L’esperienza della salvezza nasce necessariamente da quella della perdizione. Pare strano parlare di perdizione in un momento storico come il nostro in cui generalmente i fenomeni psicologici dell’autonomia, dell’autosufficienza, dell’autorientamento sono alla base della concezione individualista della società occidentale. Eppure, guardando oltre i modelli culturali proposti dai mass media, scorgiamo un uomo profondamente perplesso, incapace spesso di porsi in relazione con gli altri, incapace di cogliere il significato ultimo della propria esistenza, ma anche di rassegnarsi a non vederne alcuno.

Al di là degli slogan che propongono uomini e donne sempre giovani, belli, attivi, vediamo masse di individui che si sentono emarginate, che sentono di non avere o di aver perduto i requisiti indispensabili per soddisfare le esigenze di una società basata più sull’avere che sull’essere.

Ma proprio quando l’’essere umano scende nella profondità della sua esistenza, quando sente il rimpianto per una vita spesa inutilmente, può essere raggiunto dalla grazia di Dio. Una grazia che lo aiuta a ritrovare la pace con se stesso e con gli altri, perché è solo nell’esperienza del perdono di Dio che si instaurano anche delle relazioni interpersonali positive.

A volte siamo imprigionati in una gabbia di rancori o siamo ossessionati dai nostri errori. Ebbene, Gesù ci invita a vivere l’esperienza del perdono e della trasformazione. «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo» (Mt 11:28). Ricordiamo l’esperienza del «figlio prodigo»: ritornando a casa, si aspettava d’incontrare un padre adirato, pronto a recriminare e invece l’incontro ha smentito ogni sua aspettativa. Il padre gli butta le braccia al collo, lo bacia e lo riporta a casa, la sua casa.

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