In questa intervista tratta dalla diretta RVS del 03 arzo 2022, Claudio Coppini e Roberto Vacca commentano alcune notizie del giorno con il politologo Paolo Naso, giornalista, saggista, docente universitario, già coordinatore del progetto Mediterranean Hope della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI).
Tra i temi affrontati: Putin, dittatore del '900; lo zar è sempre più solo? La Chiesa ortodossa si spacca; il razzismo al confine che fa distinzione tra i profughi.
Siamo arrivati in fondo a questo interessante viaggio storico nella poesia, durato 10 tappe. In questa ultima puntata ascolterete 5 poesie lette dall’attore Gabriele Giaffreda.
La prima poesia è stata scelta da un’affezionata radioascoltatrice della nostra radio, Franca Pallanti da Assisi, che ci ha proposto un passo tratto dal Diario di Etty Hellisum, seguita da un suo breve commento. La seconda poesia, In memoria è stata inviata dal professor Francesco Ciriolo da Lecce, che l’accompagna con un suo ricco contributo letterario.
La terza poesia è un’interessante proposta di Roberto Vacca, Il secondo avvento, del poeta irlandese William Yeats. Roberto ce ne sottolinea la potenza poetica ed esortativa. La quarta poesia, Invictus, del poeta inglese William Ernest Henley, scelta da Claudio Coppini, ci mostra come una poesia possa racchiudere in sé un sostegno spirituale formidabile. In questo caso ha dato la forza quotidiana a Nelson Mandela per sopportare e superare i lunghi anni della prigionia. E ultima, ma non ultima, la poesia, Generalizzando, del poeta Giorgio Caproni, scelta dal medico psichiatra e poeta, Giovanni Varrasi, che gli permette di fare un volo, “con i piedi per terra”, sull’importanza irrinunciabile del dono.
Qui sotto i testi delle poesie lette da Gabriele Giaffreda
“Frasi che sono poesia”, dal Diario di Etty Hillesum
Se noi salveremo solo i nostri corpi dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita, ad ogni costo, ma di come la si conserva. Voglio essere un cuore pensante! Si è a casa dovunque su questa terra, se si porta tutto in noi stessi.
“IN MEMORIA”, poesia di Giuseppe Ungaretti
Locvizza il 30 settembre 1916.
Si chiamava Moammed Sceab Discendente di emiri di nomadi suicida perché non aveva più Patria Amò la Francia e mutò nome Fu Marcel ma non era Francese e non sapeva più vivere nella tenda dei suoi dove si ascolta la cantilena del Corano gustando un caffè E non sapeva sciogliere il canto del suo abbandono L’ho accompagnato insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo a Parigi dal numero 5 della rue des Carmes appassito vicolo in discesa. Riposa nel camposanto d’Ivry sobborgo che pare sempre in una giornata di una decomposta fiera E forse io solo so ancora che visse.
“IL SECONDO AVVENTO” di William Yeats
Girando e girando nella spirale che si allarga il falco non può udire il falconiere; Le cose crollano; il centro non può reggere; Mera anarchia è scatenata sul mondo; La corrente torbida di sangue è scatenata, ovunque Il rito dell’innocenza è sommerso; Ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori Sono pieni di appassionata intensità.
Di certo qualche rivelazione è vicina; Di certo il Secondo Avvento è vicino. Il secondo Avvento! Appena dette queste parole Una vasta immagine emergente dallo Spiritus Mundi Mi turba la vista: in qualche luogo tra le sabbie del deserto Una forma – corpo di leone, testa di uomo, Lo sguardo inespressivo e spietato come il sole – Si muove sulle sue lente cosce, mentre tutto all’intorno Turbinano le ombre degli sdegnati uccelli del deserto. Le tenebre scendono ancora; ma adesso io so che venti secoli di sonno pietroso Furono turbati fino all’incubo dal dondolar di una culla. E quale mai informe animale, giunta finalmente la sua ora, Si avvicina a Betlemme per nascere?
