Francesco Zenzale – “Per questa ragione anche noi ringraziamo sempre Dio: perché quando riceveste da noi la parola della predicazione di Dio, voi l’accettaste non come parola di uomini, ma, quale essa è veramente, come parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete” (1 Tessalonicesi 2:13).
In questo testo, l’apostolo Paolo evidenzia che la sua testimonianza è stata accettata non come parola di “uomini”, ma come “parola di Dio”. Che cosa significa accettare la testimonianza dei profeti e degli apostoli come parola di Dio? Quali equivoci posso fluire da una tale affermazione?
Molti sinceri credenti, partendo dal presupposto che la Bibbia è parola di Dio, considerano questo insieme di libri come un “fax” inviato da Dio all’umanità attraverso i profeti e gli apostoli, arrivando alla conclusione che ogni parola in essa contenuta è veramente parola ispirata da Dio, ovvero dettata da Dio. Vale a dire che non è la verità espressa concettualmente a essere ispirata, ma lo sono le parole; gli scrittori sacri sono stati dei semplici scrivani. Tale comprensione dell’ispirazione induce il credente a un insieme di errori:
– l’identità storico–culturale dell’autore biblico è annullata, ma ciò è impossibile. Infatti, solo accettando tale identità, le modalità e l’ambiente in cui gli autori sacri hanno trasmesso la Parola, riusciamo a spiegare le apparenti contraddizioni in essa contenute. Quando studiamo la Bibbia dobbiamo cercare di metterci nei panni dello scrittore, cogliere il suo ambiente il suo modo di pensare e di esprimersi;
– il significato del termine e del testo biblico spesso cambiano secondo l’ambiente culturale, o Sitz im Lebem; ciò significa che possiamo incorrere nell’errore se estrapoliamo il testo dal suo contesto;
– l’ispirazione letterale della Bibbia spesso non tiene conto degli antropomorfismi o dei generi letterari (2 Cron 7:16; Sal 11:4; Ger 16:17; Sal 10:17; Is 37:17; Deut 11:2; Is 62:8; ecc.). In questo modo la metafora del “fuoco eterno”, che indica che di eterno sono solo gli effetti e non il fuoco in sé, si trasforma in “pene eterne”. Le iperbole, figura retorica consistente nell’esagerazione di un concetto (Marco 10:25), diventano fantasiosi insegnamenti al punto da parlare la lingua degli angeli o in strane lingue (1 Cor. 13: 1). La prosopopea – figura oratoria per cui si fanno parlare persone assenti o defunte, o anche cose inanimate, astratte, come se fossero presenti, vive, animate – diventa reale e così abbiamo: gli alberi che camminano e parlano (Giudici 9:8ss) e i morti che parlano (Apocalisse 6:9-10).
In breve, “la Bibbia non è un fax che Dio ha inviato dal cielo sulla terra, è invece la testimonianza resa alla Parola che ha creato il tempo e lo spazio, perché il dire di Dio che troviamo nel racconto delle origini nella Genesi e che Giovanni pone nel prologo del suo vangelo, dimostra proprio che il volere di Dio sia quello di farsi conoscere tramite l’incontro tra lui e la sua creatura. Dio si dona a noi per farsi conoscere, eppure noi possiamo conoscerlo solo per mezzo suo” (G. Marrazzo, Il tempo dell’attesa, riflessioni pastorali sulla prima lettera ai Tessalonicesi, Edizioni Adv, pp. 76, 77). “La Bibbia indica Dio come suo autore, ma essa è stata scritta da uomini… Le verità rivelate sono state trasmesse per ispirazione divina (cfr. 2 Timoteo 3:16), ma espresse con parole umane” (Ellen G. White, Il gran conflitto, Edizioni Adv, p. 15).
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