L’incontro con Dio. Terza parte

L’incontro con Dio. Terza parte

Michele Abiusi – Dio desidera le nostre preghiere? Certamente, Dio desidera che lo preghiamo. Citiamo solo alcuni testi biblici:
– “O Signore, al mattino tu ascolti la mia voce; al mattino ti offro la mia preghiera e attendo un tuo cenno” (Salmo 5:3);
– “Cercate il Signore, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino” (Isaia 55:6);
– “Eleviamo le mani e i nostri cuori a Dio nei cieli!” (Lamentazioni 3:41);
– “Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome…” (Matteo 6:9-14);
– “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi bussa” (Matteo 7:7-11);
– “Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano pregare sempre e non stancarsi” (Luca 18:1);
– “Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio” (1 Corinzi 10:31);
– “Perseverate nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie” (Colossesi 4:2);
– “Io voglio dunque che gli uomini preghino in ogni luogo, alzando mani pure, senza ira e senza dispute” (1 Timoteo 2:8);
– “non cessate mai di pregare; in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1 Tessalonicesi 5:17,18).

Dio desidera le preghiere quando scaturiscono da un cuore sincero, pieno di apprezzamento nei suoi confronti. Se la nostra preghiera non è lo specchio della nostra anima, allora pregare non serve a nulla e Dio non la gradisce: “ti sei avvolto in una nuvola, perché la preghiera non potesse raggiungerti” (Lamentazioni 3:44).

La preghiera è un dialogo con Dio?
Non lo è propriamente. Mentre è corretto dire che due o più persone dialogano tra loro, perché questo è l’unico modo per scambiare opinioni e punti di vista diversi tra esseri umani, con Dio le cose si fanno più complicate a motivo del fatto che lui è… Dio. Non possiamo parlare a Dio come si fa con un uomo. Mosè quando udì la voce di Dio al pruno ardente, “tutto tremante, non osava guardare” (Atti 7:32) perché la maestà di Dio gli incuteva timore e riverenza.

Quando Giobbe si fece un po’ ardito nel parlare con Dio per perorare la propria causa, la Bibbia dice: “Allora il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse: Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?” (Giobbe 38:1,2). Ricordandogli così che era solo un uomo. Gesù illustrò l’atteggiamento sfrontato e presuntuoso del fariseo che si accosta a Dio in preghiera dicendo: “O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo” (Luca 18:11,12). Nelle parole del religioso c’è sì una invocazione, “o Dio”, ma dall’arroganza mostrata sembra che si rivolgesse a un suo simile e non al maestoso Dio che conosce i segreti del cuore. All’israelita che va al tempio per adorare, Ecclesiaste 5:1 consiglia: “Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio e avvicìnati per ascoltare”. Anche oggi il principio è lo stesso: anziché avvicinarci a Dio con superficialità, come se fosse un essere umano come noi, dobbiamo essere consapevoli del grande privilegio che abbiamo e dimostrarlo con un atteggiamento riverente e umile. Nella preghiera noi ci avviciniamo a Dio e Dio si abbassa fino a noi.

Che cos’è la preghiera?
La preghiera è come un filo invisibile che ci lega al nostro Padre in cielo. È il nostro pensiero che cerca una risposta da Dio nella completa disponibilità di accettare la volontà divina. Quindi la preghiera è un modo per arrenderci a Dio e mettere da parte noi stessi. In quest’ottica essa è un atto di amore verso Dio, grati della sua bontà e misericordia. La preghiera si realizza pienamente quando ci stacchiamo dai nostri problemi e assaporiamo la misericordia divina. È un momento di intimità con il nostro Dio. Cerchiamo la sua compagnia per provare la vera pace interiore.

Dio potrebbe abbandonarci?
Davide disse a suo figlio Salomone: “Se tu lo cerchi, egli si lascerà trovare da te; ma, se lo abbandoni, egli ti respingerà per sempre” (1 Cronache 28:9).

Se rifiutiamo l’amore di Dio, “Di quale peggior castigo, a vostro parere, sarà giudicato degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e avrà considerato profano il sangue del patto con il quale è stato santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? È terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebrei 10:29,31).

Da questi testi emerge che l’abbandono di Dio è conseguenza del nostro abbandono, di un nostro atteggiamento repulsivo nei suoi confronti. L’atto estremo di questo disprezzo verso la bontà divina è il peccato contro lo Spirito Santo del quale parlò nostro Signore: “ma chiunque avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non ha perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno” (Marco 3:29).

Siccome Dio sa già ogni cosa, è corretto voler essere conosciuti da Dio?
Sì, è corretto perché essere conosciuti da Dio significa che egli rivolge a noi la sua attenzione e la sua approvazione. L’apostolo precisò “ma ora che avete conosciuto Dio, o piuttosto che siete stati conosciuti da Dio” (Galati 4:9), e intendeva dire che i discepoli della Galazia, dopo aver accettato Cristo, erano stati riconosciuti da Dio come pienamente approvati. Di Abraamo Dio disse: “Io infatti l’ho scelto [yedatin], perché ordini ai suoi figli e alla sua casa dopo di lui di seguire la via dell’Eterno…” (Genesi 18:19 ND). Questo conoscere da parte di Dio implica la sua approvazione. In fondo a che servirebbe conoscere perfettamente la Bibbia se poi Dio non ci riconosce come parte del suo popolo? Questo fatto è un incentivo per rendere la nostra vita tale da ricevere l’approvazione divina, sapendo che laddove noi manchiamo il sangue versato da Cristo compensa.

Il beneficio di essere a disagio nella preghiera
Noi proviamo una grande pace quando ci rifugiamo nella preghiera e ci concentriamo sul nostro meraviglioso Padre. Tuttavia, come tutti gli uomini di Dio descritti nella Bibbia, quando ci accostiamo a Dio è naturale provare il disagio della nostra inadeguatezza, delle nostre debolezze, della nostra natura peccaminosa. Con l’apostolo diciamo “compite la vostra salvezza con timore e tremore” (Filippesi 2:12).

Pregare con umiltà
Con la preghiera entriamo in contatto che l’essere assoluto, l’unico vero Dio. Un qualsiasi altro atteggiamento diverso dall’umiltà suonerebbe irriverente…

Il testo di Luca 18:11,12 è un esempio di atteggiamento presuntuoso che un adoratore può manifestare nella preghiera.

Le prime cose da dire nella preghiera
La preghiera dovrebbe iniziare con la lode, come insegnò il Maestro: “Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Matteo 6:9). In questo modo fece anche Salomone nella sua preghiera alla dedicazione del Tempio: “O Signore, Dio d’Israele! Non c’è nessun dio che sia simile a te, né lassù in cielo, né quaggiù in terra! Tu mantieni il patto e la misericordia verso i tuoi servi che camminano in tua presenza con tutto il cuore” (1 Re 8:23).