“Invictus”, poesia di William Ernest Henley
Dal profondo della notte che mi avvolge, Nera come un pozzo da un polo all’altro, Ringrazio qualunque dio esista Per la mia anima invincibile. Nella feroce morsa delle circostanze Non ho arretrato né gridato. Sotto i colpi d’ascia della sorte Il mio capo è sanguinante, ma non chino. Oltre questo luogo d’ira e lacrime Incombe il solo Orrore delle ombre, E ancora la minaccia degli anni Mi trova e mi troverà senza paura. Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.
“Generalizzando”, poesia di Giorgio Caproni
Tutti riceviamo un dono. Poi, non ricordiamo più né da chi né che sia.
Soltanto ne conserviamo – pungente e senza condono- la spina della nostalgia.
In questa puntata numero 9 del programma Altrobinario speciale poesia,approfittando della presenza di Giovanni Varrasi, nella sua doppia veste di medico psichiatra e di poeta (nonché di curatore della rubrica) vogliamo prendere in esame una poetessa del ‘900, Alda Merini e un poeta, Dino Campana che hanno un filo rosso comune: la poesia, il meccanismo della follia e l’esperienza dell’internamento in manicomio. Come si vedrà con due esiti differenti.
Come nelle puntate precedenti, Claudio Coppini svolgerà il ruolo del conduttore e Roberto Vacca presterà la sua voce alla lettura delle poesie.
Alda Merini, breve nota biografica.
Alda Merini nasce a Milano nel 1931. Vi muore nel 2009.
Vive l’infanzia durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Nel 1947, a sedici anni, ha le sue prime crisi psichiatriche, che chiama
“ le prime ombre che riempiono la sua mente”. Viene ricoverata in Psichiatria più volte.
Da giovane donna vive molti amori e scrive varie raccolte di poesie, che vengono pubblicate.
Ha una figlia.
Dal 1969 al 1972 subisce un lungo internamento all’ospedale psichiatrico di Milano.
Dal 1979 si ristabilisce in pieno. Continua a vivere e a scrivere poesie,
che hanno grande risalto e successo letterario.
La sua figura diventa un simbolo della lotta tra il bisogno d’amore e le ombre della follia.
Di lei abbiamo scelto la poesia
“ Ho bisogno di sentimenti”
Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze
di sogni che abitino gli alberi
di canzoni che facciano danzare le statue
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti.
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.
La mia poesia è alacre come il fuoco
trascorre tra le mie dita come un rosario
………………….
sono il prato che canta e non trova le parole
sono la paglia arida sopra cui batte il suono
sono la ninnananna che fa piangere i figli
sono la vanagloria che si lascia cadere
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato
cordoglio che non vede la luce.
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Dino Campana, breve nota biografica.
Dino Campana nasce a Marradi, sull’Appennino tra Toscana e Romagna, nel 1885.
Muore a Scandicci, nel manicomio di Castelpulci, nel 1932.
Il poeta espresse il suo “male oscuro”, che gli psichiatri chiamano schizofrenia, con il bisogno di una vita errabonda: fughe in paesi stranieri, viaggi lontani o nei boschi dell’Appennino, dove trascorreva giornate intere da solo. Ma la sua vita è anche studi, speranze, sacrifici.
Nella sua esistenza dolente e confusa , affiorano due isole: le sue poesie( i Canti orfici)
e l’amore per Sibilla Aleramo.
Nel caso delle sue poesie, dopo essere andato a piedi attraverso i boschi da Marradi a Firenze,
consegnò il suo manoscritto nelle mani di Giovanni Papini e Ardengo Soffici. I due letterati glielo persero (!),
tanto che dovette riscriverlo per intero.
Per quanto riguarda l’amore, Sibilla Aleramo, vogliosa di un’ennesima esperienza, di un ennesimo amante
nel mondo letterario, lo sedusse e poi lo abbandonò. L’amore durò una sola estate.
Il primo ricovero in manicomio di Dino Campana avvenne a Imola: aveva 20 anni, poi a 23 fu ricoverato per un breve periodo a San Salvi, manicomio di Firenze. Nel 1918 fu ricoverato definitivamente a Castelpulci, aveva 33 anni.
