Uscire dall’inferno si può
15 Novembre 2016
Uscire dall’inferno si può
15 Novembre 2016

salvo-badalamenti-casa-famiglia-arcobalenoUn ex scout AISA (Associazione Italiana Scout Avventista), cresciuto nella casa famiglia Arcobaleno, racconta al Corriere di Sciacca la sua esperienza di rinascita grazie alla scoperta della fede e alla preghiera. Il giovane è ritornato qualche giorno fa nella casa famiglia per condividere la sua storia con i ragazzi ospiti e trasmettere loro coraggio e speranza. “Non devono farsi imprigionare dal pregiudizio”, afferma, “Il pregiudizio uccide”.

Filippo Cardinale/corrieredisciacca.it – La storia di Salvo Badalamenti, oggi ventinovenne, è di quella che fa rabbrividire, ma nello stesso tempo alimenta la speranza che dal tunnel della giovinezza infranta si può uscire. Storia di maltrattamenti in famiglia, storia di allontanamento dai genitori per essere inseriti in una comunità. Salvo è di Palermo, è nato due volte. Nella prima fase della sua vita ha vissuto i disagi di una famiglia col padre dedito all’alcol. Nella seconda, quella iniziata a Sciacca, nella casa famiglia Arcobaleno, ha conosciuto, invece, la strada per uscire dal buio profondo del tunnel. Dopo anni dal suo reinserimento nella realtà sociale, è voluto ritornare, per un giorno, a Sciacca, nella “sua” casa famiglia. Una visita per raccontare ai ragazzi che c’è la speranza per tutti. Lo abbiamo intervistato. La narrazione della sua esperienza è diventata una missione da svolgere nell’ambito dei minori che vivono situazioni di violenza e disagi familiari.

Salvo, che cosa è successo in quella notte del 2001?
Avevo 14 anni. Ero ospite in una comunità per minori, a Palermo. Non c’era posto per me perché in quella comunità erano ospitati minori che avevano un’età inferiore alla mia. Io avevo 14 anni. Ma ho avuto la fortuna di camminare sempre con mio fratello, due anni più piccolo di me. Quella notte è arrivato un fax, dal dottore Quercia. Nel fax era scritto che avevo trovato una sistemazione a Sciacca, nella casa famiglia Arcobaleno. Dovevamo lasciare Palermo. Io e mio fratello siamo stati “strappati” dalla nostra famiglia – amo definire così per il motivo che spiegherò più avanti – e portati in un’altra realtà a noi completamente sconosciuta. Quella notte è venuto a prenderci il dottore Pecoraro che era il nostro direttore, insieme al signor Benito Solano. Quella notte stessa siamo stati portati a Sciacca nella casa famiglia Arcobaleno. L’indomani io e mio fratello abbiamo iniziato a squadrare la situazione. Ho cercato di trasmettere coraggio a mio fratello. Siamo qua, gli ho detto, e dobbiamo continuare questo percorso”.

Passata la notte, cosa succede?
Passati alcuni giorni ho inquadrato meglio la situazione. Non potevo né scappare, né tornare indietro. Non potevo fare nulla perché ero vincolato da una cosa molto più grande di me, la paura. Questa sensazione, però, col passare dei giorni, dei mesi, comincia a diminuire. Iniziavo a prendere la vita con filosofia. Perché non approfittare di questa struttura, di questi aiuti? Ho iniziato a frequentare la scuola, ad avere varie opportunità come quella di fare volontariato. Ho iniziato a compiere anche un percorso religioso. A proposito devo ringraziare la chiesa Avventista. Ho iniziato un percorso di fede che si è rivelato importantissimo per la mia vita, per la svolta alla mia vita. La fede mi ha aperto la vita, davanti a me è apparsa la speranza.

In che contesto familiare vivevi?
Dopo la separazione dei miei genitori, che litigavano sempre, noi vedevamo nostra madre come quella che non valeva nulla. Abbiamo preferito rimanere con nostro padre. Mio padre in quel periodo non lavorava. Anziché lavorare lui per sostenere noi figli, eravamo io e mio fratello a lavorare per sostenere nostro padre. Ci alzavamo di mattina e invece di recarci a scuola andavamo a lavorare. Per questa situazione siamo stati segnalati dal Tribunale di Palermo che ha deciso di “strapparci” dalla famiglia, da quella vita.

