Una riflessione sulla malattia e la sofferenza.

Francesco Zenzale – Quando si è giovani o in buona salute si ha l’impressione di essere eterni. Al contrario, la malattia, soprattutto quella inguaribile, polverizza questa illusione. Ti rende consapevole che il tempo è la vita; la vita che hai vissuto, fatta di tante esperienze belle e brutte, di sogni realizzati e distrutti, di emozioni gioiose e avvilenti, che non puoi rivivere, ma da cui trarre validi insegnamenti; la vita che rimane e corre inesorabilmente verso l’ultimo respiro.

Il tempo che abbiamo il privilegio di vivere, che fluisce dalla grazia di Dio (Lm 3:22), deve essere ancora decorato. Che la tela sia corta o lunga non è rilevante. Non potevamo conoscere il giorno in cui siamo nati e non siamo in grado di sapere l’ora in cui l’esistenza fluisce nella polvere (Gn 3:19). Perciò, è rilevante scegliere responsabilmente i colori, modulandoli secondo le aspettative e le prospettive esistenziali.

Il tempo e il dolore
All’inizio della mia esperienza di emodializzato per circa quattro ore al giorno tre volte la settimana, e per diversi mesi, ho cercato di reagire alla mia sofferenza “miniando” il tempo, con il silenzio e la sete di conoscenza. Adagiato sul letto “di dolore”, ponevo numerose domande alle infermiere sulla dinamica dell’emodialisi. In seguito ho cercato di disegnare delle nuove “nuance” con chi era nella medesima condizione, ascoltando e raccontandomi con ironia, empatia e incoraggiamento.

Ma queste sfumature esistenziali non sempre si possono fissare sulla tela, perché la capacita di andare oltre la propria fragilità è ardua e non tutti, per carattere ed esperienza, ci riescono. La sofferenza protratta è come un muro invalicabile e spinoso che disattiva il sorriso, il dialogo costruttivo e ogni forma di trascendenza terrena e spirituale. Si continua a credere e a sperare nel Dio silenzioso e apparentemente lontano, ma il tuo modus vivendi contraddice questo anelito celeste. Ti ritrovi solo, piegato su te stesso e consapevole che il tempo che resta da vivere è legato alla terapia emodialitica o a quello approssimativamente indicato dai medici.1 La voglia di non esserci delle volte è forte e insistente.

I colori sono indistinti e poco sfavillanti e il dipinto riflette l’immagine di un uomo incerto, stanco e avvilito. L’angoscia ha già compromesso lo spazio che deve ancora essere vissuto. L’amore dei propri cari non è recepito dovutamente,2 si è incapaci di “mettere l’altro dentro il cuore”. Si fatica a morire al dolore per poi risuscitare e reinventarsi la vita per il tempo che resta e che non indugia.3

L’affermazione del sé nella sofferenza
L’autoritratto, espressione del sé, esprime anche l’immagine escludente dell’altro come persona. Questo pensiero è molto presente nell’odierna realtà sociale e familiare. L’idea di possesso e di profitto hanno acquisito un’estensione tale da indurci a credere che l’altro sia un prodotto da usare fino a quando potrà esserci utile.4

Nella sofferenza, prolungata,5 questo concetto può accentuarsi e diventare una trappola per i nostri cari. L’incapacità di accettare la propria condizione di salute e di reagire con dignità e da “eroe” della fede (Eb 11: 35-40), favorisce l’ambiguo pensiero che tutto ci sia dovuto. Che gli altri devono essere al nostro servizio senza condizioni ed emozioni. Solo per noi e non noi per l’altro.

Il paradosso di questa insolita relazione è che nonostante la “prestazione”, il sofferente persiste nel lamentarsi di tutto e di tutti, accentuando la sua angoscia e privandosi della gioia di amare e di sentirsi amato. Di fatto, la trasposizione dell’altro da persona a oggetto, non può soddisfare appieno il bisogno di amore, di reciproco affidamento e di trascendenza.

Tuttavia la tela (la vita o il tempo) che dobbiamo ancora decorare è dono elargito da Dio a tutti gli esseri viventi. Ciò significa che il dipinto non deve riflettere solo la nostra immagine, ma anche quella familiare e sociale. Il canto religioso “The Prayer”, di Andrea Bocelli, lega la salvezza a un sogno, quello di vivere in un mondo senza più violenza e supremazia, caratterizzato da speranza, giustizia, pace e fraternità.

Il concetto espresso in questa bellissima preghiera è molto semplice: “mettere l’altro dentro di noi”, nella nostra sfera affettiva e non come “oggetto”, ma come persona rispettata e amata. Soli si muore, con e senza il dolore.

