Gesù ci ha insegnato una via per comunicare con rispetto e sciogliere i conflitti, anziché polarizzarci a tutti i costi. Rileggiamo l’episodio della donna samaritana al pozzo in questa chiave.
Circa un anno fa ho commesso un grande errore.[1] Ero in vacanza quando un mio caro amico ha iniziato a parlare di una teoria del complotto. Non avevo idea che fosse così interessato a queste ipotesi e ho gestito la situazione molto male. Ci trovavamo nella caffetteria di un hotel. Mentre lui parlava, ho tirato fuori il telefono, ho trovato un articolo che “dimostrava” che aveva torto e gliel’ho mostrato. Ecco le prove, pensavo. Io ho ragione; tu hai torto. Come potete immaginare, non è andata bene. Il mio amico si è arrabbiato. Allora gli ho mostrato altre evidenze. E la situazione è degenerata, finché non è andato via furioso. Come professionista della comunicazione, mi vergogno a ripensare a quanto ho gestito male la faccenda.
Oltre il conflitto irrisolvibile
Tutti noi ci siamo trovati in circostanze simili, a volte online, commentando un post sui social; in alcune occasioni, provando a parlare di un partito politico diverso o di un’altra organizzazione all’interno della stessa chiesa.
Come possiamo comunicare, allora, in modo da diffondere luce e creare connessione in un mondo segnato dalla polarizzazione e dal “conflitto irrisolvibile”?
Nel conflitto difficile da sciogliere, la tensione peggiora quando incontriamo membri di un’altra “tribù”, che sia politica, religiosa, etnica o altro. Il nostro cervello diventa iper-vigile. Non riusciamo a sentirci curiosi quando avvertiamo una minaccia. E in quello stato siamo immuni alle nuove informazioni. Nessuna prova aggiuntiva cambia il nostro modo di vedere.[2]
Oltre le narrazioni binarie
Vorrei condividere tre strategie che Gesù ha usato per spezzare il ciclo del conflitto irrisolvibile. Mi baserò su una storia biblica, e sulla ricerca di Amanda Ripley e dell’organizzazione “More in Common”, per cercare di capire perché diventiamo sempre più polarizzati e come sanare queste divisioni.[3]
Secoli prima dell’approccio moderno alla risoluzione dei conflitti e degli studi sui media, Gesù ha mostrato ciò che oggi la ricerca conferma: la guarigione inizia quando andiamo oltre le narrazioni binarie.
Secondo il Vangelo di Giovanni, capitolo 4, al tempo di Gesù vi erano due gruppi che si demonizzavano a vicenda: Giudei e Samaritani. Si evitavano, diffidavano dei rispettivi modi di adorare e tramandavano i loro sospetti di generazione in generazione. Invece di ripetere quel copione, Gesù si sedette vicino a un pozzo e infranse le regole. Non iniziò con delle risposte, pose invece delle domande. Allargò la prospettiva della conversazione e ascoltò con attenzione completa.
In questo modo, portò una complessità ricca e guaritrice in una conversazione che sarebbe potuta rimanere in bianco e nero. Gesù offre a noi, comunicatori cristiani in un’Europa profondamente polarizzata, un modello senza tempo: non dobbiamo semplificare, ma “complicare” la narrazione con grazia.
Le domande di Gesù vanno incontro alle motivazioni delle persone
Non vi sorprenderà sapere che uno dei modi più efficaci per spezzare il ciclo del conflitto è fare domande. Gesù non iniziò la conversazione con la donna samaritana, una “nemica” culturale e religiosa a quel tempo, citando le Scritture per dimostrarle che aveva torto. Al contrario, partì con una richiesta che rivelava la propria vulnerabilità: “Dammi da bere” (Gv 4:7). Proseguì con questo schema per tutta la conversazione, non per mettere alle strette la donna, ma per invitarla al dialogo.
La ricerca mostra che le domande più potenti sono quelle che ci aiutano a intravedere le motivazioni di un’altra persona con rispetto. Formiamo le nostre convinzioni più profonde, soprattutto politiche, non solo dai fatti, ma da sei fondamenti morali: cura, equità, libertà, lealtà, autorità e santità. Se possiamo costruire fiducia attorno a questi valori condivisi, creiamo uno spazio per una connessione autentica.
Qui di seguito alcuni esempi di domande che favoriscono l’incontro con l’altro.
– In quale modo la questione ha influenzato la tua vita?
