Michele Abiusi – L’ultimo comandamento della Torah completa e riassume il pensiero della seconda tavola della legge: “Non concupire la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo” (Esodo 20:17).

Dio parla ancora di rispetto del prossimo, della sua famiglia e delle sue proprietà, ma questa volta si situa a livello dei pensieri, dei desideri, prima ancora dell’azione. È un precetto preventivo, cioè vuol prevenire il male, il furto, l’adulterio, l’omicidio, la maldicenza o la falsa testimonianza, bloccando sul nascere i pensieri malvagi contro il prossimo.

Ogni azione ha la sua origine nel pensiero. Ricordo la storia di Caino e Abele. Prima che Caino uccidesse il fratello, Dio gli aveva parlato mettendolo in guardia: “Il Signore disse a Caino: ‘Perché sei irritato? E perché hai il volto abbattuto? Se agisci bene, non rialzerai il volto? Ma se agisci male, il peccato sta spiandoti alla porta, e i suoi desideri sono rivolti contro di te; ma tu dominalo!’” (Genesi 4:6,7)

Dio tentò di evitare il peggio parlando con amore a Caino perché prendesse coscienza di cosa il suo pensiero stesse sviluppando. Dominare il desiderio significava fermare in tempo la mano omicida. Anche Gesù si espresse su questo principio: “Voi avete udito che fu detto: ‘Non commettere adulterio’. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore’” (Matteo 5:27,28).

Come per il comandamento “non uccidere” Gesù amplia il significato dicendo di non dire neppure “stupido” all’altro, così l’adulterio per il Maestro inizia già dal desiderio. In altre parole, Gesù invita a un controllo della propria mente, a un’“igiene mentale”, diremmo oggi. Colui che riesce a dominare la propria mente e i propri desideri è una persona che si pone in un cammino di libertà.

Con l’ultima parola si passa dai comandamenti, la cui obbedienza può essere verificata da chiunque, al principio che annuncia un rapporto spirituale con Dio. Solo lui saprà se io desidero… È quindi un invito a una religione libera da apparenze e da riti più o meno magici. Potrò vivere una fede di libertà quando avrò sviluppato un rapporto con Dio reale, profondo e del tutto personale.

Desiderare ciò che non è mio, ciò che appartiene all’altro, credere che ciò che possiede il prossimo sia importante e indispensabile per me, pensare che la mia felicità provenga da ciò che l’altro possiede o rappresenta, tutto questo desiderio eccessivo dell’“altro” rivela il rifiuto di me stesso. Non sono soddisfatto di come sono, di cosa faccio, della mia famiglia o di cosa possiedo. Più mi concentro sugli altri più mi svaluto. Perdermi negli altri è rifiutare di vivere pienamente ciò che sono, è… morire poco a poco.

Quindi “non desiderare” o “non concupire” ciò che è del mio prossimo, significa riconoscere, accettare e valorizzare se stessi e la propria famiglia. Significa, in definitiva, porre i presupposti giusti per essere felici.

Dal primo al decimo comandamento 
Adesso osserviamo, in conclusione, il collegamento tra il primo e l’ultimo dei dieci comandamenti, passando rapidamente dagli altri. Le dieci parole iniziano parlandoci di un Dio di misericordia, che capisce le sofferenze umane e interviene per salvare. Il Signore della Torah è il Dio che libera: “Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù”.

Quando si conosce e si accetta un Dio simile non è possibile metterlo in secondo piano o scartarlo a favore di altre persone o di statue e immagini, chiunque esse rappresentino. Le nostre preghiere, le nostre richieste devono rivolgersi a Dio. Solo lui ci perdona, solo lui ci salva, solo lui ci è Padre. Un giorno, a nome del gruppo degli apostoli, Pietro rispose a Gesù che proponeva loro di scegliere chi seguire. “Simon Pietro gli rispose: ‘Signore, da chi andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna; e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio’” (Giovanni 6:68,69).

Le dieci parole continuano invitandoci a un etica sociale in cui riconosco i miei e gli altrui diritti. Rispetterò la mia famiglia (onora tuo padre e tua madre…) ma anche la tua (non commettere adulterio…); rispetterò la mia e la tua esistenza (non uccidere…, non rubare…, non dire il falso).

Le dieci parole terminano dicendoci che a questo punto non posso desiderare nient’altro e nessun altro…
Mi sono avvicinato a Dio, ho compreso il valore di credere in lui e di amarlo; mi sono avvicinato al mio fratello, ho capito il mio e il suo valore e ho accettato la mia responsabilità nei suoi confronti. Ho capito di essere ciò che mi basta. Sono libero, sono felice e tutto questo grazie a Dio.

Con un tale Dio-Padre non posso desiderare niente e nessun altro!

 

 

 

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