Pregare spesso per noi stessi è un atto egoistico?
Se la nostra preghiera non è incentrata su noi stessi, allora comunicare a Dio i nostri problemi e bisogni non è atto egoistico. Nel “Padre nostro” Gesù incluse: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Matteo 6:11). Il “pane quotidiano” rappresenta i nostri bisogni attuali, le necessità materiali, le ansietà della vita. Gesù lo esemplificò quando parlò delle preoccupazioni che ci attanagliano quotidianamente: “il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose” (v.32). Sicuramente se la nostra ansietà è vincere una grossa somma al gioco d’azzardo, allora sì che sarebbe puro egoismo chiedere a Dio di soddisfarci. Le nostre richieste a Dio sono un indice della nostra debolezza, della nostra incapacità di sovvenire a una necessità o a una mancanza. Per questo Gesù insegnò a chiamare Dio “Padre nostro”. Siamo come bambini che chiedono al padre di sovvenire alla propria debolezza.

Entro quali limiti furono sempre fatte le richieste personali nelle preghiere bibliche?
Non possiamo forzare la mano a Dio per ricevere una qualche grazia. L’apostolo Paolo richiese tre volte che la sua “spina nella carne”, probabilmente un problema di salute, fosse tolta, ma ottenne come risposta: “La mia grazia ti basta” (2 Corinzi 12:9). Gesù pregò più volte che “se è possibile, passi oltre da me questo calice!” (Matteo 26:39), ma non ottenne alcuna risposta da parte di Dio. In queste richieste personali il focus non è rivolto unicamente a se stessi, ma viene sempre contemplata la volontà di Dio come fine ultimo.

La Bibbia incoraggia a pregare “incessantemente” (1 Tessalonicesi 5:17 Cei). Com’è possibile farlo?
Pregare incessantemente non significa rivolgere a Dio, 24 ore al giorno, le nostre preghiere perché cosa umanamente impossibile. D’altro canto l’attitudine gioiosa del discepolo è intimamente legata alla preghiera incessante, l’unico modo per coltivare un atteggiamento positivo nei momenti della prova. Comunicare senza interruzioni con Dio, mantiene i valori secolari e spirituali in equilibrio. Il termine greco per “incessantemente” (Adialeiptos) non significa una sorta di preghiera senza sosta. Implica, piuttosto, una preghiera costante, ricorrente, un atteggiamento assiduo di dipendenza da Dio. Che pronunciamo o meno le parole, la cosa fondamentale è sollevare il nostro cuore a Dio mentre siamo occupati in compiti diversi. L’apostolo Paolo lo disse in altri termini: “Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio” (1 Corinzi 10:31). In altre parole, se Dio è sempre presente nei nostri pensieri, viviamo in una condizione di preghiera assidua.

Quali preghiere dovremmo apprezzare più di tutte?
Le preghiere in favore dei nostri cari ci riscaldano il cuore, ma le preghiere più importanti sono quelle che Gesù rivolge al Padre a nostro favore, dato che lui soltanto è responsabile della nostra salvezza. Egli agisce come nostro sommo sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec (cfr. Ebrei 6:20). In quella che viene considerata la preghiera sacerdotale, Gesù chiede al Padre: “Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dati, perché sono tuoi […] Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola” (Giovanni 17:9,20).

Gesù agisce come nostro mediatore e, dato che cadiamo molte volte nel peccato, “può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio, dal momento che vive sempre per intercedere per loro” (Ebrei 7:25).

L’incontro con Dio. Seconda parte

L’incontro con Dio. Seconda parte

Michele Abiusi – “Fermatevi… e riconoscete che io sono Dio. Io sarò glorificato tra le nazioni, sarò glorificato sulla terra” (Salmo 46:10).
Il salmista incoraggia il credente a riconoscere che il Signore è Dio. Poco prima aveva detto: “Venite, guardate le opere del Signore, egli fa sulla terra cose stupende” (v. 8 ). La “conoscenza” di Dio comprende: i suoi atti passati, le sue promesse, una conoscenza esperienziale con lui. Nel contesto, il salmista invita a impegnarsi per il Signore e fare di lui il “rifugio” e la “forza” (vv. 1, 7, 11). Questa esortazione rivolta ai credenti è più pertinente che mai, oggi. Viviamo in un mondo sempre più alienato da Dio, in cui cadere nello scoraggiamento o nella perdita della fede è cosa relativamente facile. Pertanto il versetto  2 esorta: “Perciò non temiamo se la terra è sconvolta …”.

Se guardiamo lo svolgersi degli eventi in campo mondiale non possiamo non condividere l’espressione del salmista. Tutto nella nostra società è sconvolto: nelle scelte etiche, nei principi morali da seguire, nel concetto di esempio, onestà e così via. Se ci sentiamo frastornati da questo andazzo è imperativo fare un primo passo nella giusta direzione, come sottolinea la prima parola del nostro testo: “Fermatevi”.

Fermarsi implica svuotare la mente dagli assilli giornalieri, allontanare da noi tutto ciò che può distrarre: il mondo con tutti i suoi rumori di fondo… e raccoglierci in meditazione. Questo vuol dire trovare un angolo di tempo, nell’arco della giornata, riservato alla meditazione, in cui possiamo “ascoltare” Dio. La professione di fede ebraica, lo Shema, infatti recita: “Ascolta, Israele: Il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore” (Deuteronomio 6:4). Porsi all’ascolto di Dio non vuol dire necessariamente aprire la Bibbia.

La creazione è una testimonianza silenziosa della saggezza e della sapienza di Dio: “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani” (Salmo 19:1). E ancora: “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?” (Salmo 8:3, 4). Sì, un tempo gli uomini sapevano “fermarsi” e vedere oltre ciò che gli occhi permettevano loro di guardare.

Oggi non si ha più tempo per pensare a cosa si fa della propria vita nella prospettiva di Dio. Si corre, ci si affanna per risolvere problemi, e così passano i giorni, gli anni, i lustri, i decenni ed infine arriva l’ultimo traguardo. Non abbiamo fatto nulla per conoscere il nostro Dio! è quanto mai importante prendere coscienza di questo nostro bisogno, cominciando con un semplice “fermatevi” e ascoltando il “sussurro di Dio”.

Come e dove possiamo incontrare Dio?
Dio non sta in un posto specifico da raggiungere, però possiamo incontrarlo tutte le volte che vogliamo, in qualsiasi luogo ci troviamo. Ecco quanto scrive il salmista : “Dove potrei andarmene lontano dal tuo Spirito, dove fuggirò dalla tua presenza? Se salgo in cielo tu vi sei; se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti là” (Salmo 139:7, 8). E anche: “Il Signore è vicino a tutti quelli che lo invocano, a tutti quelli che lo invocano in verità” (Salmo 145:18).

Gesù affermò: “Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa” (Matteo 6:6).

Non solo, Dio non ci fa aspettare in anticamera, come avviene spesso con i cosiddetti “altolocati”: “Il Signore è vicino a tutti quelli che lo invocano, a tutti quelli che lo invocano in verità.  Egli adempie il desiderio di quelli che lo temono, ode il loro grido, e li salva” (Salmo 145:18,19).

Questi testi dimostrano che possiamo incontrare Dio praticamente ovunque.

