Davide Romano – Venerdì 4 marzo, il dottor Ben Carson, neurochirurgo di fama, che concorreva per ottenere la candidatura repubblicana alle presidenziali americane del prossimo novembre, si è fatto da parte. Ormai da settimane si attendeva un suo ritiro in ragione del magrissimo bottino di preferenze accumulato.
Ben Carson, come si sa, è un membro della Chiesa cristiana avventista. La sua candidatura, nel mondo avventista americano, ma non solo, aveva suscitato curiosità e forse anche qualche velleitaria speranza di successo, per una minoranza come quella avventista che negli USA ha le sue radici e gode di un certo credito, specie per alcune sue istituzioni mediche molto conosciute e apprezzate.
Lo spessore politico del candidato Carson tuttavia è apparso sin dalle prime battute alquanto ondivago, privo del necessario carisma mediatico e a tratti avvezzo a qualche ingenuità di troppo.
Certo, va detto a sua discolpa che non aveva neanche le ingenti risorse finanziarie di altri candidati come il multimilionario Trump o come lo stesso J. Bush, o Marco Rubio. Ma anche questo dato, nella politica americana, più che un alibi rappresenta una debolezza.
La sua campagna elettorale l’ha impostata inseguendo un target repubblicano tradizionale, e con parole d’ordine arcinote, a dispetto della sua più volte rivendicata personalità non politica. Ha tenacemente criticato la riforma sanitaria di Barack Obama definendola una nuova forma di schiavitù; in politica estera ha auspicato il ritorno degli USA al ruolo di gendarmi del mondo, abbandonando così il multilateralismo inaugurato dell’amministrazione democratica; ha promesso un massiccio riarmo dell’esercito, un riallineamento delle relazioni con Israele e ha duramente attaccato il negoziato con l’Iran. Sulle politiche migratorie non ha mancato di rassicurare il suo potenziale elettorato anche con bordate degne della migliore tradizione xenofoba destrorsa, paragonando i migranti a “cani rabbiosi”. Per quanto concerne i cosiddetti temi etici, ha espresso la volontà programmatica di rendere illegale l’aborto in tutti i casi, compresi quelli di stupro.
E per quanto concerne l’uso delle armi ha detto che l’Olocausto non avrebbe avuto luogo se tutti i cittadini perseguitati avessero avuto un’arma.
Dunque un cliché repubblicano di tutto rispetto, incapace di marcare discontinuità particolari. Come avventisti, europei, forse ci saremmo aspettati altro. Ma è la politica bellezza. Solo avremmo almeno gradito che evitasse l’endorsement finale a favore di Donald Trump: un troglodita di grande successo che crea imbarazzo anche nello stesso fronte repubblicano.
Non sappiamo chi negli USA si candidi a rappresentare il cosiddetto voto degli evangelical. Trump ambisce a farlo, e non manca di mietere consensi anche in quell’elettorato. Gli avventisti, com’è noto, non votano come chiesa ma come singoli individui, in stretta obbedienza alla rigida separazione tra ciò che è bene per la chiesa e ciò che è bene per lo stato. Ma per una volta ci piacerebbe che l’elettorato evangelico, così composito e a volte così radicale, specie negli USA, sapesse distinguere, proprio nel nome del Vangelo, la politica per il bene della polis, quella che Giovanni Calvino considerava la più sacra e onorevole di tutte le vocazioni, dall’odio e dall’arroganza elevate a logica di governo e di dominio sulle coscienze.