L’autrice dell’articolo rievoca un evento tragico accaduto negli Stati Uniti nel 2006, invitandoci a contemplare il mistero del perdono
Alina Kartman – È difficile restare indifferenti di fronte a una storia vera come quella di Terri Roberts, la madre di un giovane uomo che, in un momento di follia ancora inspiegabile, ha fatto irruzione in una scuola femminile Amish e ha iniziato a sparare, uccidendo cinque studentesse prima di suicidarsi.
La donna ha raccontato come, sin dalla prima sera dopo la tragedia, gli amici delle vittime e, in seguito, anche i genitori in lutto, non hanno mostrato il minimo desiderio di vendetta verso i parenti dell’aggressore. Piuttosto si sono rivolti a loro con incredibile compassione e dignità, sanando i cuori e aiutandoli a loro volta a fare lo stesso con il prossimo.
“Il perdono non è un’emozione”, ha detto un credente Amish, spiegando la risposta della sua comunità. Le parole sono rimaste nella mia mente come l’eco di un messaggio soprannaturale, un atteggiamento letteralmente al di sopra della natura umana, schiava dall’egoismo e dall’ossessione dell’autoconservazione. E se in qualche maniera è un mio compito giudicare come sia stata possibile un’esperienza del genere, vorrei soltanto sapere come hanno fatto a perdonare così, perché io possa imparare a fare altrettanto, e ad accettare di essere perdonata in quello stesso modo. Forse questa seconda lezione suona strana, ma acquista senso quando ci rendiamo conto di quante persone non riescano a perdonarsi per determinati errori, per decisioni non buone o dannose che hanno avuto conseguenze più o meno gravi sugli altri.
In quale misura accettereste di poter fare del male deliberatamente a una persona innocente? Siete la persona sulla quale sicuramente riponevate grandi aspettative, quella che ancora fatica a credere di poter essere buona, se non fosse per quegli inspiegabili e irresistibili impulsi a fare il contrario di ciò che sapete essere giusto. Una situazione del genere è inconcepibile per la nostra mente. L’idea è così fastidiosa che o la neghiamo del tutto, credendo ostinatamente di essere in fondo delle brave persone[1] o ci rassegniamo nella convinzione che non ci sia alcuna possibilità di riabilitazione per qualcuno la cui anima è corrotta come la nostra. Nessuno dei due atteggiamenti è compatibile con una vita salutare e, cosa più importante, con una fede sana.
Nel cristianesimo il perdono è centrale. L’intero edificio della fede cristiana, infatti, è costruito sul monumento più insolito del perdono: la croce. Eppure, sono così tante le persone che sentono una parete di vetro impenetrabile tra loro e questo perdono!
“Il perdono non è un’emozione”. Di fronte alla croce, però, le emozioni pervasero tutti i presenti: i discepoli furono sopraffatti dal crollo delle loro speranze che chi stavano seguendo fosse il Messia (come poteva il Messia lasciarsi uccidere dai Romani che era venuto a sconfiggere?); la folla era posseduta da una sete irrazionale di violenza; i soldati furono investiti da uno smisurato zelo nel percuotere e giustiziare i colpevoli; e Cristo stesso, mentre affrontava la morte, gridò a Dio: “Perché mi hai abbandonato?”.
Anche se si manifesta nel bel mezzo di un’incredibile esplosione di emozioni, “il perdono non è un’emozione”. Sulla base di quali emozioni, il Dio dell’universo avrebbe potuto perdonare le atrocità commesse dall’umanità? Cristo avrebbe potuto essere attratto dall’idea di morire sulla croce? Avrebbe potuto arrendersi e perdonare, sapendo che nei secoli a venire sarebbe accaduto qualcosa di terribile come la Shoah, che le persone per cui è morto si sarebbero sbranate come bestie nelle guerre dovute all’avidità? Quale tipo di sentimento in questo mondo, o fuori di esso, potrebbe produrre tale perdono, quando ogni fibra emotiva grida che chi è stato perdonato non lo merita, anzi, che calpesterà quanto ha ricevuto alla prima occasione?
“Il perdono non è un’emozione”. No, non lo è. È un mistero. È quella decisione inspiegabile in cui scegli di provare a riparare ciò che l’altra persona ha rotto in te, negli altri e tra voi, anche se lei o lui potrebbe non avere il minimo interesse a farlo.
Così vedo il perdono di Dio. Non matematicamente bilanciato, ma completo. Misterioso. E anche se ci vorrebbe un’eternità per comprendere questo mistero, l’idea che “il perdono non è un’emozione” adesso mi aiuta a non inginocchiarmi davanti a Dio, sperando che la mia umiltà (spesso oltre i limiti dell’autenticità) lo convinca che sono abbastanza dispiaciuta da meritare il perdono. Non ho bisogno di persuadere Dio di nulla. Mi devo convincere che se sono viva oggi, significa che il Signore è disposto a riversare in me la vita. E il perdono è vita.
Nota
[1] Questo non è il luogo per un dibattito filosofico sulla natura umana, ma a occhio nudo osserviamo che, mentre spesso rispondiamo con atti di gentilezza in modo significativo e a volte persino persistente, tendiamo a mostrare un ributtante egocentrismo quando non ci troviamo in circostanze che ci fanno sentire vulnerabili o alle strette.
[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]