Lo consideriamo un privilegio? “Parlare” con Dio vuol dire aver stabilito una relazione con lui di tipo amicale. Due amici, non importa il luogo in cui si incontrano, si fermano a parlare e condividono le loro esperienze. Così è con Dio. È nostro amico quindi ci sentiamo liberi di parlargli con franchezza. Ma è anche nostro Padre e in lui troviamo l’aiuto e la comprensione che solo un genitore sa dare al proprio figlio. Sì, perché Dio è anche, e soprattutto, amore! (cfr. 1 Giovanni 4:8). Sempre Giovanni aggiunge: “Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura” (v. 18). Come un figlio non ha paura di un padre amorevole così anche noi dobbiamo sentirci liberi di parlare con il nostro Padre in cielo tutte le volte che vogliamo e in qualsiasi posto noi siamo, e di unirci all’apostolo nel dire “che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8:38, 39).

Per quale motivo Dio rimane spesso in silenzio?
A volte, il problema non sta tanto nel fatto che Dio non risponde alle nostre suppliche, ma nel nostro udito spirituale che non è in grado di percepire il “sussurro di Dio”. Allora il “fermarsi” nella meditazione e nella riflessione aiuta a curare la nostra “otite” spirituale.

Sovente però sono i nostri peccati ad impedire la risposta di Dio.

Il profeta così si espresse: “Ecco, la mano del Signore non è troppo corta per salvare, né il suo orecchio troppo duro per udire; ma le vostre iniquità vi hanno separato dal vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere la faccia da voi, per non darvi più ascolto” (Isaia 59:1, 2). Gli Israeliti erano diventati apostati ai giorni di Isaia, tanto che, alla fine, Dio usò la scure babilonese per disciplinarli.

Anche noi veniamo meno, e sempre accadrà finché non ritornerà il Signore, a causa della nostra debolezza, ma ciò non deve servire da scusa per una condotta dissoluta. Il Signore è buono e pronto a perdonarci infinite volte, ma dobbiamo stare attenti al nostro atteggiamento nei confronti del peccato perché “il timore del Signore è odiare il male” (Proverbi 8:13), e non fargli l’occhiolino quando il peccato diventa seducente ai nostri occhi.

Come Elia [leggi qui la prima parte] dovremo uscire dalla nostra grotta, dalla nostra visione egoistica della vita, e incontrare Dio nel sussurro di un dolce alito di vento. Ci è sempre piaciuta l’immagine di Gesù che sta “alla porta e bussa” (Apocalisse 3:20).

Il testo non dice che picchia con violenza alla porta per farsi sentire.

Il testo non dice neanche che  bussa alla porta di una chiesa, bensì “se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me”.

Siamo noi che permettiamo a Dio e a Cristo di venire, per accoglierli nel nostro cuore.

L’incontro con Dio. Prima parte

L’incontro con Dio. Prima parte

Michele Abiusi – Dove trovare Dio quando siamo esausti dentro? Dove poterlo incontrare quando ne abbiamo bisogno? Per rispondere a queste domande, riflettiamo su un interessantissimo episodio della Sacra Scrittura.

Il profeta Elia
Durante il regno di Acab, Israele sprofonda nell’idolatria. Elia sostiene l’adorazione pura e affronta i profeti di Baal in una sfida. Sul Monte Carmelo si allestisce un altare su cui immolare la vittima sacrificale, invocando fuoco dal cielo. Ovviamente, solo il sacrificio di Elia viene bruciato dal fuoco divino e tutti i profeti di Baal vengono giustiziati su ordine del profeta.  Izebel, moglie di Acab, infuriata per il trattamento riservato ai profeti di Baal, manda un messaggio a Elia, in cui promette di ucciderlo, legandosi con una maledizione: “Gli dèi mi trattino con tutto il loro rigore, se domani a quest’ora non farò della vita tua quel che tu hai fatto della vita di ognuno di quelli” (1 Re 19:2).

Tale minaccia  terrorizza Elia che prontamente fugge lontano.

Che ironia! Poco prima aveva dimostrato l’inconsistenza dei falsi dèi che Izebel aveva chiamato in causa nella maledizione, aveva dimostrato grande coraggio e fede nell’intervento del vero Dio ed ora, invece, cedendo alla paura “se ne andò per salvarsi la vita” (19:3). Raggiunge una delle montagne della catena montuosa del Sinai e trova rifugio in una caverna.

Fin qui l’antefatto.

Ora il profeta riceve una rivelazione di Dio che incomincia con una domanda: “Che fai qui, Elia?” (v.9). Dio non l’aveva mandato in questo luogo! Elia vi era scappato per la paura. È chiaro che il profeta si sentiva scoraggiato perché si riteneva l’unico rimasto a servire Dio: “sono rimasto io solo” (v.10).

Una prima considerazione che viene da fare è l’aspetto contraddittorio di Elia: fede con ii profeti di Baal e paura di fronte alla regina. Questa contraddizione, tra un atteggiamento forte e determinato nel servizio di Dio e la viltà nell’affrontare certe sfide della vita, vive in tutti noi. La presa di coscienza di questo atteggiamento contraddittorio, che può manifestarsi in ogni momento della nostra vita, è il primo passo per non esserne sopraffatti.

Un’altra considerazione a cui ci induce questo episodio è il “vedere nero”, il pessimismo.

Al versetto 10, Elia dice a Dio: “hanno ucciso con la spada i tuoi profeti”.

Elia menziona solo i profeti del Signore e non dice nulla della fine dei quattrocentocinquanta profeti di Baal. La paura e lo scoraggiamento facevano vedere ad Elia solo il lato oscuro, si sentiva un fallito.

Dio non rimprovera Elia per aver ceduto al pessimismo, ma gli dà una lezione da cui avrebbe tratto ispirazione. Così lo invita a uscire dalla caverna, simbolo del suo egoismo, per presentarsi davanti a lui. Elia assiste a tre grandi manifestazioni della potenza di Dio: vento, terremoto e fuoco. Molti secoli prima anche Mosè fu testimone di questi portenti, quando ricevette i dieci comandamenti, su quello stesso monte. Tuttavia, il Signore non è in nessuna delle tre manifestazioni, in nessuno di quegli elementi. Non sceglie un modo eclatante di rivelarsi.

Elia è consapevole di questo, ma non ha dubbi quando avverte “un mormorio di vento leggero” (v. 12). “Quando Elia lo udì, si coprì la faccia con il mantello” (v.13). Percepisce che il Signore si manifesta in quel lieve sussurro.

Quante volte abbiamo desiderato che Dio intervenisse nella nostra vita in maniera portentosa, venendo in nostro soccorso? Una malattia, una disgrazia, un tracollo economico sono per noi motivo di richiesta di aiuto, e ci aspettiamo una liberazione immediata dal problema.

Dimentichiamo che Dio si rivela in “un breve sussurro” venendo incontro alle nostre richieste, a volte, senza che ce ne rendiamo conto.

Dio interviene nella nostra vita in maniera dolce. Certo, è giusto chiedere a Dio di aiutarci, ma l’esperienza di Elia dovrebbe insegnarci che Il Signore agisce nella nostra vita non con i nostri metodi, spesso troppo drastici, ma con la sua dolcezza.

Allo stesso tempo, impariamo che vivere sempre alla ricerca di una grande esperienza significa avere uno zelo mal diretto. La maggior parte della nostra vita di servizio è tranquilla, a volte di routine, in umile obbedienza alla volontà di Dio. L’esperienza di Elia è particolarmente significativa quando veniamo disciplinati da Dio.

