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Siamo arrivati alla settima puntata della rubrica L’altrobinario speciale poesia e il secolo di cui ci occuperemo in questa puntata è l’Ottocento .
Il Romanticismo è un movimento artistico che nasce in Germania sotto il termine “sturm und trang “. ovvero “tempesta e assalto” e si diffonde successivamente in tutta Europa.
Reagisce all’Illuminismo cioè al culto della Ragione, e al Neoclassicismo, cioè al culto delle forme classiche della bellezza, quella degli antichi greci e romani.
Il Romanticismo cavalca e valorizza le energie della Spiritualità, dell’Emotività, del sentimento appassionato, della Fantasia, e sopratutto afferma il valore supremo della soggettività dell’artista. L’800 è il secolo dei poeti e della poesia.
Tra tutti ne elenchiamo solo alcuni:
Keats, Shelley, Foscolo, Carducci, Pascoli.
Noi ne scegliamo due: lord Byron e Giacomo Leopardi
Byron è un nobile inglese. Tra i suoi antenati ci sono ammiragli, narratori, stravaganti libertini. Visse 36 anni tra il 1788 e il 1824.
Byron descrive il malessere del secolo, l’inquietudine, l’irrequietezza, la malinconia, lo spirito di ribellione contro l’ordine costituito.
Di lui abbiamo scelto una poesia dal titolo “Strofe per musica”.
Dicono che la Speranza sia Felicità,
ma il vero Amore deve amare il Passato
e il Ricordo risveglia i pensieri felici che primi sorgono e ultimi svaniscono,
e tutto ciò che il Ricordo ama di più, un tempo fu Speranza solamente
e quel che amò e perse la Speranza
ormai è circonfuso nel Ricordo.
È triste! È tutto un’illusione,
il futuro ci inganna da lontano
non siamo più quel che ricordiamo
nè osiamo pensare a quel che siamo.
In questa poesia Speranza e Ricordo si inseguono invano, entrambi alla ricerca dell’Amore. Quello che resta nel presente è un enorme Vuoto.
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Il conte Giacomo Leopardi è stato un poeta, un erudito, un filosofo, uno scrittore.
È ritenuto uno dei maggiori poeti europei dell’800.
È nato a Recanati nel 1798, è morto a Napoli nel 1837 a 39 anni.
Da ragazzo studia molto ( è sua l’espressione “ studio matto e disperatissimo”) nella straordinaria biblioteca del padre, con l’ausilio di precettori ed eruditi.
Apprende il latino e il greco, conosce l’ebraico e il sanscrito e tutte le lingue europee.
Ha interessi per la matematica e l’astronomia.
È, per tutta la sua breve vita, molto malato. Sopratutto di una grave forma di scoliosi, presumibilmente di origine tubercolare. Ha gravi problemi agli occhi. Soffre intensamente tutto il suo dolore, sente come ferite insopportabili i suoi gravi impedimenti fisici, che ostacolano il suo amore per le donne e il suo sconfinato bisogno di amore. La sua sterminata cultura è solo un palliativo, un lenimento non risolutivo.
Passa dall’amore per l’erudizione, all’apprezzamento del Bello, e poi dall’amore del Bello a quello per la Verità.
Viaggia a Roma, a casa dello zio materno, poi a Milano, a Bologna , a Pisa.
A Firenze rimane tre anni dal 1830 al 1833.
Poi a Napoli, ospite del suo amico Antonio Ranieri, che lo seppellisce al momento della morte, poche settimane prima dell’avvento della peste.
Un’amica tedesca così lo descrive in quel periodo:
“ Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente…fa del giorno notte e viceversa…conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare.
Tuttavia, conoscendolo più da vicino, la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare dispongono l’animo in suo favore”.
E ora, detto del corpo e della mente così sfortunati, godiamoci questi versi meravigliosi che Leopardi crea!
L’infinito
Sempre caro mi fu quest’ermo colle e questa siepe
che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando,
interminati spazi di là da quella e sovrumani silenzi e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo;
ove per poco il cor non si spaura.
E come il vento odo stormir tra queste piante
io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando
e mi sovvien l’eterno e le morte stagioni
e la presente, e viva, e il suon di lei.
Così tra queste immensità s’immerge il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Una delle poesie più intense mai scritte!
Me stesso
Or poserai per sempre, stanco mio cor.
Perì l’inganno estremo, ch’eterno io mi credei.
Perì. Ben sento in noi i cari inganni.
Non che la speme, il desiderio, è spento, posa per sempre.
Assai palpitasti.
Non val cosa nessuna i moti tuoi,
nè di sospiri è degna la terra.
Amaro e noia la vita, altro mai nulla; e fango il mondo.
T’acqueta ormai. Dispera l’ultima volta.
Al gener nostro il fato non donò che il morire.
Ormai disprezza te, la natura,
il brutto poter che, ascoso, a comun danno impera e l’infinita vanità del tutto.
Dolore, dolore, dolore. Allora la poesia di Leopardi è solo questo? Un urlo, magari con parole ben scelte, sublimi, che si dilata da sè?
Dice di lui De Sanctis, il maggiore critico letterario italiano:
Leopardi non crede al progresso e te lo fa desiderare
non crede alla libertà e te la fa amare
chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù e te ne accende in petto il desiderio
È scettico e ti fa credente
E mentre non crede possibile un avvenire per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore in quella e ti infiamma a nobili fatti.
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La poesia di Varrasi è dedicata al padre morto, visto proprio nel momento successivo al decesso.
Si intitola “Mio padre”
Il viso di mio padre cadavere era proprio solo carne.
L’anima se ne era andata, era evidente.
Indaffarato come era stato a tirare il pesante carretto della famiglia,
l’aveva trascurata, troppo.
Come una donna poco amata,
la sua anima aveva colto al volo l’occasione per lasciarlo lì,
un semplice ammasso di cellule.
Rimanevano i ricordi dei suoi occhi grandi, ora affettuosi, ora severi,
delle labbra carnose, del profumo nel fazzoletto pulito,
delle sue mani larghe che rassicuravano,
dei ciuffi di peli alle orecchie, ricordo di stagioni selvagge.