Il dolce suono del silenzio (seconda parte)
13 Ottobre 2016
Il dolce suono del silenzio (seconda parte)
13 Ottobre 2016

Testata-Rettangolare-300x214 (sfondo bianco)Luigi Caratelli – L’esperienza di un uomo dell’VIII secolo a.C. offre uno stupendo spunto di riflessione per l’uomo del XXI secolo d.C. Elia, il profeta, vive momenti che, nelle categorie sociali del nostro tempo, possono essere definiti «successi in carriera». Dopo aver tenuto testa ai rappresentanti di un paganesimo che rischiava di spazzare via la fedeltà di Israele al suo Dio, il profeta fugge terrorizzato dalle urla di una regina isterica, che vuole ucciderlo proprio a causa della sua appassionata difesa di Jahvè. Elia sceglie comunque di dirigersi verso il monte Oreb, verso il suo Dio. Disperato in cerca di speranza.

Su quel monte ha una più profonda rivelazione del suo Signore. Dopo le forme consuete con le quali Israele sperimentava l’essenza e l’epifania di Dio (vento impetuoso, terremoto, fuoco), il profeta riceve una informazione nuova, inaspettata: Dio non si presenta a lui in nessuna delle esperienze consuete. Egli pare negarsi alle categorie teologiche consolidate e appare, così dice il testo di 1 Re 19:12, come «suono dolce e sommesso». Una bellissima variante trovata dal cardinale Martini recita: «il dolce suono del silenzio». Solo allora, dinanzi a questa nuova epifania, Elia riconosce il suo Signore e «si coperse il volto col mantello».

Ecco l’esperienza di cui è orfano, in rapporto al suo incontro con Dio, l’uomo del nostro tempo. Un’esperienza che potrebbe ricondurre gli uomini e le donne del terzo millennio proprio al recupero del silenzio e della presenza di Dio. Perché la sua voce è udibile solo nel silenzio. È possibile: Dio ha «tracciato» questa via nelle nostre membra, nel nostro cervello.

Guy Claxton, dopo aver affermato che gli esseri umani hanno un cervello «a due velocità», rivela che, nella struttura stessa dell’organo del pensiero, esiste anche un’area deputata all’ascolto della voce della trascendenza. Lo psichiatra Viktor Frankl individua il prefrontale quale zona cerebrale deputata a questo scopo. Nel suo stupendo libro Dio nell’inconscio, egli afferma che il prefrontale potrebbe essere la «sede della coscienza», l’area che rende possibile l’ascolto della voce del divino.

Il neurologo Lamberto Maffei, limitandosi esclusivamente alla sensibilità artistica, ha coniato una frase molto suggestiva: «Quando mi prende la malinconia», egli dice, «e pensieri tristi mi inseguono senza ragione, mi rifugio nel bello e non c’è Prozac che tenga, un museo d’arte produce più serotonina di qualsiasi farmaco».1 Banalizzando, ma non troppo, dato che la scienza conferma, potremmo dire che la voce di Dio può produrre più serotonina di qualsiasi bella esperienza interiore.

L’uomo dei nostri tempi, per proteggersi dalla marea montante di stimoli che producono fretta, e non rischiare di affogare psichicamente, ha urgente bisogno di recuperare la dimensione del silenzio; la capacità di ascoltare la voce di Dio, che è sempre «un dolce suono».

È quella voce, udibile solo se prestiamo al Signore alcuni minuti del nostro tempo, che ha il potere di ricondurci a noi stessi; di rischiarare i nostri progetti; di riallacciare legami umani interrotti, anche solo per una banale incomprensione. Quella voce che, udita nel silenzio, può riportare al vero immagini e giudizi errati sul prossimo: sul proprio partner, su un amico, su un membro di chiesa, ecc. Quella voce può fornire una corazza e la serenità per affrontare una vita in cui le sconfitte saranno in cifra calante. Quella flebile voce ha una forza dirompente; ci fortifica in maniera incredibile.