Ebrei 12:6 recita: “il Signore corregge quelli che egli ama”. Dio porta alla luce i nostri problemi spirituali in maniera delicata. Elia, forse reso troppo orgoglioso dei successi ricevuti (vv. 4, 10, 14) aveva bisogno di ricevere correzione, il suo problema spirituale doveva essere portato alla luce. Quante volte anche noi, come Elia, ci prendiamo troppo sul serio, ci sentiamo offesi da comportamenti di altri verso di noi, perché come questo profeta biblico ci sentiamo pieni “di zelo per il Signore degli eserciti” (v. 10, Cei). Elia può essersi cullato nel bagliore dello spettacolare (il fuoco che scende dal cielo!), aveva bisogno che Dio lo riconducesse sul binario giusto, manifestandosi in un tenue mormorio di vento.

Forse Elia può aver pensato che il potere della regina Izebel, dopo il fallimento della prova al Carmelo, sarebbe giunto rapidamente alla fine. Non avvenne, si sentì scoraggiato. Attenti quindi a non andare avanti a Dio! Lasciamo che sia lui ad agire secondo i suoi tempi e modi.

Affiniamo le nostre facoltà spirituali e … ascoltiamo il lieve sussurro di Dio!

Guardare e ascoltare Cristo per guarire

Guardare e ascoltare Cristo per guarire

Michele Abiusi – Come credenti ci siamo un po’ abituati ai racconti di guarigioni compiute da Gesù. Sono dei miracoli! Ne voglio citare uno: un uomo malato da ben 38 anni, alla piscina di Betsaida, che all’improvviso può alzarsi e camminare (cfr. Giovanni 5:2-9)!

Ma siamo capaci di crederlo davvero? In altre parole, queste guarigioni hanno qualcosa a che fare con la nostra vita reale?

La psicosomatica, nome che la scienza moderna ha dato al legame fra corpo e psiche, ci dice che la maniera con cui viviamo psichicamente influenza fortemente la nostra salute corporale. Per esempio: gli spaventi si possono difficilmente digerire. Infatti, se si prende uno spavento, lo stomaco si irrigidisce, produce dell’acido gastrico in più e allora si soffre di mal di pancia. Del ridere, invece, si sa ormai che rafforza le difese immunitarie! Corpo, spirito e anima sono un’unità.  “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2:7).

Dio ci ha creato con un corpo terreno e viviamo per mezzo del suo soffio vitale che rappresenta non solo la capacità respiratoria, ma anche la nostra psiche. Significa che può darci forza per vivere, che può darci il soffio dello spirito suo di speranza e di coraggio!

Anche il malato di Betsaida lo credette? Non lo sappiamo. Sappiamo che quell’uomo si era rassegnato. Non aveva nemmeno la speranza sufficiente per rispondere: “Sì, voglio guarire!”.
Conoscete questi sentimenti? Il sentirsi deboli, rassegnati riguardo alla vita? L’essere paralizzati dalle preoccupazioni? Purtroppo ne abbiamo un esempio molto attuale: tutto il nostro Paese è paralizzato dalla paura del coronavirus. E la paura nuoce alla salute! Però grazie a Dio siamo in mezzo a una storia d’amore! Una storia d’amore fra Dio e la sua creazione che egli vorrebbe salvare.
Deuteronomio 31:8 dice: “Il Signore stesso cammina davanti a te. Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo!”.

Benché il malato di Betsaida non sia capace di far altro che lamentarsi perché gli manca l’aiuto, e non proclami nemmeno la sua fede, Dio, attraverso Gesù, si prende cura di lui. E il soffio, lo spirito divino, buono e forte, arriva al malato: risveglia in lui il coraggio che da solo non riesce a darsi. Malgrado l’esperienza vissuta da 38 anni, l’uomo si alza! Sta in piedi e cammina. È un bene che abbia guardato e ascoltato Gesù!

E la storia d’amore continua. Lo dice Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Giovanni 15:13). Donandosi per noi, Cristo ci ha dato l’esempio della forza divina, così grande che supera perfino la paralisi totale, la morte!

Alzati!
Nel testo originale greco la stessa parola “alzati”, egeíro, viene anche usata quando si parla di Dio che fa rialzare, risorgere Gesù! Così oggi, per la forza di Dio, Gesù è vivo in mezzo a noi e ci chiama: Alzatevi! Non importa se siamo depressi, Dio con la sua forza creatrice ci ama e offre di guarirci con il suo spirito salvifico.

Alla fine ne risulta la saggezza dei comandamenti più grandi! “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Matteo 22:37, Cei). Guardiamo a Dio invece che a un idolo, affinché ci comunichi il suo Spirito vitale! E il testo continua: “Amerai il tuo prossimo…” (v. 39), oppresso da una qualsiasi malattia. Perché sentire il tuo amore gli darà forza per guarire. Lo amerai “come te stesso”!

Allora, guidati dallo Spirito amorevole di Dio, facciamo qualcosa di bello. Andiamo all’acqua viva, a colui che non è troppo lontano per poterci arrivare, a Cristo Gesù. Lui ci aiuterà sempre ad alzarci e a camminare!

Occorre domandarci:
– Quando e come mi concedo la possibilità di percepire lo Spirito divino di salvezza?
– Come posso incoraggiare il mio prossimo a venire all’acqua viva?

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Michele Abiusi – L’apostolo Paolo, scrivendo ai Romani, evoca le sofferenze della creazione in attesa di salvezza, paragonandole a una donna che soffre le doglie del parto in attesa della gioia di una nuova vita. Poi continua: “Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8:18-23, Cei).

Chi guarda il nostro pianeta con uno sguardo sensibile al dolore dell’umanità lo vede costellato di ferite sanguinanti: dagli abitanti di quelle bidonville così somiglianti a discariche umane – sempre simili a se stesse sia che si trovino a Nairobi, al Cairo o a Manila – alla gente dello Zambia martoriata dall’aids; dai bambini di strada in America Latina, ai malati senza assistenza a Calcutta e ai due popoli ostaggi dell’odio in Palestina. Per non parlare dell’emigrazione clandestina, i cosiddetti “viaggi della speranza” che spesso si trasformano in disperazione e tragedia…

La nostra fede non fa di noi dei privilegiati fuori dal mondo, noi “gemiamo” con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, “le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende” (1 Giovanni 2:8, Cei).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare nella società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

La nostra speranza si esprime nel nostro stile di vita
Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. Grazie a Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo, superando divisioni di ogni tipo. Quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2:42-47). Si sforzavano di avere “un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento” (Filippesi 2:2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2:15).

Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra. “Maranathà!” era il motto dei primi credenti: il Signore viene!

Abbiamo nel cuore tante speranze. A volte sono positive, elevate, belle e giuste. Rischiano però, in alcuni casi, di essere egoistiche e basse se non anche malvagie e discriminanti. Abbiamo allora bisogno di guardare alle speranze di Dio, il nostro punto di riferimento. Quali sono?

