È l’avventista Jacqueline Galloway Blake. “Combattere per la giustizia è un mandato biblico” afferma.

HopeMedia Italia – Nel 1963, Jacqueline Galloway Blake aveva 15 anni e viveva a New York. Fu entusiasta quando i suoi genitori la lasciarono viaggiare in un autobus pieno di membri della comunità per partecipare alla marcia su Washington per i diritti civili. 57 anni dopo, la donna, consulente didattico e conduttrice radiofonica, membro della chiesa avventista “Inkster Sharon” nel Michigan, ha marciato di nuovo a Washington per protestare pacificamente contro la brutalità e chiedere giustizia.

Qui di seguito, Jacqueline ricorda la marcia del 1963 e condivide l’esperienza del 2020 oltre a riflettere sul ruolo della protesta pacifica per lei cristiana, credente nella Bibbia e membro della chiesa avventista.

Ricordo vividamente i dettagli di quello storico viaggio verso la marcia per “Lavoro e Libertà” con il past. Martin Luther King e più di 250.000 altre persone. Volevo unirmi ai giovani che protestavano coraggiosamente e fui sorpresa quando i miei genitori mi permisero di viaggiare da sola su un autobus carico di sconosciuti.

Guardando fuori dal finestrino dell’autobus, rimasi sbalordita nel vedere così tanti autobus sull’autostrada del New Jersey, tutti diretti a sud. Una volta in mezzo alla folla, camminai sul prato erboso della piazza del Lincoln Memorial e sentii un senso quasi palpabile di attesa, fratellanza ed eccitazione. Stava per succedere qualcosa di grande.

I miei genitori mi avevano detto che sarebbero stati presenti alcuni dei nostri parenti del sud segregato. Nell’enorme raduno multiculturale riconobbi le celebrità, anche se non le avevo mai viste.

Iniziata la marcia, eravamo uniti stretti sotto il caldo sole di agosto, ma eravamo così ansiosi di effettuare il cambiamento che trascurammo quei disagi. Ricordo bene la musica e le mani che si stringevano mentre la folla, piena di speranza, cantava l’inno del movimento: We Shall Overcome.

Eravamo venuti, come affermò il past. King, per “incassare l’assegno” che era stato restituito contrassegnato come “fondi insufficienti”. Altri americani potevano votare senza vessazioni, sedersi nella parte anteriore degli autobus, mangiare nelle mense, dormire in qualsiasi hotel, frequentare la nuova scuola elementare pubblica e usare i bagni dei ristoranti sulla New Jersey Turnpike, ma non noi. Per questo motivo marciai nel 1963.

In marcia nel 2020
57 anni dopo, ho marciato di nuovo nello stesso luogo, nella stessa data. Sebbene i segnali di segregazione siano stati rimossi, ci sono ancora motivi per cui lottare. Al giorno d’oggi, la segregazione è più segreta. Può provenire da una persona che indossa un bell’abito e siede al Congresso o sul banco di un giudice, o al tavolo di un pubblico ministero.

Credo che anche la soppressione degli elettori abbia un nuovo aspetto. Non sono più le tasse elettorali che mio nonno doveva pagare, indovinando il numero di biglie in un barattolo o leggendo e interpretando passaggi difficili della Costituzione degli Stati Uniti. Non si tratta di essere picchiato o licenziato dal lavoro, come lo fu mio zio, semplicemente per aver cercato di registrarsi per votare o per protestare contro le ingiustizie. Oggi, la soppressione degli elettori è l’annacquamento del Voting Rights Act del 1965, conquistato a fatica, e la chiusura dei seggi elettorali. Sta riducendo le ore di voto e sta tentando di eliminare i cittadini idonei dalle liste elettorali.

Dal 1963 al 2020, vedo che persiste la necessità di protestare, poiché l’ingiustizia rimane.

Perché continuo a marciare
La Bibbia definisce chiaramente la risposta verso il nostro prossimo bisognoso, uno straniero che subisce oppressione, le vittime di ingiustizie, i “miei minimi fratelli” (Matteo 25:40). A mio modo di vedere, le parole di Gesù al suo ritorno, quando i capri vengono separati dalle pecore (cfr. Matteo 25:31-34), non lasciano dubbi sulla responsabilità del cristiano di opporsi alla brutalità e all’ingiustizia.

Oltre alle ammonizioni bibliche, l’esempio di Paolo è un modello per rispondere alle percosse illecite e alla reclusione. Quando il miracoloso terremoto spezzò le catene e aprì i cancelli della prigione, Paolo parlò del suo ingiusto trattamento da parte dei pretori e si rifiutò di andarsene finché non fosse stata fatta giustizia (cfr. Atti 16:22-39).

Allo stesso modo, a voce e con la penna, Ellen G. White, co-fondatrice della Chiesa avventista, sostenne la questione dei diritti civili ai suoi tempi, protestando contro la schiavitù. “Tutti gli abusi e le crudeltà esercitati verso lo schiavo sono giustamente addebitabili ai sostenitori del sistema schiavista, siano essi uomini del sud o del nord” scrisse (Testimonies for the Church, vol. 1, p. 266).

Dopo l’emancipazione, continuò a difendere la vita dei neri: scrisse il libro Our Duty to the Colored People (Il nostro dovere verso le persone di colore); sosteneva il battello missionario la cui opera pionieristica nel sud fu importante per la realizzazione di quella scuola di formazione per i giovani afroamericani che è oggi la Oakwood University.

Il mandato di agire resta. E così, dopo 57 anni, ho marciato di nuovo su Washington. A mio avviso, continua il battito regolare dei piedi stanchi, che marciano per la “giustizia per tutti”.

[Foto: Jacqueline Galloway Blake. Fonte: Adventist Review]

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