Scrivo per il Ruanda, per l’Uganda e il Congo. Questa penna, tra le mani piene di vesciche, è la mia pala. Pianto parole per la mia gente in tutto il mondo in guerra. La testimonianza di Rojé, un giovane africano che si è rifugiato in Australia con la famiglia e si racconta con la forza gentile della poesia.
Zanita Fletcher – Vi siete mai sentiti come se non ci fosse nulla di importante nella vostra storia? Come se la vostra vita non fosse significativa e meritevole al punto di essere condivisa? O come se vi distinguesse nettamente dagli altri?
Vi presento Rojé Ndayambaje. Per molto tempo non ha voluto parlare della sua vita e spesso deviava la conversazione quando gli veniva chiesto del suo passato. "Mi pareva strano" sosteneva. Giunto in Australia da un campo profughi africano quando era bambino, non conosceva l’inglese e sembrava diverso da tutti coloro che lo circondavano, per questo si era sempre sentito un emarginato. “Quando cresci lì, non si conosce altro. Ora sono qui e mi rendo conto di cosa fosse. Ma crescendo, quella era la vita. Le cose erano difficili, ma lo erano sempre state per tutti”.
Diventando adulto, iniziò a interessarsi alla poesia. La lingua contribuì a plasmare gli aspetti complicati e dolorosi del suo passato, trasformandoli in un luogo in cui si sentiva a proprio agio nel condividere la sua storia. “Dio mi ha messo nella condizione di parlare di quello che i miei occhi hanno visto. Ora amo scrivere e spero che la mia storia possa donare speranza al prossimo”.
Crescere in Africa
Subito dopo il genocidio in Ruanda, scoppiò una guerra nel villaggio di Rojé, in Congo. Sua madre e suo padre fuggirono con lui legato sulla schiena; all’epoca era ancora un bambino. Trovarono rifugio in un campo profughi in Uganda dove vissero per dieci anni e lì nacquero sua sorella e due fratelli.
Alla famiglia venne assegnato un piccolo pezzo di terra dove coltivare gli ortaggi; ogni tanto la Croce Rossa consegnava le provviste essenziali, come farina e olio. Ma la gente viveva in balia delle stagioni. Se non avesse piovuto, non si sarebbe raccolto. Se non si fossero conservati cereali o fagioli, si sarebbe patita la fame e contratto qualche malattia. L’ospedale del campo non poteva fare molto e le medicine e i rifornimenti erano scarsi. Se ti ammalavi o ti ferivi, dovevi svegliarti prima dell’alba e camminare per ore fino all’ospedale più vicino. Anche se ce l’avessi fatta, non era garantito che saresti stato visitato.
In seguito a queste situazioni, il padre e la sorella di Rojé morirono, lasciando sua madre a prendersi cura dei tre ragazzini. "È molto più arduo quando sei in un campo profughi e non ci sono uomini in casa, perché è più difficile per le donne trovare lavoro" racconta Rojé "Ma mia mamma ha fatto tutto il possibile ed è stata molto brava a coltivare l’orto e a provvedere a noi".
Ogni giorno mangiavano la stessa cosa. Non hanno mai fatto colazione. Verso mezzogiorno si nutrivano con un porridge simile a una bevanda a base di sorgo o mais. Per cena c’erano l’ugali (un alimento a base di farina di mais e acqua, ndr) e uno stufato di verdure e fagioli. Molte cose mutarono quando la sua famiglia si trasferì in Australia, ma una non è mai cambiata: il cibo che mangiavano. Entra nella loro casa oggi e li troverai ancora a mangiare gli stessi alimenti. “Ora, abbiamo il privilegio di avere molto di più. Ma non abbiamo mai saltato un pasto in Africa per nostra scelta”.
Confidare in Dio
Rojé aveva visto che la gente in Africa si affidava Dio e poteva sopportare ogni cosa grazie alla fede. Ricorda i suoi genitori pregare quando non avevano soldi o cibo. Le loro preghiere non erano sempre esaudite all’istante, ma ogni volta accadeva qualcosa e Dio li sosteneva sempre. Quando Rojé aveva 12 anni, la sua famiglia fu una delle prime a essere scelta per andare in Australia. Per la maggior parte delle persone, spostarsi in un nuovo Paese è un grosso problema, anche quando sanno dove sono dirette. Ma Rojé non aveva nemmeno realizzato che esisteva un mondo al di fuori dell’Africa. Non sapeva cosa fosse l’Australia, figuriamoci dove si trovasse! Aveva sempre pensato che i bianchi arrivati nei campi provenissero da un’altra parte dell’Africa e che, per qualche motivo, avessero un aspetto diverso.
"Avevo tanta paura di andare via" dice il poeta "La gente raccontava cose non vere".
Alcuni sostenevano che si sarebbero presi cura degli animali al loro arrivo. Altri, che i bianchi avevano molte armi e sarebbero entrati in una zona di guerra. Rojè fu preso dal panico quando seppe che sarebbero saliti su un aereo e avrebbero viaggiato in cielo, senza capire come qualcosa di così grande avrebbe tenuto lui e la sua famiglia sospesi in aria. Ma sua madre, forte nella sua fede, disse: "Se questo è ciò che Dio vuole, allora dobbiamo andare".