Cercando testimonianze bibliche a questo riguardo, si ha solo l’imbarazzo della scelta. Ne cito quindi solo alcuni che, a mio avviso, rendono un’idea abbastanza completa.
Di fronte alla morte e al male, Dio ha sempre invitato gli uomini a stare con lui, scegliendo il bene e la vita (Deuteronomio 30:15-20).
Ha sempre invitato, particolarmente il suo popolo, alla rettitudine e alla giustizia, rifiutando lo spargimento di sangue (Isaia 5:7).
Dio spera che gli uomini per trovare soluzioni ai loro problemi, cerchino innanzitutto lui: “È tempo di cercare l’Eterno, finch’egli non venga” (Osea 10:12, Luzzi).
E l’invito diventa sempre più pressante ed amorevole: “Israele…, torna al tuo Dio!” (Osea 14:1).
Perfino per l’evento che chiuderà la storia dell’umanità, il glorioso ritorno di Cristo, Dio attende pazientemente; forse “tarda” a tornare perché desidera che nessuno “perisca ma che tutti giungano al ravvedimento” (2 Pietro 3:9).
Dio spera che in questo periodo di crisi mondiale, l’uomo torni ad alzare lo sguardo al cielo e a cercarlo per soddisfare tutti i suoi bisogni, e possa dire: “abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivente” (1Timoteo 4:10).

 

È veramente risorto!

È veramente risorto!

Riflessione del presidente dell’Unione Italiana delle Chiese Cristiane Avventiste del Settimo Giorno (Uicca). Guarda il video in fondo all’articolo.

Stefano Paris – Il testo di questa breve riflessione è tratto dal Vangelo di Luca: “Ma il primo giorno della settimana, la mattina prestissimo, esse si recarono al sepolcro, portando gli aromi che avevano preparati. E trovarono che la pietra era stata rotolata dal sepolcro. Ma quando entrarono non trovarono il corpo del Signore Gesù.  Mentre se ne stavano perplesse di questo fatto, ecco che apparvero davanti a loro due uomini in vesti risplendenti; tutte impaurite, chinarono il viso a terra; ma quelli dissero loro: ‘Perché cercate il vivente tra i morti? Egli non è qui, ma è risuscitato; ricordate come egli vi parlò quand’era ancora in Galilea’… i quali dicevano: ‘Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone’” (Lc 24:1-6, 34).

È arrivata la Pasqua in un momento particolare nella storia del nostro pianeta. Quasi a ricordarci che dopo qualsiasi piaga vi sia la liberazione. La Pasqua annuncia da sempre infatti emancipazione, redenzione, ma troppo spesso con superficialità abbiamo finito col vederla piuttosto come una buona occasione per prenderci una breve pausa, per stare anche un po’ in famiglia, magari in una uscita fuori porta.

Oggi, e per vari motivi, sarà però difficile fermarsi alla semplice, e peraltro legittima, opportunità di fare un buon pranzo con qualche piatto della tradizione, donare qualche uovo di cioccolato o ritrovarsi con gli affetti più cari. Qualcosa è cambiato e sta cambiando. Chi crede e prova a capire il significato di quanto sta succedendo intorno non può pensare alla Pasqua come ad una serie di rituali ripetuti nel tempo. Chi si fida di Dio sa che deve approfittare dell’opportunità per fermarsi e ripensare al più profondo significato che il messaggio della Pasqua porta con sé, che è appunto Liberazione.

Noi tutti aneliamo ad essere liberati. Sicuramente da questo flagello del Covid-19. Tuttavia la Pasqua ci rammenta che essa è annuncio di liberazione da un flagello ben più grande: il peccato dell’uomo che ha portato la morte. Pasqua, quindi è l’annuncio della guarigione totale l’annuncio che in Cristo siamo stati tutti salvati “poiché Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito figliolo affinché chiunque creda il Lui non perisca ma abbia la vita eterna”.  Cristo è la nostra Pasqua e in Lui noi possiamo trovare liberazione e rifugio.

In quel primo giorno della settimana (che era uno dei sabati speciali di festa) le donne portano i loro unguenti per trattare, secondo l’usanza, il corpo martoriato e senza vita di Gesù. Non lo trovano: quel corpo non è più nella tomba. E mentre sono ancora nell’incertezza e non sanno che cosa fare, la visita degli angeli irrompe nel silenzio di quel luogo e il loro annuncio di risurrezione riporta la luce, la speranza, la memoria delle parole del Maestro a quelle fedeli impaurite, incredule, dimentiche. 

Luca nella descrizione di quanto accade sottolinea nel testo il cambio radicale di prospettiva a partire dalla buona notizia della risurrezione data dagli angeli. Le donne ricordano e credono. Credono e raccontano della tomba vuota prima agli apostoli e poi a tutti gli altri. E sulla strada, mentre stanno andando a portare il loro magnifico messaggio, Matteo ci dice che Gesù stesso va loro incontro, si fa adorare, le conforta e incoraggia. Ora è il turno degli apostoli. A loro non basta la testimonianza ricevuta dalle donne: Pietro (con Giovanni) si reca al sepolcro. Quindi Gesù si rivela a due discepoli dubbiosi in viaggio da Gerusalemme a Emmaus prima attraverso i testi biblici che parlavano di lui, quindi attraverso i gesti consueti della benedizione e della condivisione del pane. I due ritornano a Gerusalemme e si recano nel luogo dove erano anche gli undici ed altri compagni. Questi dicevano: “Egli è veramente risorto!”. In questo avverbio veramente, si sottintende e si percepisce tutta l’incredulità umana, comprensibile dal momento che non è possibile tornare in vita. Sicuramente doveva trattarsi di fake news. A pensarci bene, anche io avrei reagito alla notizia della Risurrezione con una certa difficoltà a credervi. ma questo avverbio conferma ciò che è impossibile capire all’uomo.

Pasqua è l’annuncio straordinario, sconvolgente e sorprendente che da quel primo giorno di quella settimana di 2000 anni fa si è propagato e ripetuto nel tempo e nello spazio raggiungendo anche noi, ancora una volta, in questo 2020! Oggi, rispetto a ieri, la Pasqua ha preso un significato più profondo per chi come noi sta vivendo questo momento di incertezza e drammaticità mondiale. Pasqua resta ancora l’annuncio della speranza in una nuova vita e nella resurrezione. Il messaggio degli angeli: “Egli non è più nella tomba ma è risuscitato” continua ad accompagnare la cristianità fino al giorno del ritorno di Gesù

Le parole di questi uomini in vesti sfolgoranti sono chiare e precise: “Egli è risorto!”. Esse risuonano nelle menti e nei cuori di coloro che hanno vissuto e raccontato la loro esperienza con il Risorto, fino ad ora hanno dato forza e speranza al movimento cristiano e, ancora oggi, si fanno portatrici del più rassicurante messaggio che l’umanità abbia mai potuto ricevere: il Signore è veramente risorto. La morte è vinta. Arriva fino a noi, in giorni nei quali tutti viviamo la paura della malattia e della morte, ora che alcune delle nostre presunte sicurezze sono cadute e abbiamo scoperto che questa “imperatrice nuda”, quale è la scienza, non ha grande forza per contrastare le moderne pestilenze. In poco tempo e a livello planetario ci si è rivelata chiara tutta la nostra presunzione e autosufficienza.