Vi morì nel 1932.
Di Dino Campana abbiamo scelto la poesia dedicata a Sibilla Aleramo.
In un momento
In un momento sono sfiorite le rose,
i petali caduti
perché io non potevo dimenticare le rose
erano le sue rose erano le mie rose.
Questo viaggio chiamammo amore.
Col nostro sangue e con le nostre lagrime facevamo le rose
che brillavano un momento al sole del mattino.
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
le rose che non erano le nostre rose
le mie le tue rose.
P.S. E cosi dimenticammo le rose.
( per Sibilla Aleramo)
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Giovanni Varrasi( dalla raccolta “ Parentesi graffa”)
Vorrei
Vorrei svegliarmi in campagna mentre suonano le campane,
domenica è sempre domenica,
il profumo delle lenzuola di lino, la loro consistenza sul mio viso.
Vorrei una famiglia, tutti insieme,
nonni, nipoti, zie bizzarre, amici contadini, filosofi, genitori che sanno,
una grande casa luminosa, frutta colorata e succosa,
tutti intelligenti
che anche l’intelligenza te la mangi a colazione.
Vorrei pregare Dio,
la manina di Miriam tra le mie.
E poi un cielo stellato,
profondità che parlano.
Fermentino fresco da bere su una terrazza.
La notte sogni disperati,
anche il dolore deve avere il suo spazio.
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Claudio Coppini dalla sua pagina sul sito scrivere.info
Le anime degli amanti
Gli amanti
separati,
posti
agli arresti
domiciliari
nelle loro stanze
vuote
solitarie,
meditano
sull’assoluto divieto
d’incontrarsi
ancora.
Eppure
sul far della sera
la mano
di lui
prende su
i pensieri di lei
e i pensieri
di lei
cercano
la mano di lui.
Immuni
da regole
divieti,
le anime
s’abbracciano
nella notte.
E all’alba,
zittezitte
sgusciano via
lasciando
il buon profumo di sé
tra le pieghe
dei lenzuoli.
Nella prossima e ultima puntata leggeremo sei poesie,
fuori da riferimenti temporali, quelle che ci piacciono di più,
che ci hanno commosso, che sono rimaste indelebili nella memoria.
Tre saranno scelte dai curatori della rubrica (una ciascuno).
Le altre tre dagli ascoltatori. Le poesie scelte,verranno semplicemente lette citando l’autore.
Siamo arrivati all’ottava puntata della rubrica L’altrobinario speciale poesia e il secolo di cui ci occuperemo in questa puntata è il Novecento.
Del ‘900 italiano in questa prima puntata abbiamo scelto tre poeti: Gabriele D’Annunzio
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Come premessa alla puntata ci piace riportare un aforisma di un poeta di lingua tedesca, Rainer Maria Rilke ( Praga 1875, Alpi svizzere 1926).
“Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente”.
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Gabriele D’Annunzio è nato a Pescara nel 1863, è morto a Gardone Riviera nel 1938.
Scrittore, poeta, drammaturgo, militare, politico, giornalista, è stato simbolo del Decadentismo e celebre figura della prima guerra mondiale e del nascente fascismo.
Di lui scegliamo la celeberrima poesia “ La pioggia nel pineto” ( due strofe)
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici
umane;
ma odo parole più nuove che parlano,
gocciole e foglie lontane.
Ascolta. Piove dalle nuvole sparse,
piove sulle tamerici salmastre e arse
piove su i pini scagliosi e irti
piove su i mirti divini
sulle ginestre fulgenti di fiori accolti
su i ginepri folti di coccole aulenti
piove sui nostri volti silvani
piove sulle nostre mani ignude
sui nostri vestimenti leggeri
sui freschi pensieri
che l’aria schiude novella,
sulla favola bella che ieri t’illuse, oggi m’illude
o Ermione
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Giuseppe Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1888 è muore a Milano nel 1970.
Figlio di genitori italiani provenienti da Lucca. Il padre era operaio per i lavori di apertura lavori del canale di Suez, la madre possedeva un forno.
