ricchezze della sua grazia” (Efesini 1:7). 
“In lui abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati” (Colossesi 1:14).

Dai testi risulta chiaro che è grazie al sacrificio vicario di Cristo che possiamo ottenere il perdono dei peccati. La realtà della nostra condizione peccatrice è evidenziata da Gesù che, rispondendo agli accusatori della donna adultera, disse: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei” (Giovanni 8:7).

Il conflitto interiore di ogni cristiano 
Paolo descrive magistralmente il conflitto interiore tra il bene e il male generato a volte dal peccato. In Romani 7:15-23, Paolo narra questo combattimento interiore. L’apostolo inizia descrivendo lo stato di smarrimento creatogli dal conflitto interiore: “ciò che faccio, io non lo capisco: infatti non faccio quello che voglio, ma faccio quello che odio” (v.15). Perfino sotto l’influenza del peccato Paolo riconosce la bontà della legge divina: “Ora, se faccio quello che non voglio, io ammetto che la legge è buona” (v. 16). Continua l’apostolo: “allora non sono più io che lo faccio, ma è il peccato che abita in me” (v.17).

Paolo non cerca di trovare una scappatoia per sfuggire alla responsabilità morale del peccato, ma ne riconosce il potere nella vita del credente. Come prova del suo argomentare afferma: “Difatti, io so che in me, vale a dire nella mia carne, non abita alcun bene” (v. 18), dichiarazione esplicita della natura umana peccaminosa. Il salmista lo disse in chiave poetica: “Ecco, io sono stato generato nell'iniquità, mia madre mi ha concepito nel peccato” (Sl 51:5).

Continua l’apostolo: “poiché in me si trova il volere, ma il modo di compiere il bene, no” (Ro 7:18). La parte cosciente di noi sa cosa fare, ma la peccaminosità a volte rende inutili gli sforzi rivolti al bene, per cui “il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio” (v. 19). L'apostolo raggiunge l’ovvia conclusione: “Ora, se io faccio ciò che non voglio, non sono più io che lo compio, ma è il peccato che abita in me” (20). Ciò che qui ribadisce Paolo non è una scappatoia morale, ma la dura realtà della nostra natura umana. Questa peccaminosità è talmente insita in noi da definirla: “Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me” (v. 21). Si tratta qui di una “legge” in senso lato, un principio, altrimenti sarebbe impossibile compiere il bene in assoluto.

Poi continua: “Infatti io mi compiaccio della legge di Dio, secondo l'uomo interiore” (v. 22). Per Paolo il bene è collegato all’adempimento della legge di Dio come espressa nei dieci comandamenti, ma il principio, o forza, che opera in lui “combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra” (v. 23). Qui il contrasto è tra “un'altra legge” – quella della carne decaduta, la “legge del peccato” – e la legge di Dio che governa la sua parte cosciente, la mente. Paolo esclama: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (v.24), intendendo “il corpo del peccato” (cfr. Ro 6:6).

Ma subito risponde: “Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (7:25). La salvezza per grazia è l’unica soluzione all’ingerenza del peccato nella vita del credente. Da soli non riusciremo mai ad emanciparci dal peccato, come Paolo scrisse anche agli Efesini: “Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio. Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti” (2:8,9). 

 

 

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