Forse recentemente anche noi abbiamo vissuto la Pasqua più come tradizione che come annuncio di speranza. Forse la nostra fede non è ancora risorta, ci siamo accontentati di una sua dimensione appiattita, fatta di prevedibile abitudinarietà, rassegnata ignoranza, e in questo modo la religione ha preso il posto della vera relazione.

Il vangelo della Pasqua è che l’incontro personale col Maestro può redimerci; la ri-unione con il Cristo passato attraverso la morte ci fa finalmente dire: Egli è veramente risorto.  La Pasqua diventa allora qualcosa di nuovo e profondo: la Pasqua vera che è Cristo, ci affranca dalla paura, dalla solitudine e dalla schiavitù del male nella nostra vita.  Ci offre una visione diversa, obiettivi più elevati, ci dona la Grazia e il perdono e ci fa portatori di speranza. Il Risorto ha vinto la morte e la sua Resurrezione è caparra per tutti noi che crediamo in Lui. “Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo è seduto alla destra di Dio” (Colossesi 3:1). La vera Pasqua trasforma. “Se apparteniamo a Cristo, il nostro maggiore desiderio sarà pensare a lui. Ci farà piacere parlare di lui e del suo amore, e un influsso divino penetrerà nei nostri cuori. Contemplando la bellezza del suo carattere, noi ‘siamo trasformati nella sua stessa immagine di lui, di gloria in gloria’”

Possa questa Pasqua liberarci da ogni paura e da ogni preoccupazione, possa ricordarci che la grazia è un dono offerto a tutti e che non ci sono opere che possiamo fare se non quella di accettarlo con tutto il nostro essere. Possa questa Pasqua trasformare le nostre vite, i nostri pensieri e la nostra debole umanità. 

Oggi sia la Pasqua la tua forza, sia la Pasqua il vero passaggio dal vecchio uomo all’uomo nuovo e sia una Pasqua in cui anche tu ed io possiamo dire con convinzione e con fede: Egli è veramente risorto. Vieni, Signore Gesù!

Dio ci benedica.

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Seconda parte

La speranza di Israele realizzata da Gesù.

Michele Abiusi – Gesù inizia il suo ministero pubblico annunciando il “regno” (Marco 1:15) e lo indica “già presente” e nondimeno ancora futuro. Promette di ritornare per venire a prendere i suoi e condurli in quel luogo che sta preparando per loro (Giovanni 14:1-3). In attesa di quel giorno, il credente deve annunciare alle nazioni quel regno, forte della presenza di Gesù (Matteo 28:20 u.p.); questo diventa annuncio di speranza.

È interessante sottolineare gli attributi che gli apostoli danno alla speranza del credente:
viva – 1 Pietro 1:3-4;
sicura e ferma – Ebrei 6:18-19;
costante – 1 Tessalonicesi 1:3;
buona – 2 Tessalonicesi 2:16;
gloriosa – Romani 5:2.

Tutta la forza della speranza del credente si concentra quindi nell’attesa del ritorno di Gesù! “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Romani 5:5 Cei).

Lungi dall’essere un semplice augurio per l’avvenire, senza garanzia di realizzazione, la speranza cristiana è la presenza dell’amore divino in persona, lo Spirito Santo, fiume di vita che ci porta verso il mare di una piena comunione.

Mi preme sottolineare che la speranza biblica e cristiana non significa una vita nelle nuvole, il sogno di un mondo migliore. Non è una semplice proiezione di quello che vorremmo essere o fare. Essa ci porta a vedere i semi di questo mondo nuovo già nella realtà attuale, grazie all’identità del nostro Dio che si manifesta nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo.

Questa speranza è inoltre una sorgente di forza per vivere in un altro modo, per non seguire i valori di una società fondata sul desiderio di possesso e sulla competizione.

Nella Bibbia, la promessa divina non ci chiede mai di sederci e attendere passivamente che si realizzi, come per magia. Prima di parlare ad Abramo di una vita in pienezza che gli veniva offerta, Dio gli disse: “Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Genesi 12:1 Cei). Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere perennemente un nuovo inizio.

Così pure, la buona novella della risurrezione non è un modo per distoglierci dai compiti di quaggiù, ma una chiamata a metterci in cammino. “Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? … Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura … e mi sarete testimoni … fino agli estremi confini della terra» (Atti 1:11; Marco 16:15; Atti 1:8 Cei).

Questa “testimonianza” è fatta certamente di parole (la predicazione) ma va ben oltre. Sotto l’impulso dello Spirito del Cristo, i credenti vivono una solidarietà profonda con l’umanità priva dalle sue radici in Dio.

 

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Prima parte

Michele Abiusi – Viviamo in un tempo di restrizioni a causa del coronavirus, ed è un tempo in cui desideriamo sperare. “Andrà tutto bene” è lo slogan che ci siamo dati come popolo italiano.

Sperare: in un futuro migliore, nel superamento della crisi, che la vita torni alla normalità… Coloro che pongono la propria fiducia in Dio hanno più che mai il dovere di “rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro” (1 Pietro 3:15). Ora, anche se per definizione la speranza guarda al futuro, per la Bibbia essa si radica nell’oggi di Dio. Egli si fa conoscere perché chiama gli esseri umani a entrare in una relazione con lui: stabilisce un’alleanza con loro.

La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed ed emet (Esodo 34:6). Generalmente, si traducono con “amore” e “fedeltà”. Innanzitutto, questi due termini ci dicono che Dio è bontà, è benevolenza senza limiti e si prende cura dei suoi figli; in secondo luogo, assicurano che Dio non abbandonerà mai quelli che ha chiamati ad entrare nella sua comunione.

Ecco la sorgente della speranza biblica. Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà – se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione – per i credenti non è una situazione definitiva. Nella loro fede in Dio, i credenti attingono l’attesa di un mondo secondo la volontà di Dio o, in altre parole, secondo il suo amore.

Nella Bibbia, questa speranza è spesso espressa con la nozione di promessa e alleanza. Quando Dio entra in relazione con gli esseri umani, in generale questo va di pari passo con la promessa di una vita più grande. Lo si vede già nella storia di Abramo: “Ti benedirò, disse Dio ad Abramo, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12:2-3).

Al di là delle promesse universali di salvezza date dopo il peccato e dopo il diluvio (Genesi 3:14,15; 9:11), è da qui che comincia veramente la storia della speranza biblica legata alla storia di Israele.

La speranza delle benedizioni di Yahweh
Per secoli l’oggetto della speranza di Israele resterà la terra dove scorre latte e miele; i beni terreni sono doni di Dio (Genesi 13:15) che è fedele alle promesse e all’alleanza. Ma, al di là di questi beni, c’è la speranza di qualcosa di superiore, e Dio vuole condurre il suo popolo a comprenderla ed afferrarla: la salvezza, che è speranza di una terra per tutti, non solo per sé, ed è rinnovamento della vita nella giustizia, nell’armonia, nella pace di una creazione rinnovata per l’eternità.

Non sarà un percorso lineare e facile. La spiritualità altalenante del popolo d’Israele ha condotto talvolta i profeti ad annunciare il castigo di Dio, segno di una speranza distrutta; per poi consolare annunciando il perdono di Dio, cioè il rinnovamento della speranza (Geremia 30-33; Ezechiele 34-48).