Orientarsi all’interno di un nuovo modo di vivere
I primi mesi in Australia furono particolarmente impegnativi, mentre si orientavano alla cieca in un nuovo modo di vivere. Sperimentavano la tensione dell’eccitazione e dell’incertezza, la gratitudine e il desiderio. Al loro arrivo, si stabilirono nella città di Newcastle, al decimo piano di un edificio ma non sapevano come usare l’ascensore. Non riuscivano a credere che la loro casa avesse una stufa e un rubinetto, e che non dovevano più camminare per chilometri per raccogliere la legna e prendere l’acqua. La prima volta che si misero ai fornelli, quasi bruciarono la cucina dopo aver tolto una pentola dal fuoco e averla messa a terra. Poco dopo, sentirono dei fuochi d’artificio e pensarono che il Paese fosse stato attaccato. Digitarono tre volte lo zero, come gli avevano insegnato in caso di pericolo. Impararono a fare la spesa, a pagare le bollette, a usare i mezzi pubblici e molto altro ancora. Durante quel periodo di cambiamenti, desideravano riassaporare un senso di normalità e sentivano sempre più la mancanza di tutti in Uganda, delle persone con cui parlare.
In Australia andavano in chiesa ogni sabato; anche se non riuscivano a capire i servizi liturgici erano grati a Dio per come aveva provveduto. A Rojé, gli inni ricordavano casa ma gli mancava la musica africana e l’energia che sprigionavano quando adoravano il Signore.
"Le persone erano più felici anche se avevano di meno" racconta Rojé “Ricordo che cantavano melodie sublimi. A volte mi facevano sentire come se Gesù stesse per arrivare”.
Trovare le parole
Quando Rojé andò a scuola, fu inserito direttamente in prima media, nonostante non avesse mai imparato a leggere o a scrivere, e non conoscesse l’inglese. Quello non era soltanto il suo primo giorno di scuola in Australia… era il suo primo giorno di scuola in assoluto. In Africa era stato mandato a pascolare le capre o era rimasto a casa a prendersi cura dei suoi fratelli, mentre sua mamma lavorava per sostentare la famiglia.
Sebbene abbia sempre apprezzato la buona musica e i testi, non si appassionò alla poesia fino al liceo, quando il suo insegnante di inglese chiese a tutti di comporre una poesia. Non avendo fiducia nelle sue capacità di scrivere, e sperando di potersene sottrarre, Rojé andò dal suo insegnante, che gli rispose: "Scrivi solo qualcosa che ti sta a cuore".
Quando arrivò il momento, si alzò e condivise una poesia su suo padre. Al suo insegnante piacque così tanto che chiese al ragazzo di leggere quei versi a tutta la scuola riunita in assemblea.
"Non potevo crederci" ricorda Rojé “Le persone piangevano. La poesia era piaciuta molto. Non ho mai che potessi essere n bravo scrittore”.
In seguito, insieme al suo insegnante iniziò a organizzare eventi di poesia all’ora di pranzo, ai quali prendevano parte gli studenti e condividevano ciò che avevano scritto. Poi Rojé cercò altri eventi a cui partecipare. La poesia divenne rapidamente un modo in cui poteva condividere la sua storia e la sua fede. Oggi, si esibisce in vari posti, dalle scuole ai palcoscenici, fino ai pub. “Quando condividi con il cuore, non discuti o predichi a nessuno. Metti solo in comune la tua esperienza, che sembra intrecciarsi con quelle delle persone" spiega Rojé.
La poesia è una forma d’arte e una modalità di terapia che esiste da secoli. Essa ha aiutato Rojé a usare le sfumature del linguaggio per esprimere molti dei suoi sentimenti e le esperienze più difficili. Ma lo ha anche agevolato nella comprensione delle storie degli altri, a prestare attenzione e a rivolgere più domande. Prima di entrare nel vivo della questione, Rojé non sapeva molto di ciò che sua madre aveva dovuto affrontare per farlo sopravvivere durante la fuga dal Congo. Grazie alla scrittura, è riuscito a calarsi nei suoi panni e a capire così quello che aveva vissuto per proteggerlo.
Un nuovo futuro
Per gran parte della sua vita, Rojé ha evitato di condividere la sua storia perché si sentiva emarginato: “Ero diverso. Sono diverso” racconta.
Anche se ora si sente australiano, sa che la sua educazione è stata differente; sa che è ancora tutto diverso quando va a casa di sua mamma per il solito e semplice ugali con lo stufato, che mangiava da ragazzo. Mentre ripensa al suo vissuto, si rende conto che non ha fatto niente di speciale per meritarsi la vita che ha. Non sa per quale motivo Dio abbia scelto la sua famiglia e non un’altra. Eppure, ha potuto vedere la mano generosa e la guida del Signore nel corso della sua esistenza.
In una poesia intitolata I Write (Scrivo), afferma: “Ho una casa e tante altre cose che non avrei mai pensato di possedere. E a volte sembra come un’illusione. Scrivo per ricordarmene. Scrivo per esercitare la mia mente. Scrivo perché ho delle domande. Scrivo per i miei fratelli e le mie sorelle in Africa, che non hanno mai tenuto in mano una penna. Scrivo per Nyirakamanzi Dativa Mukandekezi, mia madre. Mio padre. Scrivo per il Ruanda, per l’Uganda e il Congo, segnati dai miei stessi passi. Questa penna, qui, tra le mie mani piene di vesciche è la mia pala. Così, pianto parole per la mia gente in tutto il mondo in guerra".
Ora Rojé lavora come infermiere e ama l’arte marziale del jujutsu. Potete leggere le sue poesie qui.
(Zanita Fletcher è scrittrice e assistente editoriale per Signs of the Times Australia/Nuova Zelanda. Scrive dalla Gold Coast, nel Queensland, in Australia. Una versione di questo articolo è apparsa per la prima volta sul sito web di Signs of the Times Australia/Nuova Zelanda ed è ripubblicata con autorizzazione).
[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]