Roberto Iannò – “Papà, l’anno prossimo salgo al Capanna Margherita, il rifugio più alto d’Europa, a quota 4554 m. Vieni anche tu?” mi chiede mio figlio maggiore. “Certamente” rispondo io. E con questa risposta affermativa al suo invito è iniziata una delle esperienze di montagna più emozionati che abbia mai vissuto, e che è diventata anche metafora del viaggio che ognuno di noi può fare nella propria vita.

La preparazione 
“Sforzati di presentare te stesso…” (2 Timoteo 2:15).
Non si raggiunge alcuno obiettivo senza una preparazione metodica, costante e iniziata per tempo. Lo stesso valeva anche per la sfida che avevo davanti: aggiungere più di 1200 metri alla massima altezza che avevo mai raggiunto in montagna. Non che l’ascensione al Capanna Margherita presentasse particolari difficoltà tecniche. Ma si trattava pur sempre di una sfida con se stessi, una prova di resistenza. Dopotutto, un percorso su ghiacciaio, ad altezze sopra i 4000 metri, presenta sempre l’incertezza della stanchezza, o persino del “mal di montagna”, la patologia che può colpire un escursionista o alpinista quando il proprio corpo inizia a soffrire per la ridotta concentrazione di ossigeno nell’aria.

Durante la mia preparazione atletica nei 12 mesi che mi separavano dell’obiettivo, tante volte avrei voluto mollare. E a volte l’ho fatto. MI sono trovato mille scuse per non uscire la sera e andare a correre per potenziare il fiato e la resistenza alla fatica. Ma ho anche imparato che non importava quante volte “mollavo” ma quante volte “riprendevo” il mio programma.

Nella vita capiterà sempre di perdere di vista, per un attimo, per degli attimi, per lunghissimi attimi, il proprio obiettivo. Ma quello che conta è non dimenticarsi del proprio obiettivo. E ripartire. Come afferma la Bibbia, “il giusto cade sette volte e si rialza” (Proverbi 24:16).

La partenza 
“E Pietro, sceso dalla barca, camminò sull’acqua e andò verso Gesù” (Matteo 14:29).
Quando parti per una grande impresa sei sempre determinato. E carico. Carico di energia, di convinzione, di “assoluti”. Anche nel viaggio della vita, spesso è così.

Sono qui, a circa 3500 metri. Ore 4 del mattino. Pronto per l’ascesa che mi porterà, in quattro ore di passo costante, a tratti durissimo, a 1000 metri più in alto, in cordata con i miei quattro compagni e la guida alpina.

Questa determinazione l’ho spesso osservata in quelle persone che hanno un’esperienza spirituale forte e dicono a tutti che a loro non succederà “mai” di abbandonare la fede. Poi, come successe a Pietro, quel “mai” si scontra con l’imprevisto della vita, e iniziano ad “affondare”. Ho notato un simile atteggiamento in quei neogenitori convinti che il comportamento futuro del figlio dipenderà “esclusivamente” dall’educazione che gli daranno, giudicando come poco autorevoli quei genitori che si stanno confrontando con comportamenti poco appropriati dei propri figli. Poi, anche per loro può arrivare il confronto con la realtà e scoprire che nella genitorialità ci sono tanti fattori che influiscono, non per ultimo il principio di autodeterminazione del figlio, e che non tutto può essere controllato. E allora, si scoraggiano e si domandano “ma dove ho sbagliato?”.

In questa ascensione, così come nella vita, dovevo certo confidare nel sentimento di forte motivazione e convinzione che provavo. Ma dovevo essere pronto anche ad affrontare la fatica e lo scoraggiamento che da lì a poco avrei potuto trovare. E che, senza troppi convenevoli, arrivò.

Il cammino 
“Il Signore stesso cammina davanti a te; egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà; non temere e non perderti di animo!” (Deuteronomio 31:8 Cei).
Partiamo. Con un misto di eccitazione, e una diffusa e non ben definita ansia, frutto dell’impatto notturno con la montagna. Davanti a noi il buio più totale, un cielo stellato, e tante file di luci che si muovono lentamente sul ghiacciaio: sono le pile frontali di chi ci ha già preceduto nella partenza.

Affrontiamo la prima salita, il primo “muro” del percorso: la salita al Colle del Lys, a quota 4250 metri, dove avremmo avuto la nostra prima, e unica, pausa. Una pendenza considerevole, ma che affronto abbastanza bene. Nessuna fatica respiratoria né mal di testa. La progressione sul ghiacciaio, con ramponi e imbragatura, procede meglio del previsto. “Sono proprio un alpinista nato” mi dico, un po’ per prendermi in giro e, allo stesso tempo, per motivarmi quel tanto che basta per arrivare in cima al colle. Che raggiungiamo dopo due ore e mezza di salita. A piccoli, ma incessanti, passi.

Molti degli obiettivi che ho raggiunto nella vita sono stati come questo primo tratto: impegnativi ma gestibili. Per fortuna, per tanti di noi, questa è la vita. Forse un po’ troppo imborghesiti, rispetto a chi deve affrontare dure fatiche sin da subito, con risorse economiche sufficienti a superare un’ipotetica glaciazione mondiale e tanta determinazione per conquistare i propri obiettivi. Non sempre il cammino è così. Ma è bello godere di questo tratto. Ci dà soddisfazioni, rafforza la nostra autostima, ci rende consapevoli delle nostre risorse e capacità.