Ebbe in tutta la sua vita un grande amore per la poesia. Visse in Francia. Partecipò alla prima guerra mondiale. Coltivò molte attività letterarie e giornalistiche a Parigi.
Nel 1942 tornò in Italia, nominato Accademico.
L’Ermetismo è la sua espressione stilistica, cioè una poesia misteriosa, chiusa, serrata.
I suoi versi sono potenti anche se espressi da poche parole.
Poesia “Mattina”
M’illumino di immenso
Poesia “ Soldati”
Si sta come d’autunno
sugli alberi le foglie
Poesia “ Porto sepolto”
Vi arriva il poeta e poi torna alla luce
coi suoi canti
e li disperde
mi resta quel nulla
d’inesauribile segnale
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Eugenio Montale nato a Genova nel 1896, è morto a Milano nel 1981.
Poeta, traduttore, giornalista. Premio Nobel per la letteratura nel 1975.
Di lui, la splendida, famosa poesia
“Non chiederci la parola che squadri da ogni lato”
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato,
l’animo nostro informa, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato
Ah, l’uomo che se ne va sicuro
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarmi la formula che mondi possa aprirti
si qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo darti
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Infine, una poesia di Giovanni Varrasi dal titolo “ Lodo Esposito”
Bastardi senza radici, soldi, casa, libri,
senza traccia di pietà,
corrono a perdifiato, ridendo, urlando,
nei vicoli , nel ventre della città.
Canzoni, risate, le scarpe rotte,
calzoni con le toppe.
Un vento caldo li spinge,
li sostiene, li fa volare.
Figli di Dio, si, si, figli di Dio,
affidati alla sua Provvidenza
e ai loro sorrisi, ai profili scavati,
alla sfida sfacciata per non morire.
Dai balconi soleggiati, scoppia, come un acquazzone estivo,
un canto allegro, sincero, solare, collettivo,
che s’impiglia tra i lenzuoli ad asciugare
tra gli odori umidi dei bassi e il vuoto delle Chiese.
L’eco lo senti, lontano, anche dopo tanti anni.
Quei bambini, ormai uomini, faticano in fornace,
in carcere, al cimitero,
hanno lo sguardo opaco, consumato,
non più, per niente, sincero.
Siamo arrivati alla settima puntata della rubrica L’altrobinario speciale poesia e il secolo di cui ci occuperemo in questa puntata è l’Ottocento .
Il Romanticismo è un movimento artistico che nasce in Germania sotto il termine “sturm und trang “. ovvero “tempesta e assalto” e si diffonde successivamente in tutta Europa.
Reagisce all’Illuminismo cioè al culto della Ragione, e al Neoclassicismo, cioè al culto delle forme classiche della bellezza, quella degli antichi greci e romani.
Il Romanticismo cavalca e valorizza le energie della Spiritualità, dell’Emotività, del sentimento appassionato, della Fantasia, e sopratutto afferma il valore supremo della soggettività dell’artista. L’800 è il secolo dei poeti e della poesia.
Tra tutti ne elenchiamo solo alcuni:
Keats, Shelley, Foscolo, Carducci, Pascoli.
Noi ne scegliamo due: lord Byron e Giacomo Leopardi
Byron è un nobile inglese. Tra i suoi antenati ci sono ammiragli, narratori, stravaganti libertini. Visse 36 anni tra il 1788 e il 1824.
Byron descrive il malessere del secolo, l’inquietudine, l’irrequietezza, la malinconia, lo spirito di ribellione contro l’ordine costituito.
Di lui abbiamo scelto una poesia dal titolo “Strofe per musica”.
Dicono che la Speranza sia Felicità,
ma il vero Amore deve amare il Passato
e il Ricordo risveglia i pensieri felici che primi sorgono e ultimi svaniscono,
e tutto ciò che il Ricordo ama di più, un tempo fu Speranza solamente
e quel che amò e perse la Speranza
ormai è circonfuso nel Ricordo.
È triste! È tutto un’illusione,
il futuro ci inganna da lontano
non siamo più quel che ricordiamo
nè osiamo pensare a quel che siamo.
