Mille anni più tardi
9 Gennaio 2025
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Il cristianesimo si fonda essenzialmente sulla convinzione che la vita e la missione di Gesù Cristo sulla terra siano una continuazione e un adempimento della precedente rivelazione di Dio, nota come Antico Testamento.

Adrian Bocăneanu – Ciascuno dei quattro evangelisti che aprono il Nuovo Testamento con i racconti della vita, morte e resurrezione di Cristo, così come il grande missionario Paolo, cita numerosi passi delle Scritture ebraiche, dichiarando che Gesù Cristo li ha adempiuti. La maggior parte di questi adempimenti si concentra sulla sua nascita, la morte e la risurrezione.

Tuttavia, con il passare del tempo, il concetto di profezia ha perso parte del suo potere persuasivo. Alcuni sostengono che non dovremmo cercare o considerare nulla nella vita di Gesù come realizzazione delle profezie, poiché, a loro avviso, non esiste la profezia, così come non esiste il soprannaturale. Inevitabilmente, queste posizioni critiche erodono la fiducia dei lettori del vangelo, che iniziano a mettere in discussione il significato delle brevi espressioni e frasi che gli evangelisti hanno raccolto dagli antichi scritti biblici e associato alla vita di Gesù.

Un caso particolarmente degno di studio nel contesto della celebrazione pasquale è il Salmo 22. Lo stesso Gesù, in agonia sulla croce, soffrendo terribilmente e provando un senso schiacciante di solitudine, gridò parole che sono, in effetti, i versi iniziali di questo poema davidico: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Matteo 27:46).

Ma perché Gesù ha usato queste parole?

Fin dall’inizio, la sua vita fu percepita dal popolo come strettamente collegata all’illustre re d’Israele, Davide, vissuto circa un millennio prima di Cristo. Gli evangelisti, in particolare Luca, il più meticoloso di loro, menzionano ripetutamente che Giuseppe, il promesso sposo di Maria “era della casa e famiglia di Davide” (Luca 1:27; 2:4) e che Gesù nacque nella “città di Davide” (Luca 2:11).
Durante il suo ministero, Gesù venne frequentemente chiamato “Figlio di Davide,” un titolo che lo identificava inequivocabilmente come il liberatore, il Messia tanto atteso, inviato da Dio.

Il secondo Salmo, anch’esso scritto da Davide, dà il tono all’intero Salterio, presentando il fondatore della dinastia davidica come figura tipologica che prefigura il nuovo Davide, il Messia: “Ciò che è implicito nei Salmi diventa esplicito nei profeti. Numerosi profeti dell’Antico Testamento, sotto ispirazione, predicono che il Messia verrà come il nuovo Davide anti-tipico, riassumendo nella sua vita l’esperienza del primo Davide”.[1]

Con questa comprensione del legame essenziale tra il primo Davide e il nuovo Davide, il Messia, torniamo al Salmo 22. L’intensità della descrizione della sofferenza emotiva e fisica è straordinaria. Tutto è scritto in prima persona, suggerendo un’esperienza personale, ma il linguaggio supera il dolore umano ordinario e si avvicina a un racconto della morte stessa: “Ma io sono un verme, non un uomo” (v. 6); “Io sono come acqua che si sparge, e tutte le mie ossa sono slogate” (v. 14); “tu mi hai posto nella polvere della morte” (v. 15); “mi hanno forato le mani e i piedi” (v. 16). La morte incombente è trasmessa anche indirettamente: “Essi mi guardano e mi osservano” (v. 17), portando alla giusta conclusione che “non si tratta della descrizione di una malattia, ma di un’esecuzione”.[2]

Il teologo Jacques Doukhan evidenzia che il profeta Daniele stabilisce un collegamento specifico con il significato messianico del Salmo 22. In Daniele 9:26, la seconda frase che si riferisce alla soppressione dell’Unto (“nessuno sarà per lui) è linguisticamente collegata in ebraico al versetto 11 del Salmo 22: “non c’è alcuno che mi aiuti. Pertanto, Daniele indica il Messia come adempimento del tragico destino descritto nel Salmo 22.

