Una volta che pensi di possederla, l’hai già persa. L’esempio di Cristo ci incoraggia a riscoprire il vero significato di essere umili
L’umiltà è una virtù cristiana essenziale ma difficile. Ci sono forse due motivi per cui è così complessa. Primo, nel mondo di oggi sembriamo amare lodi, complimenti e ammirazione. Pochi di noi si accontentano di modestia, mitezza e umiltà. Secondo, come osserva John Dickson,[1] una volta che pensi di possedere l’umiltà, l’hai già persa, e quindi nessuno può affermare di averla davvero raggiunta.
La parola ebraica per umiltà è anawah, mentre quella greca è tapeinophrosune. Nell’Antico Testamento, la parola anawah appare quattro volte. Nel Nuovo Testamento, tapeinophrosune è citata sette volte. Entrambe significano “abbassarsi”. L’umiltà è definita come l’assunzione di una posizione inferiore rispetto a quella a cui si avrebbe diritto.
L’umiltà è una virtù raramente vista nei contemporanei di Gesù. Una rapida lettura delle biografie di Cornelio Nepote, Plutarco, Svetonio o Tacito, scritte all’epoca del Nuovo Testamento, rivela che non enfatizzano l’umiltà nei loro soggetti. Nei Vangeli, i farisei, i dottori della legge e persino i discepoli non mostrano umiltà. A un certo punto, Giovanni e Giacomo volevano essere il primo e il secondo nel regno di Dio. I discepoli spesso discutevano su chi sarebbe stato il più grande.
Rispetto alla mancanza di umiltà nel primo secolo, gli autori del Nuovo Testamento presentano un Gesù umile. Nella Lettera ai Filippesi, l’apostolo Paolo compone una bellissima poesia risalente al primo secolo, in cui dice: “il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l’essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò sé stesso, assumendo la forma di servo, divenendo simile agli uomini. Trovato esteriormente come un uomo, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fl 2:6-8).
Questo passaggio descrive la discesa di Cristo dal cielo alla terra per vivere come servitore e poi sperimentare la morte sulla croce al pari di un comune criminale. Nell’esperienza della crocifissione, Gesù non solo si umilia, ma è umiliato dalla vergogna, dall’indegnità e dal disonore.
Gesù mostra umiltà ai suoi discepoli quando prende una bacinella e un asciugamano, si china e lava loro i piedi durante l’ultima cena. Ebrei e gentili disprezzavano la lavanda dei piedi degli ospiti. I piedi si sporcavano non solo con la polvere delle strade, ma anche per i rifiuti gettati dai vasi da notte della gente. Non c’è da meravigliarsi che lo considerassero un compito di sottomissione riservato agli schiavi.
La sezione esortativa di entrambi i testi è mimetica, cioè invita i cristiani a imitare l’umiltà di Cristo. Paolo scrive: “Non fate nulla per spirito di parte o per vanagloria, ma ciascuno con umiltà consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi il proprio interesse, ma anche quello degli altri” (Filippesi 2:3, 4).
Nel passaggio della lavanda dei piedi, Gesù chiama esplicitamente i suoi discepoli a emulare la sua azione (cfr. Giovanni 13:12-16).
La storia diventa un momento di insegnamento morale in cui Gesù plasma l’umiltà e chiede ai suoi discepoli di mostrare la stessa virtù. L’esempio di Cristo dovrebbe spingerci a essere umili per il bene degli altri, anche se questo atteggiamento porta a un’umiliazione, abbassamento.
Ecco un promemoria della mia autrice preferita: “Nessuno deve cercare l’esaltazione. Più ci muoviamo e operiamo con umiltà, più saremo innalzati da Dio. Il ritorno di Gesù Cristo nel nostro mondo non tarderà. Questo deve essere il tema centrale di ogni messaggio”.[2]
Note
[1] J. Dickson, Humilitas: A Lost Key to Life, Love and Leadership, Grand Rapids, MI: Zondervan, 2011, pp. 11–14.
[2] E. G. White, Lettera 39, 27 marzo 1898, p. 13 (27 marzo 1898, diretta a Brethren Woods e Miller).
[Fonte: Hensley Gungadoo, Adventist Record. Tradotto da Veronica Addazio, HopeMedia Italia].
[Immagine di copertina: Taliesi su Pixabay.com]







