Possiamo riscoprire la natura profondamente biblica dello scambio dei saperi?
Che si tratti di cucinare, riparare oggetti o affrontare le difficoltà della vita, impariamo sempre gli uni dagli altri. Tuttavia, quando si entra in certi ambiti, inclusa la vita di chiesa, lo scambio di esperienze risulta carente. Le comunità spesso tengono per sé le proprie idee e, soprattutto, i propri errori.
L’esperienza di una comunità non è proprietà privata. La Bibbia lo afferma attraverso le parole dell’apostolo Paolo, il quale insegnò ai credenti di Roma che “individualmente, siamo membra gli uni degli altri” (Romani 12:5). Paolo disse anche ai credenti di Corinto che ogni dono dello Spirito Santo era dato “per il bene comune” (1 Corinzi 12:7). In senso biblico, le chiese si mettono completamente a disposizione dell’intero corpo di Cristo. Quando condividono le loro conoscenze sul ministero, sull’organizzazione o sulla risposta alle crisi, aumenta la loro efficacia nella società.
Gli studi attuali sulla gestione organizzativa confermano che la condivisione della conoscenza è essenziale perché un’organizzazione sviluppi fiducia e resilienza. La mancanza di questo scambio porta le comunità a ripetere errori evitabili e a sprecare risorse. L’opportunità di apprendere dalle esperienze altrui apre la strada a innovazioni che possono spingere la missione della chiesa in ambiti altrimenti irraggiungibili, oltre a costruire relazioni e coltivare la fiducia.
Ma siamo davvero disposti a imparare gli uni dagli altri, anche se ciò significa ammettere di non sapere tutto?
Apprendimento reciproco
Da una prospettiva biblica, lo scambio di conoscenze è un’espressione pratica dell’interdipendenza che Dio ha intenzionalmente stabilito nel corpo di Cristo. La letteratura conferma che le organizzazioni capaci di creare meccanismi stabili per il trasferimento delle conoscenze diventano più resilienti di fronte al cambiamento.
Per le chiese, la condivisione della conoscenza è un’altra forma di condivisione delle risorse. Quando riconosciamo come preziose fonti di informazione le esperienze passate – che siano successi o fallimenti – non dobbiamo ricominciare ogni volta da capo ed evitiamo che le piccole comunità si sentano sole di fronte alle sfide.
Hirotaka Takeuchi e Ikujiro Nonaka, due giapponesi esperti di management, affermano che le organizzazioni che crescono nell’apprendimento riconoscono l’importanza di convertire la conoscenza tacita, ossia l’esperienza personale difficile da esprimere a parole, in conoscenza esplicita che si traduce in metodi, linee guida e buone pratiche.
Inoltre, lo scambio di conoscenze tra le chiese insegna implicitamente l’umiltà. Ammettere di dover imparare dalle esperienze altrui ci pone nella posizione di discepoli: questo non solo ci rende più modesti, ma anche più capaci di insegnare agli altri quanto abbiamo scoperto noi stessi. Quando alterniamo i ruoli di discepoli e insegnanti in un processo reciproco, ci avviciniamo all’unità che Cristo stesso desiderava per la sua chiesa.

Cosa ostacola lo scambio di conoscenza?
Anche se lo scambio sembra naturale, ci sono fattori che lo ostacolano. Jeffrey Cummings ha sottolineato che la mancanza di fiducia è il primo ostacolo. Se una comunità teme di essere giudicata per i suoi fallimenti o che le sue risorse siano utilizzate senza riconoscimento, rimarrà in silenzio.
Sheng Wang e i suoi colleghi hanno richiamato l’attenzione sulla mancanza di canali istituzionali. Anche nelle comunità in cui i responsabili sono aperti, l’assenza di incontri regolari o di piattaforme comuni fa sì che le informazioni circolino in modo caotico, affidandosi solo a contatti personali e sporadici.
Un altro fattore riguarda le dinamiche di potere. In una ricerca pubblicata su Frontiers of Psychology, YiFan Wang ha dimostrato che la competizione interna in molte organizzazioni porta all’occultamento delle informazioni.
In un contesto ecclesiastico, confrontare il successo in termini di numero di membri, eventi o visibilità mediatica può alimentare la stessa tendenza all’isolamento e al protezionismo.
Come facilitare la trasmissione di saperi tra le chiese?
Per contrastare questi impedimenti, sono necessari meccanismi chiari e ripetibili per avvicinarsi allo standard ideale sopra descritto. Senza di essi, la collaborazione dipende dalle relazioni personali tra i leader e può svanire con il loro cambiamento.
Uno di questi meccanismi è l’organizzazione di incontri tematici regolari, in cui ogni comunità presenti un’esperienza concreta del proprio lavoro. Questi appuntamenti potrebbero assumere la forma di serate di discussione, brevi conferenze o pranzi comunitari. La riuscita dipende dalla capacità dei partecipanti di accettare che non si tratta di una parata di successi, ma di uno spazio in cui le vulnerabilità sono al centro: cosa non ha funzionato, quali ostacoli sono emersi e come si sarebbe potuto agire diversamente.
Un secondo meccanismo prevede la creazione di risorse condivise: una biblioteca online di documenti, piani di lezione, materiali multimediali o guide alle migliori pratiche. Anche una semplice piattaforma cloud, se ben organizzata, può servire da archivio centrale da cui ogni comunità possa trarre ispirazione. Gli studi sulla gestione della conoscenza dimostrano che l’accessibilità e la chiarezza delle risorse sono importanti quanto la loro stessa esistenza.
Un terzo meccanismo, più relazionale, è il mentoring. Dirigenti o gruppi specifici di una comunità possono fungere da mentori, per un periodo di tempo determinato, a favore di una chiesa che stia intraprendendo un nuovo ministero. Questo tipo di trasferimento è prezioso sia per la qualità dell’apprendimento sia per i legami personali di fiducia che promuove, rafforzando la collaborazione a lungo termine.

Infine, la documentazione sistematica dei progetti è un meccanismo spesso trascurato ma estremamente prezioso. Ogni azione, congiunta o individuale, può essere seguita da un breve e semplice rapporto che riporti obiettivi, passaggi concreti, risultati e lezioni apprese. Nel tempo, questi rapporti diventano una memoria collettiva, capace di evitare la ripetizione degli errori e di ispirare nuove iniziative.
In conclusione
Se la chiesa fosse soltanto un’organizzazione come le altre, i metodi di condivisione illustrati sopra sarebbero semplici strumenti di gestione, utili per aumentare l’efficienza e ridurre lo spreco di risorse. Ma la vocazione della comunità ecclesiale è quella di essere il corpo di Cristo, e lo scambio di esperienze e insegnamenti ha un potente significato spirituale che va oltre il suo valore pragmatico. In questa prospettiva, condividere la conoscenza significa riconoscere che i doni e gli insegnamenti che riceviamo ci sono affidati per il bene dell’intera comunità, e non ci appartengono individualmente. Lo scambio di saperi è anche una forma di servizio reciproco, oltre a un segno di solidarietà e maturità spirituale.
Pertanto, nella vita della chiesa, queste pratiche devono essere intese come espressione di discepolato. Paolo istruì Timoteo così: “e le cose che hai udite da me in presenza di molti testimoni, affidale a uomini fedeli, che siano capaci di insegnarle anche ad altri” (2 Timoteo 2:2). Questa catena di trasmissione dimostra che, se l’insegnamento rimane solo entro la persona che lo riceve, perde il suo significato, perché è destinato a circolare e a portare frutto negli altri.
Alina Kartman
[Fonte: st.network. Tradotto da Veronica Addazio, HopeMedia Italia].
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