L’emergenza sanitaria ha portato diversi Paesi a sospendere ogni attività sociale tra cui i servizi religiosi. Il racconto di una pastora avventista dell’Estonia.

Mervi Kalmus – Un paio di settimane fa leggevo un libro del mio autore preferito, Frederick Buechner. Alcune righe della sua biografia Telling Secrets mi hanno toccato profondamente perché contenevano un fondo di verità. Buechner afferma: “Mi chiedo se la cosa migliore che potrebbe accadere a molte chiese non sia l’incendio degli edifici e la perdita di tutto il denaro, bensì ciò che la gente lascerebbe, cioè Dio e l’altro”.

Non sapevo che, solo due settimane dopo, il nostro governo [dell’Estonia, ndt] avrebbe dichiarato l’emergenza nazionale nel tentativo disperato di contenere la malattia Covid-19 e che l’emergenza avrebbe comportato la chiusura temporanea di tutte le nostre chiese.

Non sapevo che solo pochi giorni dopo aver letto questa citazione mi sarei svegliata di sabato mattina e mi sarei resa conto che tutto ciò che mi restava era Dio e la mia gente. Nessun edificio. Nessun servizio. Nessuna routine pastorale. Solo Dio e la mia gente.

Le emozioni sono forti e mi sto ancora riprendendo dal giorno successivo alla decisione shock del governo. L’intera giornata è sembrata una lunga riunione di emergenza, in quanto dovevamo reagire e prendere decisioni molto rapide sulla sicurezza dei membri della nostra chiesa. La sera ero emotivamente esausta. Non tutto è risolto nella mia mente, ho alcuni pensieri che, nella confusione generale, sono emersi chiari e reali.

Innanzitutto mi manca tantissimo la mia chiesa! Il team dei media della Federazione delle chiese avventiste dell’Estonia ha tenuto un servizio religioso online in modo che tutti potessimo “andare“ in chiesa, mentre in realtà eravamo seduti nei nostri salotti, postando selfie sulla chat di Facebook della chiesa, condividendo le richieste di preghiera, scherzando e cercando di mantenere alto e positivo lo spirito. Nonostante tutto questo, mi ha fatto male non poter stare insieme realmente.

In una giovane famiglia nella nostra chiesa è nato un bambino la scorsa settimana e non abbiamo potuto abbracciarli sabato mattina né pregare con loro o congratularci con i nonni. Non ho potuto incontrare un’amica che lavora all’estero e che è qui in questo fine settimana. Non posso condividere una conversazione significativa con questa o quella persona. Mi è mancato il ragazzo che, dopo ogni servizio di culto, va a dare il “buon sabato” a tutti nella nostra comunità. Ho perso l’agape insieme, con i piccoli che corrono qua e là. Ho sentito la mancanza di tutte queste cose che di solito do per scontato. All’improvviso la “magia” della chiesa – la “magia” del corpo di Cristo fatto di persone normali e imperfette – sembra ancora più grande e forte ora che non possiamo riunirci per un po’.

In secondo luogo, mentirei se dicessi di non aver provato alcun sollievo dopo essermi resa conto che non avrei dovuto predicare o tenere incontri questo sabato. Di colpo, inaspettatamente, ho vissuto una giornata di assoluto riposo. Sembrava strano, eppure meraviglioso.

Però, non potevo sopportare di stare a casa da sola per tutto il giorno. Avevo bisogno di condividere il sabato con qualcuno, quindi sono andata a far visita alla famiglia dal past. Ivo Käsk, mio mentore e buon amico, uscita dalla quarantena di 14 giorni, forte e in salute.

In qualità di presidente dell’Unione avventista baltica, Ivo avrebbe dovuto predicare in un’altra chiesa mentre io avrei dovuto tenere il sermone nella comunità che servo; invece, in questa inimmaginabile svolta di eventi, ci siamo trovati seduti sullo stesso divano a cantare gli inni della liturgia su internet, a donare le offerte tramite transazione bancaria online, a pranzare insieme. È stato meraviglioso… E in tutto udivo il debole eco delle parole di Gesù: “Vieni via con me. Andiamo da soli in un posto tranquillo e riposiamo per un po’”. Non riesco mai ad “andare via e riposare” di sabato. Ora, grazie a una pandemia mondiale, lo faccio.

Mi sono anche resa conto di quanto sia sottile il confine tra ciò che consideriamo normale e l’insolito. Sono bastate un paio di settimane perché un virus sconosciuto si diffondesse nel nostro Paese e tutto venisse improvvisamente capovolto. Tutto ciò che sembrava così sicuro e stabile è scomparso.

Cosa rimane? Alcune persone hanno centocinquanta rotoli di carta igienica impilati nel loro armadio. In qualche modo li fa sentire un po’ al sicuro. Altri si affidano a Netflix [canale televisivo a pagamento, ndt] per essere trasportati in un luogo migliore. Molti altri fanno affidamento su enormi quantità di pasta e riso. Altri guardano i medici e i membri del governo come se fossero per metà divini.

Quando riesco a smettere di leggere le allarmanti notizie e poi faccio un paio di respiri profondi, mi rendo conto che la mia sicurezza viene da un’altra fonte. Viene dal Signore degli eserciti, il cui amore per il genere umano malato e preoccupato abbonda di ogni comprensione.

Ciò che ci resta è Dio e l’altro. E questo è più che sufficiente.

(Mervi Kalmus è pastora avventista in Estonia e docente part-time presso il Newbold College nel Regno Unito)

[Fonte: TedNews. Traduzione: Lina Ferrara. Immagine: Pixabay]

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