Davide Romano – Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha concluso il suo mandato presidenziale, e sappiamo già che mancherà a tutti noi. Gli apprezzamenti, pressoché unanimi, ricevuti, riflettono senza ombra di dubbio le qualità umane e politiche di cui egli ha dato prova in questi lunghi sette anni.

Succeduto a Giorgio Napolitano, ha condiviso con quest’ultimo la non felice sorte di dover espletare il proprio incarico anche in soccorso, e in misurata reggenza, di altri poteri della repubblica che, specie nel biennio 2018-19, non hanno dato particolare prova di equilibrio, di solidità e di abilità di governo.

Poi è arrivata la pandemia e si è concretizzato uno scenario praticamente inedito per chiunque. Credo rimarrà scolpito nella memoria visiva di tutti il fuorionda – studiato o meno che fosse – del saluto presidenziale del 31.12.2020 quando ebbe a doversi quasi giustificare con il suo responsabile della comunicazione per i capelli un po’ spettinati, frutto del lungo lockdown che anch’egli aveva rigorosamente osservato astenendosi dal chiamare il “barbiere” al proprio servizio.

Congediamo dunque un presidente che ha incarnato con grande equilibrio, con piglio deciso quando occorreva, ma mai scomposto, i valori della Repubblica e consegna al successore intatte le prerogative funzionali. Obiettivo prezioso per qualunque presidente.

Tutto bene dunque? Quasi tutto!

C’è un punto, piccolo, molto piccolo per carità, che vorremmo sollevare alla sua garbata attenzione e che ha trovato conferma anche nel recente messaggio di augurio: il presidente Mattarella non ha mai ritenuto nei suoi messaggi augurali di fine anno di dover ricordare – non dico ringraziare – coloro che professano una fede religiosa diversa, e che in nome di quella fede agiscono come operatori di pace e di convivenza laboriosa.

L’unico magistero, sovente accompagnato dall’aggettivo “alto” (enfasi perfino superflua), riconosciuto, fervidamente ringraziato e lodato, è sempre stato solo quello di papa Francesco, inaugurando con ciò uno stile reverenziale che, ad esempio, non era presente con tali accenti nel predecessore.

Orbene, non sfugge a nessuno che il vescovo di Roma svolga, come dire, una funzione oltremodo nota, apprezzata e di grande rilevanza, innanzitutto per il mondo cattolico. Non sfugge a nessuno che costui sia anche un capo di stato singolarmente “vicino” al cuore della Repubblica italiana.

Cionondimeno la nostra nazione è da sempre anche patria di molti cittadini e cittadine che professano una fede religiosa diversa, spesso un’altra forma di cristianesimo – quella evangelica, o ortodossa orientale o quella anglicana. Essa è anche patria di una antichissima presenza ebraica estremamente radicata nella cultura italiana e di una antica presenza musulmana, pacifica e laboriosa, che non merita di essere chiamata in causa soltanto per aggettivare le pur gravi azioni terroristiche di taluni gruppi.

E poi ci sono religioni non abramitiche, di più recente radicamento, ma non meno importanti anche per numero di appartenenti e che hanno nel recente secondo decennio del nostro secolo ottenuto delle intese con la Repubblica italiana.

Tutto questo panorama religioso frastagliato ed estremamente plurale, ma ricco di cultura, di arte, di storia, di liturgia, e che accomuna circa il 10% della popolazione italiana, esprime anche dei magisteri. Perché questi magisteri “minori”, se vogliamo proprio dir così, non meritano alcuna considerazione nei saluti e nei messaggi presidenziali?

Permane dunque la persistente volontà, incarnata anche dalle massime cariche istituzionali, di rappresentare l’Italia come una nazione sostanzialmente monoreligiosa, con piccoli trascurabili cespugli di diversità sui quali si può tranquillamente glissare. Almeno nelle occasioni che contano.

Quasi ogni diversità è stata negli anni riconosciuta ed esplicitamente richiamata dal presidente Mattarella: la diversità culturale, la diversità sociale, la diversità politica, la diversità valoriale, la diversità linguistica, la preziosa risorsa dei diversamente abili, con un plauso per l’enorme ricchezza che tali differenti sensibilità apportano alla Repubblica, tranne la diversità religiosa.

Soltanto nel messaggio augurale del 31.12. 2015, ebbe, in realtà, un accenno quasi incidentale alle “altre fedi”, ma all’interno di un discorso, pur importante, sulle esperienze ben riuscite di integrazione delle comunità straniere. Siamo così commossi che riproponiamo volentieri quel passaggio:

“Sperimentiamo giorno per giorno sui banchi di scuola, al mercato, sui luoghi di lavoro, esperienze positive di integrazione con cittadini di altri Paesi, di altre culture e di altre fedi religiose”. Fine della citazione.

Oltretutto non sono mancate in questi sette anni le ricorrenze storiche adatte, per così dire, a fornire il pretesto per un pubblico riconoscimento delle minoranze religiose del nostro Paese, del loro ruolo e dell’importanza di una pacifica convivenza nel segno di una compiuta affermazione della libertà religiosa ancora da traguardare.

Alcuni esempi: la ricorrenza nel 2015 dell’80° anniversario dalla promulgazione della infame circolare Buffarini -Guidi (1935) contro i pentecostali e contestualmente il 60° dalla sua abrogazione; oppure l’80° anniversario nel 2018 della promulgazione delle leggi razziali, che meglio di qualunque altra occasione avrebbero fornito senz’altro lo spunto per riflettere sulle conseguenze incalcolabili della violenza ideologica e dell’odio razziale e culturale, proprio in quel messaggio del 31.12.2018 contrassegnato peraltro dalla esortazione a rifuggire l’intolleranza, l’astio e l’insulto.

O ancora nel 2017 l’occasione del cinquecentesimo anniversario della Riforma protestante, celebrata in tutta Europa e anche dal protestantesimo italiano non più sotto il segno della rivendicazione controversistica ma della nascita di una diversa sensibilità religiosa ed etica, e che non trovò alcun minimo richiamo nel messaggio augurale del 31.12.2017. Oppure, nel recentissimo messaggio augurale del 31.12.2021 avrebbe potuto prendere spunto dalla morte dell’arcivescovo anglicano Desmond M. Tutu, premio Nobel per la pace e campione della lotta contro l’apartheid in Sudafrica, per onorare l’antica comunità anglicana italiana e riconoscere il valore della fede quando viene posta (e non sempre accade) al servizio della pace e della riconciliazione dei popoli.

Purtroppo, nessuna di queste occasioni ha potuto suggerire al presidente Mattarella un puntuale richiamo nei suoi messaggi augurali di fine anno, salvo l’intramontabile e devoto richiamo del magistero di papa Francesco.

Non si dica naturalmente che in singole occasioni il presidente non abbia incontrato le rappresentanze di chiese e di corpi religiosi, proferendo parole di elogio e di ringraziamento. Ma tali occasioni, pur gradite e importanti, non generano alcun impatto mediatico e non favoriscono quindi la maturazione di una coscienza nazionale davvero religiosamente plurale e rispettosa delle diverse identità presenti e dei diversi magisteri operanti.

Nel salutare, dunque, con riconoscenza e gratitudine il presidente Sergio Mattarella, non possiamo che auspicare nel futuro presidente della Repubblica una più esplicita e loquace determinazione al riconoscimento pieno della natura religiosamente plurale e laica della nostra Repubblica, senza per questo fare torto a nessuno, men che meno alla Santa sede.  

 

 

 

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