Francesco Zenzale – “Hai mai visto un uomo precipitoso nel parlare? C’è più da sperare da uno stolto che da lui” (Proverbi 29:20). “Poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo 12:37).

Parlare è insito nella natura umana e il “savoir bien parler” è un esercizio che tutti dovremmo imparare. Ma se con le parole cerchiamo di mistificare il bisogno di giustizia dell’altro  e di defraudarlo della sua dignità, se esprimiamo pensieri che tradiscono le nostre intenzioni, traendo encomi e benefici economici o sociali, allora le parole sono un serio problema, “poiché  in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo 12:37; cfr. 5:37).

L’arte del parlare è una professione consolidata, soprattutto in definite realtà pubbliche e private, ad esempio quelle politiche, religiose, finanziarie, assicurative, ecc. I talk show sono affollati di uomini e donne dal pungente ed edulcorato modo di esprimersi. Sanno cavalcare la cresta dell’onda, seguire i ritmi incalzanti degli eventi e del cuore della “povera gente” e mantenere la propria posizione perseguendo interessi personali.

Senza dubbio, la maggioranza non ha molta confidenza con il saper parlare. Ma questo non significa che viva nel silenzio. Abitualmente parla ponendo l’accento sul sé inappagato, sulle proprie disgrazie vere o presunte che siano, sul proprio standard di vita, ecc. Ci sono anche quelli che con le parole esprimono l’idea di avere sempre ragione e credono di essere “perfetti” riguardo agli altri. Soffrono e non sanno che “la felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta” (Confucio). Sinceramente, è difficile convivere con persone che pensano di non avere mai inciampato e che giustificano ogni ruzzolone. Essere perfetti è una virtù senza luce e umanità verso se stessi e gli altri. Il “perfetto” non sa godersi la bellezza della vita con i suoi alti  e bassi.

Scriveva l’Ecclesiaste: “Non essere precipitoso nel parlare e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra. Le tue parole siano dunque poche” (Ecclesiaste 5:2). Scrivendo ai Corinzi, uomini e donne di molte e incomprensibili parole, Paolo affermava che preferiva “dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua” (1 Corinzi 14:19).

“Le tue parole siano poche!”. “Cinque al posto di diecimila!”, due al posto di duemila, mezza parola al posto di mille, per poi smettere di ciarlare. Quant’è difficile da applicare! Spesso siamo  come un fiume in piena. Riversiamo sull’altro moltitudini di parole al punto che “c’è più da sperare da uno stolto” (Proverbi 29:20). Parlare è più facile che ascoltare. Siamo allenati a parlare di noi, usando pronomi “io, mio, me” e il “tu”, spesso, lo riserviamo per ingiungere, emanare giudizi e non per accedere nel cuore altrui, disponendosi al mite e interessato ascolto. La parola di Dio, con insistenza, ci invita ad ascoltare più che a parlare. Sii “pronto ad ascoltare e lento a parlare” (Giacomo 1:19).

Ascoltare!
Com’è possibile ascoltare se siamo stati, sin dalla nascita, stimolati a parlare? Il repertorio è colmo di risposte preconfezionate adatte a qualsiasi richiesta o situazione sociale. E se dovessimo essere senza cartucce, subentra il formulario evasivo. Tra genitori e figli, fratelli e sorelle, uomini e donne, ecc., esiste una particolare sindrome: il dialogo audioleso. Questa malattia crea un vuoto esistenziale empatico distinto dalla reciproca incomprensione a causa dall’incapacità di ascoltare col cuore.

Ascoltare significa essere aperti e disponibili e realmente interessati a ciò che l’altro anela condividere. Significa avere voglia di apprendere e di sorprendersi, senza interrompere e formulare conclusioni esprimendo tediose opinioni. Significa accettare le emozioni altrui anche quando contrastano con le proprie e accettare di non avere sempre ragione. Tutto questo non fa parte del nostro bagaglio educativo e culturale. Perciò, ascoltare è un’arte che s’impara. E per assimilarla bisogna in qualche modo svuotarsi dell’”io so” e istituire uno spazio nel nostro cuore affinché l’altro possa coesistere amorevolmente.

In breve, parlare è rilevante quando esprimiamo con grazia (cfr. Colossesi 4:6), gratitudine, lode, stima in risposta a una richiesta d’aiuto, ma non quanto ascoltare. Ascoltando s’impara a vivere meglio con se stessi e con gli altri. Favorisce lo sviluppo del carattere. Crea individui intelligenti e riduce nell’altro la paura delle emozioni negative. Ascoltare trasmette speranza, fiducia, stabilisce o rinsalda i legami emotivi e riconosce la dignità della persona. “Sappiate questo, fratelli miei carissimi: che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare” (Giacomo 1:19).

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

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