Ma tutto questo, purtroppo, ci ha reso più vulnerabili all’imprevisto e imprevedibili, spiazzandoci e facendoci credere che non ce la possiamo più fare. E allora, basta mettere in conto anche il possibile imprevisto.

La fatica 
“Noi siamo tribolati [in difficoltà] in ogni maniera, ma non ridotti all’estremo” (2 Corinzi 4:8).
Ormai ho superato quota 4000 metri. L’aria è più rarefatta. Il passo regge, ma il respiro, pur se regolare e mai affannato, diventa più frequente, quasi a volere ingurgitare quanto più ossigeno possibile. Sono concentrato sul mio respiro, e anche sul mio pregare. Sì, pregare. Dentro di me, in silenzio. Cosa che, una volta arrivati, ho scoperto che anche qualcun altro ha fatto. Pregare perché Dio mi desse la forza di arrivare in cima. Sentivo dentro di me che i dubbi iniziavano a prendere il sopravvento sulla stima fatta delle mie energie. Ho dubbi se ce la farò veramente. Temo che, da un momento all’altro, allo stremo del respiro, dica “non ce la faccio più. Torno al rifugio da solo”.

Cosa aiuta in questi momenti, oltre che “raschiare il fondo”? È il momento in cui l’essere umano scopre di avere più energie di quanto immagini, più risorse di quanto pensi abbia in riserva. È il momento in cui cambi atteggiamento mentale: da “superuomo”, invincibile e incrollabile, ti vedi “debole” ma che ce la puoi ancora fare. Inizi a concentrarti sui tuoi obiettivi iniziali, sulla voglia di farcela, sul fatto che sarà improbabile di poterci ritornare un’altra volta. Insomma, inizi un dialogo non solo con i tuoi muscoli e polmoni, ma anche con la tua mente. E, pur con fatica, scopri che il tuo corpo sta ancora avanzando.

Nella vita, questo atteggiamento lo chiamo “fede”. Qualcosa che non necessariamente cambia la realtà attorno a te, anche se questo è possibile e più volte sperimentato. Qualcosa che cambia qualcosa dentro di te e ti permette di cambiare prospettiva.

Durante la mia ascesa, ho “creduto” di essere, sì stanco, ma non ancora all’estremo. E così ho proseguito verso la vetta.

L’arrivo 
“per la forza che quel cibo gli aveva dato, camminò quaranta giorni e quaranta notti fino a Oreb, il monte di Dio» (1 Re 19:8).
Mi trovo nel tratto finale, nella parte più ripida di tutto il percorso. Una pendenza di 35 gradi (diciamo, come una pista rossa da sci) costituita dall’ultimo tratto di circa 50 metri di dislivello che mi porterà a guadagnare la vetta e il rifugio Regina Margherita, a quota 4554 metri.

Ho un calo energetico ed evidente svuotamento fisico. “Papà, se vuoi ti porto lo zaino” mi sussurra mio figlio, senza farsi troppo sentire dai compagni di cordata. “Grazie, ma ce la devo fare da solo. Barcollo, ma non mollo” gli rispondo, con un pizzico di nostalgia di quando ero io a dirgli questa frase quando, da piccoli, portavo lui e il fratello in montagna. Questa è la legge della vita, quella graduale inversione dei ruoli che tanto preoccupa noi genitori e a cui nessuno di noi vorrebbe arrivare.

Saranno stati tutti questi pensieri, ma riprendo il cammino e supero questo ultimo dislivello. E di fronte a me, ormai non c’è nessun’altra cima. Sono in vetta. Alla Capanna Margherita, sulla Punta Gnifetti: 4554 metri slm. Riscrivo per l’ennesima volta questa cifra, anche se è più facile digitarla sulla tastiera che raggiungerla.

Da quassù, tutto sembra più piccolo. Le case. Le strade. I fiumi. Persino le mie fatiche, che ormai mi sono totalmente dimenticato, preso dall’euforia dei festeggiamenti. Trovo persino la forza di “spintonarci a vicenda” come per esultare, ed entro nel rifugio con una falcata da eroe, cercando di camuffare l’indolenzimento dei muscoli.

Questa è la forza che Dio può darci di fronte alle sfide che incontriamo nel nostro percorso. La prospettiva che ci regala per vedere, a posteriori, le difficoltà che ci sembravano insormontabili. Anche a imparare dai nostri errori ed avere più umiltà nell’affrontare la vita. Sì, perché questa volta ho raggiunto la vetta. Ma se fosse stata 100 metri più in alto, non so se ce l’avrei fatta.

Aver raggiunto quella vetta, è stata un’impresa che mai avrei immaginato di compiere in questa fase della mia vita. Ma c’è un’altra montagna che non ho mai avuto dubbi di raggiungere: quel “monte” di Dio che rappresenta il suo ritorno. E lì potremo arrivarci tutti assieme. Con fede.

[Foto pervenute da Roberto Iannò]

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