Francesco Zenzale – “Ora, se voi sapeste che cosa significa ‘Voglio misericordia e non sacrificio’, non avreste condannato gli innocenti; perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato” (Matteo 12:7-8).

Non è facile accettare l’idea di essere giudicato, specialmente se il tuo percorso di crescita è stato segnato da un contesto familiare di specchi giudicanti. Si ha l’impressione che ogni attività sia manchevole, di essere inadeguato, non all’altezza delle attese altrui o della situazione. Poi c’è quel tipico senso di colpa che sgorga dalla dolorosa sensazione di aver sbagliato qualcosa. Con timore, aspetti che l’altro, superiore nel servizio retribuito, esprima il suo giudizio. Una via crucis accentuata dalla meritocrazia e da un insegnamento religioso-culturale che non permette di muoversi secondo le convinzioni ispirate da Cristo o dalla coscienza.

Il dolore è marcato anche dall’incapacità di reagire, di considerare che la valutazione dell’altro sia soggettiva, che i parametri cui s’ispira fluiscono dall’esperienza personale e che potrebbe avere le tue stesse paure, camuffate da atteggiamenti prevalenti, dall’esperienza acquisita e dalla mansione di competenza vissuta impropriamente.

Giudicare è facile. Si analizza lo stile di vita, tenendo conto se ciò che l’altro dice e fa non danneggi l’entourage in cui si opera. Si fa appello al passato, all’importanza di mantenere discutibili equilibri e alla Bibbia, per poi erompere con il biasimo edulcorato con una superficiale comprensione della problematica. Anche il sentito dire è più conveniente dell’ascoltare col cuore. Incunearsi nell’animo umano è una perdita di tempo. Chi riferisce è più credibile di chi si racconta. L’importante è agire sull’apparenza con suggerimenti che si riveleranno fallibili.

L’equipe teologico-amministrativa al tempo di Gesù amava giudicare, condannare degli innocenti con facilità impressionante. Poco importava quel che Gesù diceva e faceva. L’interesse personale, come anche il prestigio acquisito era sovrastante a ogni inventiva di buon senso e a ogni atto di accoglienza, di perdono e di riesame delle proprie convinzioni. Ciò che contava è accentuare la colpa, il disagio morale e spirituale. Condannare e asservire i fedeli traendo encomi e possibilmente vantaggi economici.

Gesù si sottrae a questo perverso gioco. Rifiuta di stare dalla loro parte e sceglie di annunciare la libertà interiore agli umili, agli schiavi, agli afflitti, ecc. (Isaia 61:1-3). Una scelta valutata, dai supervisori, degna di condurlo al patibolo (Matteo 12:14).

Voglio misericordia! Questo era il suo messaggio e il suo modus vivendi. Il regno di Dio è un regno di misericordia e non di specchi giudicanti. È un regno di accoglienza, dove i pubblicani, le prostitute, uomini e donne avviliti dal senso d’inadeguatezza sono redenti dalla sua grazia.

Paolo scriveva: “Non c’è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” (Romani 8:1). Nessuna condanna! Che messaggio incisivo e liberatorio! L’estimo degli altri e di noi stessi potrebbe anche esprimersi in termini di condanna, di rifiuto o di disapprovazione, ma il giudizio potrebbe essere inopportuno e sbagliato. L’estimo di Dio, indubbiamente è intelligente e acuminato (Proverbi 21:2; 1 Corinzi 4:5), tuttavia egli preferisce la misericordia, più che la condanna o inutili sacrifici votivi.

Agli abitanti di Ninive, verso i quali Giona aveva espresso biasimo, Dio offre la misericordia. Alla giovane prostituta, sulla quale pesava la condanna a morte dei suoi aguzzini, Gesù esprime parole di perdono e di accoglienza. Al paralitico, calato dal soffitto, prima di guarirlo Cristo gli concede la compassione. A Pietro che lo invita ad allontanarsi dalla sua esiguità, il Maestro lo invita a diventare pescatore di uomini (Luca 5:8). E dopo qualche anno, rinnegandolo, nonostante il preavviso, lo perdona e lo reintegra (Matteo 26:34, 74-75; Giovanni 21:15-19).

Parole e gesti empatici, di misericordia, di accettazione e di condivisione. Sulla croce fra le sue ultime “carezze” ricordiamo quelle rivolte al ladrone: «tu sarai con me in paradiso» (Lu 23:40-43) e quelle indirizzate ai suoi carnefici: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (v. 34).

Non è facile perdonare, accogliere, comprendere l’altro e lasciare che si avvicini a Gesù da solo. Ci sentiamo quasi obbligati ad accompagnarlo, valutando se il suo percorso sia attendibile quanto il nostro, dimenticando facilmente che il nostro cammino non è poi così levigato. Facciamo fatica a concedere fiducia, a lasciare che l’altro sia accolto tra le braccia del Padre e festeggiato. Preferiamo rivendicare di essere nella casa del Padre con sacrificio e devozione (cfr. Luca 15:11-32).

Il nostro perdono purtroppo è distinto dai se, dai ma e da una stabile presenza valutativa. Siamo specchi giudicanti. Le nostre mani non sono vuote e non esprimono empatia. Avviluppano pietre pronte per essere scagliate. Dobbiamo liberarcene gettandole per terra (Giovanni 8:7). Rendere visibile la trave dalla nostra coscienza (Matteo 7:3-5) e lasciarci opacizzare dalla grazia di Dio, affinché l’altro non rispecchi la nostra immagine o percezione morale, ma quella di Cristo.

“Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza” (Colossesi 3:12). “Beati i misericordiosi, perché a loro misericordia sarà fatta” (Matteo 5:7).

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

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