Questi dettagli ci preparano a comprendere più profondamente i sorprendenti parallelismi tra il Salmo 22 e la crocifissione di Gesù, sia nei dettagli specifici sia nell’esperienza soggettiva. Tutti i discepoli di Gesù lo abbandonarono, riflettendo il versetto 11: “non c’è alcuno che mi aiuti”. La sua sete insopportabile e la disidratazione estrema adempirono il versetto 15: “Il mio vigore s’inaridisce come terra cotta, e la lingua mi si attacca al palato”. Il metodo di esecuzione, la crocifissione, è prefigurato nel versetto 16: “mi hanno forato le mani e i piedi”. Gli autori dei Vangeli non poterono ignorare l’adempimento del versetto 18: “spartiscono fra loro le mie vesti e tirano a sorte la mia tunica”. Perfino i capi ebrei, che cospirarono per condannare Gesù, sembravano riconoscere il parallelo con il Salmo 22, deridendolo con le parole del versetto 8: “Egli si affida al Signore; lo liberi dunque; lo salvi, poiché lo gradisce!”.

È molto probabile che Gesù, avendo adottato le parole iniziali del Salmo 22 ed essendo guidato da questo poema davidico durante il suo calvario, lo abbia anche utilizzato per la sua espressione finale: “È compiuto!” (Giovanni 19:30). Questa affermazione potrebbe essere linguisticamente collegata al testo “che egli stesso ha fatto” (Sl 22:31, ND), dando un nuovo significato a quella che inizialmente sembra un’esclamazione fatalistica e trasformandola in una dichiarazione di vittoria.

Il Salmo 22 è notevole per il suo drammatico cambio di tono. Dopo essersi immaginato già nella tomba, esausto e distrutto, l’autore si rivolge improvvisamente a Dio: “Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea” (vv. 22-25). Qualcosa di straordinario è accaduto, qualcosa di simile a un nuovo inizio. Non si tratta di un ritorno alla folla odiosa e assassina, né di una ripresa della tortura dopo una breve pausa, ma di un passaggio a un’esistenza piena, radiosa e trionfante, proprio come Gesù la sperimentò dopo la sua risurrezione.

Devo ammettere che per molti anni mi sono sentito un po’ perplesso e a disagio con i collegamenti che gli scrittori del Nuovo Testamento facevano tra le espressioni dell’Antico Testamento e gli eventi della vita di Gesù Cristo. Le associazioni mi sembravano un po’ arbitrarie, non esattamente i migliori esempi di un’interpretazione accurata dei testi sacri. Tuttavia, uno studio recente del Salmo 22 e delle profezie adempiute nella nascita e nella risurrezione di Gesù ha aperto i miei occhi sui collegamenti tipologici essenziali. Quando i primi cristiani facevano riferimento a poche parole dell’Antico Testamento, evocavano in realtà interi passaggi con un ben consolidato significato messianico. E i collegamenti linguistici sono straordinari, anche se spesso offuscati dalla traduzione.

Non credo sia una coincidenza che Gesù, immediatamente dopo essere risorto, nel suo primo invito alle donne accorse al sepolcro, “andate ad annunciare ai miei fratelli” (Matteo 28:10), riecheggi ancora una volta il linguaggio e il tono del Salmo 22: “Io annuncerò il tuo nome ai miei fratelli” (v. 22).

Note
[1] Richard M. Davidson, “New Testament Use of the Old Testament,” Journal of Adventist Theological Society, vol. 5, no. 1, 1994, p. 24.
[2] A. Bentzen, “King and Messiah“, Lutterworth, 1955, p. 40.

[Fonte: st.network /Tradotto da Veronica Addazio] 

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