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Da alcuni giorni www.google.cn (l’estensione web che sta per “cina”) non esiste più. Chi si collega al sito viene reindirizzato su www.google.com.hk, situato nella ex colonia britannica di Hong Kong che oggi è una speciale e autonoma regione amministrativa della Cina. In questo modo Google ha potuto aggirare i filtri e le censure sul web imposti da Pechino su parole chiave come “Dalai Lama” o “Falungong” o “Tienanmen”, insieme a ulteriori altre che si rifacciano al concetto di Libertà di pensiero o di espressione che pure è sancito dalla costituzione cinese. Altri colossi dei motori di ricerca continuano però a lavorare ugualmente in Cina senza porsi problemi, nonostante gli appelli che Amnesty, già in passato, aveva rivolto a queste aziende. Anche il sito www.amnesty.org è stato bloccato in Cina, tranne che per il breve periodo delle Olimpiadi di Pechino. Molti cittadini cinesi sono perseguitati o si trovano in carcere a causa delle proprie opinioni, spesso solo per aver mandato una mail o visitato un sito sgradito al governo. Qual è la situazione da questo punto di vista? Mario Calvagno, redattore di RVS, intervista Paola De Pirro, coordinatrice Cina e Tibet della Sezione Italiana di Amnesty International.