Francesco Zenzale – Il rituale ebraico, oltre a rappresentare il vangelo in miniatura, svolgeva un’opera demitizzante. Nel rituale pagano, il mito era ciclico e perennemente rinnovabile. Un esempio è quello del mito greco di Proserpina, la fanciulla rapita dal dio degli inferi che, per le suppliche della madre, ottiene di ritornare sulla terra in un periodo dell’anno, in relazione allo scorrere delle stagioni tra inverno (morte) e primavera (ritorno alla vita).

Al contrario, il rituale ebraico è lineare, storico–profetico e avrà il suo adempimento nella beata speranza del ritorno di Cristo. Esso costituiva “un’ombra dei beni futuri, non la realtà stessa delle cose” (Ebrei 10:1). Ciò è anche ben illustrato nella ricorrenza del Kippur o purificazione del santuario, che prefigurava da una parte il giorno in cui Dio porrà fine al peccato, a un’esistenza contraddistinta dalla sofferenza, dall’ingiustizia e dalla morte; dall’altra il trionfo della vita con l’inaugurazione di “nuovi cieli e nuova terra” (Apocalisse 21:1-8).

Il Kippur, rituale annuale, si svolgeva principalmente nel luogo santissimo ed era celebrato dal sommo sacerdote nel giorno dell’espiazione o il grande giorno del perdono e del giudizio. Questa solennità, che ricorreva al principio dell’autunno, era da ogni pio israelita vissuta nel digiuno e nell’umiliazione, perché in quel giorno il Signore giudicava il suo popolo. Gli ebrei celebrano ancora lo Yom Kippur, o giorno dell’espiazione, col digiuno e sogliono augurarsi l’un l’altro: “Possa il tuo nome essere scritto nel cielo”.

Storicamente e teologicamente, Israele non ha mai vissuto lo Yom Kippur come un’esperienza religiosa fine a se stessa, ma come un evento conclusivo della storia dell’umanità e l’inaugurazione del regno messianico. I sacrifici che giornalmente si offrivano durante l’anno, confluivano nel giorno in cui la morte come conseguenza del peccato cedeva definitamente il passo alla vita, alla gioia della salvezza. Nel Kippur la vita trionfava sulla morte, il bene sul male, la giustizia sull’ingiustizia, la compassione sull’odio.

Tipologicamente, questa visione messianico–escatologica s’è adempiuta in Gesù Cristo. Le due figure tipologiche basilari che rappresentano Gesù Cristo sono l’agnello e il sommo sacerdote (cfr. Giovanni 1:29; Ebrei 10:19-23; 8:1; 7:25, 26). Come agnello, Gesù ha realizzato la speranza messianica (cfr. Luca 4:16-21), come sommo sacerdote, egli opera in nostro favore nell’attesa del compimento della salvezza o dello Yom Kippur cosmico-escatologico che avverrà al suo ritorno.

Quindi, il Kippur, come tutto il rituale ebraico, doveva essere vissuto con fiducia e nella grazia di Dio, dalla quale fluisce una relazione d’amore, di obbedienza e di purificazione o santificazione (cfr. 1 Corinzi 5:7; Romani 6:22; Ebrei 12:14). Il percorso vitae vissuto in funzione di colui che avrebbe adempiuto ogni cosa (cfr. Atti 13:29; Luca 24:25-27), implicava una scelta libera e volontaria, motivata dal desiderio di essere pronti per il ritorno di Cristo (cfr. Tito 2:11-13).

In breve, il Kippur prefigura un’esperienza esistenziale, escatologica, inevitabile. Nessuno può sottrarsi! Come al tempo di Noè, in quel giorno, dice il Signore, «Voi vedrete di nuovo la differenza che c’è fra il giusto e l’empio, fra colui che serve Dio e colui che non lo serve” (Malachia 3:18).

 

Nota

Il rituale annuale
Nell’antico santuario d’Israele la parte centrale del rituale consisteva nell’aspersione del sangue di un capro nel luogo santissimo e nell’invio di un capro vivo nel deserto. I due capri erano offerti dal popolo e mediante la sorte erano destinati l’uno all’Eterno e l’altro ad Azazel (Azazel nella tradizione giudaica era il nome di un demone del deserto). Il capro in sorte all’Eterno era immolato nel cortile da sommo sacerdote dopo che questi aveva confessato i peccati del popolo con le mani sulla testa dell’animale, e parte del suo sangue era da lui asperso sul coperchio dell’arca o propiziatorio nel luogo santissimo. Con questo rito il sommo sacerdote compiva la purificazione del santuario, cioè rimoveva i peccati del popolo ivi trasferiti mediante i sacrifici espiatori quotidiani. Sempre in forma simbolica, detti peccati erano portati via sulla propria persona dal sommo sacerdote il quale, tornato nel cortile, li deponeva a sua volta sul capro destinato ad Azazel posando le sue mani sul capo dell’animale. Questo capro, unica eccezione in tutto il rituale israelitico, non veniva immolato, ma era condotto e abbandonato nel deserto da un uomo appositamente designato per questo compito. Col capro, il popolo vedeva allontanarsi i suoi peccati. Dopo quattro giorni, e per sette giorni di seguito, il popolo celebrava la festa più gioiosa dell’anno, la festa delle capanne
– AA. VV., Siamo pieni di speranza, Iade, Ed. Adv, Firenze, 1992, pp. 97, 98.

 

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