La tela di Giobbe
Ho letto più volte la storia di Giobbe, cercando di capire il suo quadro esistenziale e il modo in cui l’ha pennellato. In primo luogo mi sembra di cogliere un sano orgoglio spirituale per ciò che è stato il suo passato, prima dell’indescrivibile tragedia (Gb 27:1-6). Una tela tinteggiata di amore, giustizia sociale, solidarietà, saggezza, autostima, ecc. (Gb 29). Un tempo vissuto senza rimpianti!6

Poi, all’improvviso, questo meraviglioso dipinto esistenziale, è imbrattato dal dramma della morte dei figli, dalla crisi economica e dalla malattia. I suoi amici, imbevuti da errate idee sull’agire di Dio, cercano di infondergli falsi sensi di colpa. Senza trascendere le loro convinzioni religiose, affermano con veemenza che il dramma che Giobbe stava vivendo è consequenziale al peccato e pertanto lo invitano a confessarlo e a pentirsi. Ma Giobbe, benché ignaro del motivo di tanta sofferenza, si difende da questa insinuante accusa affermando di essere innocente: “il cuore non mi rimprovera uno solo dei miei giorni” (27:6).

In questo nebuloso affresco dalle tinte fosche e mendaci, contrassegnato dal silenzio di Dio, Giobbe prende le distanze dall’angoscia e dall’incapacità di ghermire ciò che stava vivendo.7 La sua fede tracima in un atto di totale abbandono: “Ma io so che il mio Redentore vive e che alla fine si leverà sulla terra. Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, nella mia carne vedrò Dio. Lo vedrò io stesso; i miei occhi lo contempleranno, e non un altro. Il mio cuore si strugge dentro di me” (19:25-27, ND).

Il quadro virtuoso di Giobbe termina con l’intervento di Dio. Dopo indicative riflessioni sul senso della vita, il testo ci informa che Giobbe riacquistò la prosperità: “Il Signore benedì gli ultimi anni di Giobbe più dei primi” (capitoli da 38 a 42).

Non per tutti il lieto fine è garantito in questa vita, ma certamente ci è promesso nella vita eterna.

Alla fine… un nuovo inizio
Ci sono sofferenze, malattie, drammatiche situazioni sociali, politiche ed economiche insuperabili, alle quali la sola risposta che possiamo dare è un atto di fiducia che trascenda l’umana esistenza. Solo nel regno di Dio si comprenderanno e si risolveranno per sempre (Ap 21:1-8; Is 35).

Con questa prospettiva esistenziale ed eterna, i colori della vita sono come quelli dell’arcobaleno. Oltre ai toni foschi e oscuri (il pianto, i dubbi e le delusioni), possiamo pennellare e ammirare i colori della primavera: del sorriso e della speranza.

La fede premia, ma non nell’immediato! Essa è lotta contro la delusione, le plumbee tinte della vita, la derisione della speranza, l’incomprensione di chi ti sta vicino, della collettività di appartenenza e del silenzio di Dio. Ma alla fine la pace, il benessere, la prosperità, la salute fisica, la contentezza e la soddisfazione trionferanno (1 Corinzi 15: 41-54). Shalom!

 

Note

1 Penso a chi è malato di tumore o nella fase terminale della vita. Ad esempio un emodializzato di novant’anni.

2 Le carezze dell’altro sono recepite come gesti pietosi e non come amore voluto e disinteressato.

3 Jean Lacroix, diceva: «L’amore impone una disarticolazione anticipata di sé stessi, ma quest’atto così difficile da sradicarsi è anche una nuova creazione, perché è come mettere un altro dentro di noi, che diventa più importante di noi stessi. Amare è morire per poi risuscitare».

4 I bambini sono maggiormente esposti a questo atto di cosificazione dell’uomo.

5 Non necessariamente intensa e fisica, ma soprattutto esistenziale ed emotiva.

6 I rimpianti fluiscono dai sogni infranti, dall’incapacità di accettare la propria fragilità e dal perdonarsi e dal lasciarsi perdonare, guardando al futuro. “Mentre dai e ricevi il perdono, concentrati sul recupero del rapporto, venendo incontro all’altro, lasciando il passato alle spalle. Perdonare non significa fare i conti, bensì lasciar andare il proprio bagaglio emozionale, il biasimo, la vergogna, e il bisogno di aver ragione. Se sei sincero nel tuo desiderio di perdonare te stesso e gli altri, non sprecherai tempo cercando di riprendere antiche discussioni, spiegando la tua posizione, accusando e contro accusando, o assegnando responsabilità: chi ha detto che cosa a chi, dove e quando. Il tentativo di ridiscutere sui torti subiti, spesso allarga la breccia tra le persone, anziché chiuderla. Focalizzati sulla relazione e sul tuo desiderio di recuperarla” – Karen O’CONNOR, Restoring Relationships with Your Adult Children, Thomas Nelson Publishers, 1993, p. 174.

7 Conoscere e vivere nei propri limiti è sinonimo di saggezza. Paolo scriveva: “Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia: ora conosco in parte; ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto” (1 Cor 13:12).

 

 

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