– Cosa pensi che l’altra parte voglia davvero?
– Qual è la domanda che nessuno sta ponendo?
– Tu e la tua comunità cosa dovreste comprendere sull’altro punto di vista?
– Cosa stiamo semplificando eccessivamente riguardo al tema del contendere?
Non iniziare con delle risposte, ma con delle domande. Non cercare di convincere per prima cosa; punta a connetterti.
A volte, la connessione porta a cambiare prospettiva. E anche quando non lo fa, ha un valore intrinseco, perché rivela la nostra umanità condivisa. Per noi avventisti del settimo giorno, abituati a dimostrare che la nostra teologia e la dottrina sono corrette, questo approccio può rappresentare un nuovo paradigma.

Gesù amplia la prospettiva
Spesso abbiamo una visione ristretta. Ci fissiamo così tanto sul conflitto che perdiamo di vista il quadro più ampio. Fare un passo indietro restituisce la prospettiva.
Gesù agì magistralmente nella sua conversazione con la donna al pozzo. Ogni volta che lei si concentrava sugli aspetti divisivi (“tu sei Giudeo; io sono Samaritana”), Gesù ampliava lo sguardo: “Se tu conoscessi il dono di Dio…” (Gv 4:10). Quando lei si focalizzava sul pozzo (v. 11), lui parlava di acqua viva (vv. 13, 14). Gesù non negò la tensione, ma rifiutò che definisse la conversazione. E accadde qualcosa di straordinario: la donna iniziò a riconoscere la propria sete. Gesù chiese dell’acqua, ma alla fine della conversazione fu lei a domandarla.
Trovarono un terreno comune: “Abbiamo entrambi sete”. Possiamo essere assetati di cose diverse, ma tutti necessitiamo di acqua.
Gesù ci insegna ad ascoltare di più e meglio
Sovente, quando leggiamo l’ultima parte della storia, ci fissiamo sul fatto che la donna samaritana avesse avuto cinque mariti e viveva con un uomo che non era il suo sposo. Lo trasformiamo in un racconto morale. Ma non è questo il punto. Si tratta di una storia di auto-rivelazione e connessione.
Non sappiamo perché la donna si fosse separata cinque volte. Al tempo di Gesù solo gli uomini potevano chiedere il divorzio. Forse fu data in moglie da adolescente. Magari era sterile, una motivazione comune per divorziare. Chissà se subì degli abusi. Non lo sappiamo. Ciò che conosciamo è il modo in cui Gesù rispose. Non le fece provare vergogna. Le disse: “Quello che hai detto è vero”. Notiamo che Gesù riconobbe la sua onestà prima di rivelarle una verità più profonda. Non disse: “Sei una peccatrice”. Ma, in sostanza: “Sei pienamente considerata e non condannata”.
Solo dopo che la donna sentì di essere davvero ascoltata, soltanto dopo che la fiducia era stata costruita, Gesù le rivelò la sua identità: “Sono io, io che ti parlo!” (Gv. 4:26). Che maestria in quella conversazione! Gesù non si sedette al pozzo per dichiarare: “Io sono il Messia, dammi da bere”. Creò prima una connessione. La rivelazione seguì la relazione.
È tutta una questione di connessione
La comunicazione che accende la vita delle persone inizia con la connessione. Nel nostro mondo divisivo, non si può avviare un discorso con la persuasione per dimostrare di avere ragione con l’uso di prove, persino della profezia. Bisogna focalizzarsi sull’umanità condivisa, mettendo al centro la nostra sete reciproca, il nostro desiderio di essere visti, il nostro bisogno di grazia. Comunicare richiede di uscire dalla mentalità del “noi contro loro”, per entrare nello spazio sacro dove la luce non solo illumina, ma guarisce.
Note
[1] L’articolo si basa su una meditazione di Vanessa Pizzuto, direttrice del Dipartimento Comunicazioni presso la Regione transeuropea della Chiesa avventista, tenuta il 13 novembre al Global Adventist Internet Network (GAiN) Europe 2025 organizzato a Pravets, in Bulgaria. .
[2] Peter Coleman, The Five Percent (New York: PublicAffairs, 2011).
[3] Amanda Ripley su Solutions Journalism.
Vanessa Pizzuto
[Fonte: adventistreview.org, tradotto da Veronica Addazio, HopeMedia Italia].
[Immagini: Elen33, Dreamstime.com; Haninabz, Pixabay.com].