Sempre Viktor Frankl, nel libro autobiografico Uno psicologo nei lager, racconta la sua esperienza di deportato in almeno quattro campi di concentramento nazisti. Nelle pagine più toccanti di quel diario del dolore, descrive l’esperienza di quanti, già provati fino all’estremo nel fisico, ricevevano nuove energie dalle notizie – poi rivelatesi false – dell’arrivo dei liberatori per una data precisa. Quando la data passava senza che nulla accadesse, i più, prostrati dalla delusione, abbandonavano ogni speranza e si lasciavano andare. Frankl è dell’opinione che il gran numero di morti falciati da un’epidemia di tifo petecchiale era dovuto proprio al fatto che i soggetti avevano perso ogni forza e difesa interiore. Per contro, Frankl notava che altre persone vivevano un’esperienza diametralmente opposta; così lo spiega: «Uomini sensibili, abituati a vivere un’esistenza spiritualmente attiva in seno alle loro famiglie, in certi casi sperimentarono la difficile situazione esterna della vita in un lager. Con dolore ma, nonostante la loro relativa fragilità psichica, quasi con effetti meno distruttivi in rapporto alla loro vita spirituale. A loro, infatti, è possibile ritirarsi dallo spaventoso ambiente che li circonda, volgendosi a un regno di libertà spirituale e di ricchezza interiore. Così e solo così possiamo comprendere il paradosso, che talora individui costituzionalmente delicati sopravvivono al lager meglio di certe nature robustissime».2

Chi si abitua ad ascoltare il «dolce suono del silenzio», riceve energie insospettabili e vince nella vita: anche quando essa è dura.

Un giorno un grande magnate occidentale si tolse uno sfizio: attraversare un deserto a piedi con contorno etnico di portatori, interpreti e gran quantità di viveri. Naturalmente, proprio per sperimentare la vita in diretta, anche lui si degnò di andare a piedi. Dopo alcuni chilometri di cammino, i portatori posarono a terra i bagagli che tenevano sulle loro teste e vi si sedettero sopra, riposando per diversi minuti. Il magnate sopportava senza comprendere: aveva investito denaro e quelle «usanze esotiche» non sempre collimavano con la sua abituale «ottimizzazione del tempo». I portatori, ricollocati sulla testa i pesanti bagagli, si rimisero in marcia, finché, alcuni chilometri dopo ripeterono la cosa; e così per almeno tre volte. Troppo per il magnate-manager che, visibilmente irritato, chiamò l’interprete e gli ordinò di chiedere ai portatori il motivo del loro comportamento. Dopo aver dialogato con loro, l’interprete riferì al padrone le loro parole: «Dicono che la fatica scaccia lo spirito dai loro cuori e, ogni tanto, si siedono per aspettare che esso ne faccia ritorno».

Noi non pensiamo più così, perché ci lasciamo schiacciare e asfissiare da un ritmo di vita che non è naturale. È indispensabile che facciamo delle soste per permettere allo Spirito di parlare alle nostre menti.

Isaia propone la soluzione radicale, l’unica valida: «Il Signore, l’Eterno… risveglia, ogni mattina… il mio orecchio, perch’io ascolti, come fanno i discepoli». Solo concedendo al Signore tempo e spazio per parlarci, possiamo sperimentare la pienezza nel nostro ministero, perché solo allora, continua il profeta, sarò in grado di «sostenere con la parola lo stanco» (Is 50:4) Chi sa ascoltare «il dolce suono del silenzio», può dare parole colme di significato e di speranza ai tanti orfani di Dio.

Al ritorno del Signore, alla fine dei tempi, l’apostolo Paolo dice che l’evento sarà sottolineato da un «potente grido» e dal suono della «tromba di Dio» (2 Tess. 4:16); così, come per Elia, vento impetuoso, terremoto e fuoco erano naturali segni della presenza di Dio. Ma Giovanni, nel libro dell’Apocalisse, sottolinea che la solennità dello stesso evento è annunciata con un «silenzio in cielo per circa lo spazio di mezz’ora» (Ap 8:1); così, come Elia scoprì che la vicinanza di Dio si avverte più intensamente nella serena calma del «dolce suono del silenzio».

Basta «mezz’ora al giorno» per far scendere il cielo nel nostro cuore.

Solo chi avrà frequentato abitualmente il silenzio potrà riconoscere gli appuntamenti del Signore, e non rischiare di essere fuori dal coro quando squillerà la tromba della gioia.

 


1 L. Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna, 2014, p. 9.

2 V. E. Frankl, Uno psicologo nei lager, Edizioni Ares, Milano, 1982, pp. 72, 73.

 

 

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