Michele Abiusi – L’apostolo Paolo, scrivendo ai Romani, evoca le sofferenze della creazione in attesa di salvezza, paragonandole a una donna che soffre le doglie del parto in attesa della gioia di una nuova vita. Poi continua: “Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8:18-23, Cei).

Chi guarda il nostro pianeta con uno sguardo sensibile al dolore dell’umanità lo vede costellato di ferite sanguinanti: dagli abitanti di quelle bidonville così somiglianti a discariche umane – sempre simili a se stesse sia che si trovino a Nairobi, al Cairo o a Manila – alla gente dello Zambia martoriata dall’aids; dai bambini di strada in America Latina, ai malati senza assistenza a Calcutta e ai due popoli ostaggi dell’odio in Palestina. Per non parlare dell’emigrazione clandestina, i cosiddetti “viaggi della speranza” che spesso si trasformano in disperazione e tragedia…

La nostra fede non fa di noi dei privilegiati fuori dal mondo, noi “gemiamo” con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, “le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende” (1 Giovanni 2:8, Cei).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare nella società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

La nostra speranza si esprime nel nostro stile di vita
Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. Grazie a Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo, superando divisioni di ogni tipo. Quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2:42-47). Si sforzavano di avere “un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento” (Filippesi 2:2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2:15).

Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra. “Maranathà!” era il motto dei primi credenti: il Signore viene!

Abbiamo nel cuore tante speranze. A volte sono positive, elevate, belle e giuste. Rischiano però, in alcuni casi, di essere egoistiche e basse se non anche malvagie e discriminanti. Abbiamo allora bisogno di guardare alle speranze di Dio, il nostro punto di riferimento. Quali sono?

Cercando testimonianze bibliche a questo riguardo, si ha solo l’imbarazzo della scelta. Ne cito quindi solo alcuni che, a mio avviso, rendono un’idea abbastanza completa.
Di fronte alla morte e al male, Dio ha sempre invitato gli uomini a stare con lui, scegliendo il bene e la vita (Deuteronomio 30:15-20).
Ha sempre invitato, particolarmente il suo popolo, alla rettitudine e alla giustizia, rifiutando lo spargimento di sangue (Isaia 5:7).
Dio spera che gli uomini per trovare soluzioni ai loro problemi, cerchino innanzitutto lui: “È tempo di cercare l’Eterno, finch’egli non venga” (Osea 10:12, Luzzi).
E l’invito diventa sempre più pressante ed amorevole: “Israele…, torna al tuo Dio!” (Osea 14:1).
Perfino per l’evento che chiuderà la storia dell’umanità, il glorioso ritorno di Cristo, Dio attende pazientemente; forse “tarda” a tornare perché desidera che nessuno “perisca ma che tutti giungano al ravvedimento” (2 Pietro 3:9).
Dio spera che in questo periodo di crisi mondiale, l’uomo torni ad alzare lo sguardo al cielo e a cercarlo per soddisfare tutti i suoi bisogni, e possa dire: “abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivente” (1Timoteo 4:10).

 

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