In questa poesia Speranza e Ricordo si inseguono invano, entrambi alla ricerca dell’Amore. Quello che resta nel presente è un enorme Vuoto.
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Il conte Giacomo Leopardi è stato un poeta, un erudito, un filosofo, uno scrittore.
È ritenuto uno dei maggiori poeti europei dell’800.
È nato a Recanati nel 1798, è morto a Napoli nel 1837 a 39 anni.
Da ragazzo studia molto ( è sua l’espressione “ studio matto e disperatissimo”) nella straordinaria biblioteca del padre, con l’ausilio di precettori ed eruditi.
Apprende il latino e il greco, conosce l’ebraico e il sanscrito e tutte le lingue europee.
Ha interessi per la matematica e l’astronomia.
È, per tutta la sua breve vita, molto malato. Sopratutto di una grave forma di scoliosi, presumibilmente di origine tubercolare. Ha gravi problemi agli occhi. Soffre intensamente tutto il suo dolore, sente come ferite insopportabili i suoi gravi impedimenti fisici, che ostacolano il suo amore per le donne e il suo sconfinato bisogno di amore. La sua sterminata cultura è solo un palliativo, un lenimento non risolutivo.
Passa dall’amore per l’erudizione, all’apprezzamento del Bello, e poi dall’amore del Bello a quello per la Verità.
Viaggia a Roma, a casa dello zio materno, poi a Milano, a Bologna , a Pisa.
A Firenze rimane tre anni dal 1830 al 1833.
Poi a Napoli, ospite del suo amico Antonio Ranieri, che lo seppellisce al momento della morte, poche settimane prima dell’avvento della peste.
Un’amica tedesca così lo descrive in quel periodo:
“ Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente…fa del giorno notte e viceversa…conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare.
Tuttavia, conoscendolo più da vicino, la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare dispongono l’animo in suo favore”.
E ora, detto del corpo e della mente così sfortunati, godiamoci questi versi meravigliosi che Leopardi crea!
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle e questa siepe
che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando,
interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo;
ove per poco il cor non si spaura.
E come il vento odo stormir tra queste piante
io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando
e mi sovvien l’eterno e le morte stagioni
e la presente, e viva, e il suon di lei.
Così tra queste immensità s’immerge il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Una delle poesie più intense mai scritte!
Me stesso
Or poserai per sempre, stanco mio cor.
Perì l’inganno estremo, ch’eterno io mi credei.
Perì. Ben sento in noi i cari inganni.
Non che la speme, il desiderio, è spento, posa per sempre.
Assai palpitasti.
Non val cosa nessuna i moti tuoi,
nè di sospiri è degna la terra.
Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango il mondo.
T’acqueta ormai. Dispera l’ultima volta.
Al gener nostro il fato non donò che il morire.
Ormai disprezza te, la natura,
il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera e l’infinita vanità del tutto.
Dolore, dolore, dolore. Allora la poesia di Leopardi è solo questo? Un urlo, magari con parole ben scelte, sublimi, che si dilata da sè?
Dice di lui De Sanctis, il maggiore critico letterario italiano:
Leopardi non crede al progresso e te lo fa desiderare
non crede alla libertà e te la fa amare
chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto il desiderio
È scettico e ti fa credente
E mentre non crede possibile un avvenire per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore in quella e ti infiamma a nobili fatti.
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La poesia di Varrasi è dedicata al padre morto, visto proprio nel momento successivo al decesso.
Si intitola “Mio padre”
Il viso di mio padre cadavere era proprio solo carne.
L’anima se ne era andata, era evidente.
Indaffarato come era stato a tirare il pesante carretto della famiglia,
l’aveva trascurata, troppo.
Come una donna poco amata,
la sua anima aveva colto al volo l’occasione per lasciarlo lì,
un semplice ammasso di cellule.
Rimanevano i ricordi dei suoi occhi grandi, ora affettuosi, ora severi,
delle labbra carnose, del profumo nel fazzoletto pulito,
delle sue mani larghe che rassicuravano,
dei ciuffi di peli alle orecchie, ricordo di stagioni selvagge.