Pace, salvezza, luce, guarigione, redenzione, sono i temi annunciati dai profeti che intravedono il rinnovamento del paradiso su questa terra; aspirano anche al giorno in cui Israele sarà ripieno della conoscenza di Dio (Isaia 11:9) perché Dio avrà rinnovato i cuori (Geremia 31:33) e le nazioni si convertiranno per rendere un culto finalmente perfetto (Zaccaria 14).

Oltre ogni immaginazione. Un fiume, un albero e…

Oltre ogni immaginazione. Un fiume, un albero e…

Francesco Zenzale – Sono passati circa 45 anni da quando sono salito sul treno della speranza. Nei primi tempi tornavo a casa annualmente, poi sempre più con discontinuità. Ma quando sono pervaso dalla nostalgia, mi rivedo nel mio giardino d’eden: variegati alberi da frutta, un rigoglioso vigneto dall’uva dorata e nera, maestosi ulivi e ogni specie di ortaggi e legumi e l’ondeggiante aureo grano. Poi il cinguettio degli uccelli, il sibilo degli insetti, le bisce gialle e nere ecc… Ero in paradiso! Ma senza l’albero della vita emblema di Gesù Cristo, “via verità e vita” (Giovanni 14:6; cfr. Giovanni 1:4; 3:15, 36; 4:25; 20:31, ecc.) e il fiume dell’acqua della vita che assicurerà lo scorrere della vita in ogni essere vivente (Giovani 4:14).

I momenti belli della vita, quelli in cui sei in pace con te stesso, con il prossimo, la natura e Dio, tratteggiano, anche se nebulosamente, il nostalgico eden. E se la parola ispirata comincia e finisce con un paradiso, un fiume e un albero della vita, anche la nostra limitata esistenza partecipa a questo percorso che sfocia nell’eternità.

Anche se stiamo guadando il turbolento fiume della vita, tuttavia, la fine è più bella dell’inizio, come l’omega e più grandiosa dell’alfa (cfr. Apocalisse 1:8; 21:6; 22:13). Il paradiso futuro non è il vecchio ritrovato, è il paradiso di Dio (cfr. Apocalisse 2:7) con la presenza eterna dell’Agnello che morì per noi. Vi potranno accedere unicamente dei peccatori salvati per grazia, uomini simili al brigante convertito (cfr. Luca 23:43) o all’adultera riabilitata dalla grazia di Dio (cfr. Giovanni 8:1-11). E che cosa faremo nei nuovi cieli e nella nuova terra? Avremo la gioia di servire il Signore (cfr. Apocalisse 22:3; 7:15); di regnare con lui (Apocalisse 22:5; Daniele 7:27); ma vi sarà qualcosa che sarà per noi più prezioso di tutti i regni: «essi vedranno la sua faccia…» (Apocalisse 22:4; Salmo 17:15; 1 Corinzi 13:12).

Scrive l’apostolo Paolo: “Io stimo che le sofferenze del tempo presente non siano punto da paragonare con la gloria che ha da essere manifestata a nostro riguardo” (Romani 8:18). È dunque saggio sopportare le sofferenze «come un buon soldato di Cristo Gesù» (2 Timoteo 2:3).

Al tempo opportuno, dice il Signore, “Il mio popolo abiterà in un soggiorno di pace, in dimore sicure, in quieti luoghi di riposo” (Isaia 32:18). “Non s’udrà più parlar di violenza nel tuo paese, di devastazione e di ruina entro i tuoi confini; ma chiamerai le tue mura: ‘Salvezza0, e le tue porte: ‘Lode’. Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno; e non più la luna t’illuminerà con il suo chiarore; ma il Signore sarà la tua luce perenne, il tuo Dio sarà la tua gloria. Il tuo sole non tramonterà più, la tua luna non si oscurerà più; poiché il Signore sarà la tua luce perenne, i giorni del tuo lutto saranno finiti” (Isaia 60:18-20).

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

 

È veramente risorto!

Egli è vivo

Francesco Zenzale – “Non hanno trovato il suo corpo, e sono ritornate dicendo di aver avuto anche una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo” (Giovanni 24:23). La cultura della morte domina la nostra esistenza. D’altra parte, come potrebbe essere diversamente? La terra e, forse, anche il cielo sono colmi del simbolo della morte di Cristo. Uomini e donne indossano il Cristo crocifisso e non una medaglia che ricordi la sua risurrezione. Spesso, quando le persone pregano hanno lo sguardo rivolto alla croce e non al risorto. Oltre a ciò, i disastri naturali, l’irrazionalità e la banalità delle guerre, la povertà e i profughi che naufragano nel Mare Nostrum rimarcano l’inezia esistenziale. Anche i talkshow amplificano gli eventi traumatici, le dolorose e singole esperienze familiari.

La tomba è rimasta vuota e al posto di Gesù ci siamo noi, credenti senza speranza, messaggeri di sconforto e di vanità. Il Cristo crocifisso presiede il nostro modus vivendi, perciò, non c’è spazio per lo splendore e la potenza del risorto, per il trionfo della vita sulla morte. Eppure è un miracolo che si rinnova ogni giorno! Osservando il risveglio della natura, il guizzare dei pesci, il sinuoso movimento delle bisce d’acqua, la bellezza dei fagiani, delle anatre, dei cigni, dell’airone. Ascoltando il canto degli uccelli, delle cicale, il brusio delle api e così via. La vita è hic et nunc e possiamo accarezzarla al nostro risveglio, in un bacio, un abbraccio o in un gesto di accoglienza. La vita ci sorprende, vanificando ogni oscurità, alla nascita di un bambino.

Alla nascita della mia nipotina la “tomba” è rimasta vuota. I suoi primi sussulti, le sue prime poppate, il suo primo sorriso, le prime parole e i primi passi enunciano che la vita ha trionfato sull’idea della morte. Anche Gesù, oltre a lasciare il cielo per vivere come uomo, ha dovuto svuotare il grembo materno di Maria, per dare inizio a una nuova esperienza di vita e inondarci di eternità.

Nella parabola del figlio prodigo, il padre diceva all’insensibile figlio maggiore che: “bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato” (Luca 15:32). Così, anche nelle precedenti parabole, l’idea di rallegrarsi e di festeggiare la vita è dominante (vv. 1-7). Ciò significa che oltre a riflettere sulla croce è importante sempre più ammirare il risorto.

Sulla via di Damasco Paolo vede Gesù risuscitato e non il simbolo della sua morte (cfr. Atti 9:3-6). Chi non ha mai letto il celeberrimo brano sulla risurrezione in 1 Corinzi 15? Nella Lettera ai Colossesi, Paolo invita i credenti ad avere lo sguardo rivolto al cielo e non sulla terra, dove la cultura del non senso annienta ogni anelito alla vita e alimenta l’immoralità (cfr. Colossesi 3). In Apocalisse, Giovanni, alla presenza del risorto, “cade per terra come morto”. Per il vecchio apostolo, il tocco di Gesù e le sue suadenti parole sono vitalizzanti: “Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades (Apocalisse 1:17-18). […]

Siamo vivamente sequestrati dal dolore e la croce è la massima espressione in cui ci riconosciamo. Ma il calvario e la croce sono eventi che non devono inibire il desiderio di vivere, di sperare e di festeggiare la vita. Come il figlio prodigo, anche noi “eravamo morti e siamo tornati in vita, perduti e ritrovati”. Siamo, idealmente, nella casa del Padre e non in una qualsiasi parte del mondo o in un tugurio. È saggio dunque dargli la possibilità di rallegrarsi e di festeggiare il nostro ritorno all’eternità. La morte di Cristo è anche la nostra morte al peccato, la sua risurrezione è la nostra risurrezione. È dunque giudizioso camminare “in novità di vita” (cfr. Romani 6:4-5; Colossesi 3:1), permettendo a Gesù di requisire le nostre emozioni e le più nobili aspirazioni.

