Francesco Zenzale – Il cuore del rituale ebraico, che prefigurava la redenzione, è il sacrificio. Esso deve essere compreso nella prospettiva della grazia e non come gesto mediante il quale si cerca di addomesticare “l’ira” di Dio, la sua sete di giustizia o il suo favore, peculiarità del culto cananeo. L’immolazione non va compresa nell’ottica del do ut des o dello baratto, ma in quella dell’ammissione della propria colpa, di essere “soffio”, “vanità”, un Abele che ringrazia Dio per il meraviglioso dono della vita.

Il sacrificio in sé non aveva alcun valore redentivo, ma certamente poneva l’offerente di fronte alla sua fragilità. Esso raffigurava l’incompiutezza dell’esistenza e pertanto il donatore, in un religioso silenzio, dichiarava la sua inquietudine, la sua vacuità e come il pubblicano cercava in Dio una via d’uscita. “Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: ‘O Dio, abbi pietà di me, peccatore!’” (Luca 18:13).

Dio non ha bisogno di un sacrificio espiatorio o di promesse votive per elargire la sua misericordia; se così fosse, il sacrificio si collocherebbe nell’ottica del commercio e non della grazia. Il sacrificio va considerato in rapporto al peccato e alle sue conseguenze. “Il salario del peccato è la morte” (Rimani 6:23). La morte dell’agnello raffigura la nostra morte. Quindi, la soluzione al dramma del peccato non si pone sul piano umano, né in relazione a ciò che l’uomo può fare. L’obbedienza alla volontà di Dio, come strumento per addolcire Dio, non ha alcun valore redentivo, perché tutto ciò che fluisce dall’uomo è connesso al peccato. Non dimentichiamo che il motivo per cui viviamo il dramma della morte è l’uomo: noi stessi (cfr. Romani 5:12). Perciò la salvezza fluisce unicamente nella grazia di Dio.

In tal senso, l’apostolo Paolo scriveva: “Non c’è nessun giusto, neppure uno” (Romani 3:10). “Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù” (Romani 3:23-24). “In nessun altro è la salvezza; perché non vi è sotto il cielo nessun altro nome che sia stato dato agli uomini, per mezzo del quale noi dobbiamo essere salvati” (Atti 4:12).

In breve, la Bibbia afferma ripetutamente che nessun sacrificio, nessuna opera buona compiuta dall’uomo è sufficiente per procurargli la salvezza. “Egli ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute” dice l’apostolo Paolo nella Lettera a Tito (3:5). E altrove: “l’uomo non è giustificato per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Galati 2:16). Anche se il peccatore smettesse di peccare e, con l’intento di salvarsi, vivesse una vita perfettamente santa in piena armonia con la legge divina, non riuscirebbe a guadagnarsi la salvezza, perché la nuova vita non potrebbe in alcun modo annullare quella trascorsa nel peccato e la sua inevitabile conseguenza: la morte.

Visto ciò, e considerando la peccaminosità intrinseca della natura umana, che non permette di compiere opere buone in senso assoluto, all’uomo non resta che sperare nella salvezza offerta da Dio. “Io, io sono il Signore e fuori di me non c’è salvatore!” (Isaia 43:11). E Dio agisce in favore dell’uomo per mezzo di Gesù Cristo, suo Figlio (cfr. Atti 4:12). La salvezza del peccatore non è dunque il frutto dei suoi meriti, la ricompensa delle sue opere o delle sue mortificazioni (qualunque cosa egli faccia è sempre un condannato a morte), ma una grazia che Dio gli fa, un dono gratuito che gli offre, acquistato esclusivamente dai meriti di Cristo.

 

 

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