Che lavoro svolgevate?
Tutto quello che capitava. Mio padre l’unica cosa che voleva a tavola era il vino. Se mancava, non era pranzo, cena. Se mancava, erano legnate. Vivevamo una situazione d’inferno. Terribile. Un giorno sono arrivati gli angeli, sì proprio così. Un miracolo. Siamo stati prelevati da casa e portati via. Via da nostro padre, da quello che doveva tutelarci, assisterci, farci crescere. Di solito per un figlio il padre è un eroe, bello, forte, che sostiene la famiglia.

I rapporti con tua madre?
Inizialmente, sempre per le liti con mio padre, mia madre tentava un avvicinamento a noi, ma io e mio fratello la rifiutavamo. La donna sola, dal mio punto di vista, cerca sempre compagnia, un uomo che le stia accanto. Ero contrario a queste cose, mia madre ha avuto altre esperienze. Col passare del tempo, i rapporti con mia madre si sono normalizzati, ci siamo chiariti e sono rinati i nostri rapporti. Ma tutto questo è successo con il percorso che io ho fatto nella casa famiglia.

Quanto tempo sei stato in comunità?
Dal 2001 fino a 21 anni. Potevo andare via non appena compiuti 18 anni. Ma ho preferito, ho voluto, continuare il mio percorso nella casa famiglia Arcobaleno di Sciacca. Ricordo quando sono arrivato per la prima volta a Sciacca, in quella notte del 2001. Ad accoglierci c’erano Katia Montalbano, Antonella Mustacchia e Giusi Indelicato e l’operatore di notte Francesco Graffeo. Mi ha colpito, immediatamente, l’accoglienza. Ci hanno fatto mangiare, ci hanno preparato per trascorrere la notte. Quella notte io e mio fratello non abbiamo dormito.

Qualcuno vi ha detto perché eravate stati allontanati?
No. Ci avevano detto che poi i nostri genitori venivano a trovarci. Poi, col passare del tempo, abbiamo capito che c’era un divieto. I nostri genitori non potevano avere contatti con noi. Ho iniziato a farmene una ragione, e non insistevo più di tanto.

Quando hai iniziato a capire che la vita in comunità poteva trasformarsi in una possibilità di cambiare vita?
Io ho un carattere diverso da mio fratello. Ho iniziato subito ad essere disponibile con gli operatori della casa famiglia, con gli psicologi. Mio fratello, invece, era più sulle sue. Quando avevo un problema, una difficoltà, parlavo sempre con gli operatori i quali mi hanno sempre aiutato. Senza di loro non sarei andato certamente avanti.

Ti sentivi tutore di tuo fratello?
Sì e no. Nel senso che lui aveva il suo carattere. Era orgoglioso, si doveva fare come diceva lui. Nico era terribile! Però, se aveva bisogno di un aiuto sapeva che poteva contare sul fratello. Io ero accanto a lui, non era solo. A livello familiare, abbiamo avuto questa fortuna, di stare sempre insieme.

Un sostegno forte ti è arrivato dalla fede, hai detto.
Non è facile per un giovane, per uno che ha vissuto in un inferno familiare. Ho maturato l’idea che ci fosse speranza, di trovare un’ancora di salvezza nella fede, quando mi hanno insegnato a pregare. Ho vissuto anche l’esperienza dello scautismo organizzato dalla chiesa evangelica. Io pressavo per farvi parte. Gli operatori mi dicevano che avrei potuto vivere questa esperienza se me lo meritavo, se ce la facevo. Io ho fatto di tutto per meritarlo. Ci sono riuscito e mi sono innamorato pazzamente dello scautismo che mi ha consentito di avvicinarmi alla preghiera. Una fede che cominciava a crescere e a fortificarmi. Mi ha dato la forza di non cadere più. Una volta che Dio entra in te, si diventa forti. Posso affermare che la mia svolta, il mio nuovo percorso di vita, sono iniziati con la preghiera. Grazie Signore. Questo semplice gesto di ringraziamento mi ha dato la forza di uscire dal tunnel. Ciò che consiglio a tutti i giovani che vivono ciò che ho vissuto io è di tenersi per mano, di avere fede, di sperare fortemente in Dio. La forza è la fede che aprirà ogni porta.