Scrive l’apostolo Paolo: “sapendo che colui che risuscitò il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù, e ci farà comparire con voi alla sua presenza” (2 Corinzi 4:14), “rallegratevi, ricercate la perfezione, siate consolati, abbiate un medesimo sentimento, vivete in pace; e il Dio d’amore e di pace sarà con voi” (2 Corinzi 13:11).

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Oltre ogni immaginazione. La cena è pronta

Oltre ogni immaginazione. La cena è pronta

Francesco Zenzale – Al museo archeologico del Cairo è esposta una “vignetta” di vita quotidiana di qualche millennio fa: è il ritorno a casa di un figlio dopo un lungo viaggio. Si vede un giovane che varca la soglia di casa, con la madre e il padre che lo accolgono felici dicendo: “Di nuovo tra noi!”. Mentre sullo sfondo si affaccia la figlia che annuncia: “La cena è pronta!”.

Gesù, in occasione dell’ultima cena, disse: “Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire; poiché io vi dico che non la mangerò più, finché sia compiuta nel regno di Dio” (Luca 22:15-16). In Apocalisse 19 troviamo la visione in cui si  afferma che “sono giunte le nozze dell’Agnello” (v. 7).

Esiste una grande differenza fra l’ultima cena terrena di Gesù, in cui la chiesa, gli apostoli, non erano ancora in grado di accogliere il Messia nel Gesù sofferente, avendone travisata la missione, e la cena a cui tutti i credenti sono inviati, quella che celebrerà l’inizio del regno di Dio. “La sposa” di Cristo, la chiesa, sarà pronta, “si è preparata” per l’evento (v. 7).

Questo sposalizio escatologico va oltre la nostra comprensione. È impossibile rappresentarsi un banchetto con i redenti da Adamo fino al ritorno di Cristo. Credo sia saggio non fantasticare, oggettivando la visione, ma cercare di cogliere alcuni insegnamenti:
la certezza della salvezza;
l’opera della nostra fede, le fatiche del nostro amore e la costanza della nostra speranza nel nostro Signore Gesù Cristo (1 Tessalonicesi 1:3) non saranno disattese;
il ricongiungimento dei figli di Dio;
– la gioia di vedere Gesù. “Padre, io voglio che dove sono io, siano con me anche quelli che tu mi hai dati, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai data; poiché mi hai amato prima della fondazione del mondo” (Giovanni 17: 24);
– l’inaugurazione del nuovo percorso dell’umanità.

Il regno di Dio che Gesù ha avviato con la sua venuta sulla terra, caratterizzato innanzitutto dalla conversione e dalla santificazione (cfr. Matteo 3:2; 4:17; Romani 6:22; Ebrei 12:14), fluirà nel suo compimento, e i santi liberati definitivamente dalle conseguenze del peccato (cfr. 1 Corinzi 15:53), inaugureranno il regno di Dio insieme agli angeli, al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.

Non c’è nulla d’inattuabile! Le promesse contenute nelle Scritture “sono le parole veritiere di Dio” (Apocalisse 19: 9).

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Oltre ogni immaginazione. Il regno di Dio: anticipazioni

Oltre ogni immaginazione. Il regno di Dio: anticipazioni

Francesco Zenzale – Giovanni Battista era un uomo pio e convinto precursore del Messia. Più volte aveva additato Gesù come l’unto dell’Eterno, “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (Giovanni 1:29, 36; 3:30). Ma in un particolare momento della sua breve vita, mentre era in prigione, fu avvolto dal dubbio e dallo scoraggiamento. Allora prese la decisione di inviare da Gesù alcuni dei suoi discepoli per porgli la seguente domanda: “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?” (Matteo 11:2,3).

Dopo un’intensa giornata di lavoro fra insegnamenti e guarigioni, dove gli inviati ebbero la gioia di vedere l’attualizzazione del regno di Dio nell’opera del Messia, Gesù rispose loro: “Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano e il vangelo è annunciato ai poveri. Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!” (vv. 4-6).

La risposta di Gesù è ogni oltre inventiva! Non si tratta di un miracolo, di un sermone, di una conversione, ma di un insieme di prodigi e d’insegnamenti compiuti in un solo giorno, che possiamo accogliere solo per fede e come pregustazione del regno di Dio, perché “è [già] in mezzo a voi” (Luca 17:21; cfr. 11:20).

Il Nuovo Testamento riferisce circa cento volte di segni, prodigi ed eventi sorprendenti riguardo a Gesù. La Lettera agli Ebrei attribuisce queste circostanze sovrannaturali all’azione dello Spirito Santo. “Mentre Dio stesso aggiungeva la sua testimonianza alla loro con dei segni e dei prodigi, con opere potenti di ogni genere e con doni dello Spirito Santo, secondo la sua volontà” (Eb 2:4). Gesù preparava i discepoli alla propria dipartita quando fece un’incredibile promessa: “In verità, in verità vi dico che chi crede in me farà anch’egli le opere che faccio io; e ne farà di maggiori perché io me ne vado al Padre” (Giovanni 14:12).

Come avrebbero potuto i discepoli fare cose come quelle compiute da Gesù o addirittura superiori? Fra le tante promesse, Gesù annuncia (nel Vangelo di Giovanni, capitoli da 14 a 16) che lo Spirito Santo sarebbe stato la fonte e il centro di tutto il loro ministero. Ecco alcuni degli miracoli che videro protagonisti proprio i discepoli: l’uomo zoppo guarito a Gerusalemme (Atti 3); tutti i malati e i posseduti condotti davanti a loro e da loro guariti (Atti 5); i segni e i prodigi verificatisi a Iconio (Atti 14); fazzoletti e grembiuli che erano stati sul corpo di Paolo che “guarivano” dalle malattie e dagli spiriti maligni (Atti 19).
Questo elettrizzante quadro lo si può capire sia nella prospettiva escatologica, come evento che accadrà prima del ritorno di Cristo (cfr. Atti 2:16-21), sia nella comprensione teologica, nel senso che il male e la morte saranno annientati per sempre.

L’apostolo Paolo, nel superbo capitolo sulla risurrezione, afferma che “come abbiamo portato l’immagine del terrestre, così porteremo anche l’immagine del celeste” (1 Corinzi 15:49). Ciò significa che l’attuale condizione dell’uomo sarà sopraffatta dalla nuova: da quella celeste (vv. 50-57). Questa promessa ci induce a non cedere all’incredulità o alla disperazione, ma a essere “saldi, incrollabili, sempre abbondanti nell’opera del Signore, sapendo che la nostra fatica non è vana nel Signore” (v. 58).

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

 

 

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