Compiuti i 18 anni sei rimasto ancora per tre anni. Perché?
Era bello. Avevo dimenticato pure ciò che era successo a Palermo.

Cosa succede quando a 21 anni lasci la casa famiglia?
Un operatore mi aveva detto che qui ero protetto, mentre fuori mi sarei trovato solo. Queste parole mi hanno scosso, positivamente, ma mi hanno scosso. Un ragazzo su tre uscendo si suicida. Non è facile l’inserimento nella realtà. Non si sa cosa fare, dove andare. L’idea del suicidio balena facilmente. Io dico sempre che la vita è bella, anche se dura, difficile. Uscendo dalla casa famiglia, ho incontrato la vita. Ho collegato la preghiera, la fede, il lavoro. Da questo contesto ho incontrato mia moglie, poi sono arrivati i miei due figli. Io amo i miei figli e sono sicuro che un giorno loro avranno l’immagine del padre eroe, del padre tutore, del padre che ama.

Dove hai incontrato la tua compagna?
A Palermo, quando sono uscito dalla casa famiglia e sono rientrato in città. Hai detto del tuo passato? Sì, subito. Mi ha accettato subito. È nato un grande amore, sono arrivati i figli. A gennaio ci sposiamo, nella chiesa. Proprio per avere il Signore nella nostra vita.

I rapporti con i tuoi figli?
In una frase: non fare passare ai tuoi figli quello che hai passato tu.

Lavori?
Sì, ho trovato lavoro in un’auto lavaggio, sono messo in regola. Sopravvivo, ma la cosa straordinaria è che sono uscito dal tunnel buio.

C’è stato un momento, durante il tuo percorso in comunità, in cui i tuoi genitori si sono avvicinati a te, ma poi si sono allontanati?
Quando veniva a trovarmi mia madre mi raccontava delle sue nuove amicizie. Per me se ne poteva andare, per come era venuta. Non mi dava segnali di amicizia. Mi dava segnali che si attaccava ad altri. Noi c’eravamo o no sembrava la stessa cosa.

Con tuo padre?
Niente. Nessun contatto. Io e mio fratello abbiamo fatto un tentativo di avvicinamento, ma senza risultato. C’è stato anche un tentativo di affidarvi a un’altra famiglia. Sì, ma senza esito. Nessuno ci voleva.

Sei venuto, giorni fa a Sciacca, perché?
È la prima volta che ritorno. Volevo profondamente visitare la casa famiglia che mi ha salvato, dove sono cresciuto, che mi ha permesso di uscire dal tunnel, e parlare della mia esperienza ai giovani ospiti. Voglio trasmettere coraggio e speranza ai ragazzi. Non devono farsi imprigionare dal pregiudizio. Il pregiudizio uccide. Per l’ignoranza della gente, veniamo etichettati come “i ragazzi della comunità”. Per la gente eravamo drogati, delinquenti. Io dico sempre che vengo da quella realtà, la realtà di maltrattamenti in famiglia, disagi. Accettami così se vuoi, io ho vissuto questa realtà, ma ne sono venuto fuori. Vi racconto una storia che mi è successa a Sciacca.

Quale?
In un Natale, volevo fare la colletta per comprare giocattoli ai bambini. Ho organizzato una festa all’istituto della Giummare. Il preside dell’alberghiero era contrario a fare la colletta a scuola per comprare i giocattoli. Io mi sono messo contro il preside, ho girato per le classi, ho raccolto i soldi. Abbiamo fatto lo spettacolo alla Giummare e alla fine abbiamo regalato i doni ai bambini. Il preside, poi, si è ricreduto e mi ha fatto anche i complimenti per quello che sono riuscito a fare. Io dissi ad un professore: “questo è quello che sa fare un ragazzo di casa famiglia”.

(Intervista e foto pubblicate il 10 novembre su http://www.corrieredisciacca.it/?id=40360)

La casa famiglia Arcobaleno fa parte della omonima cooperativa sociale sorta grazie ai fondi dell’8xmille destinato alla Chiesa cristiana avventista del settimo giorno e all’impegno di volontari della comunità avventista di Sciacca. Per saperne di più visita il sito http://arcobaleno.coop

 

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