“In memoria di me”. Un Dio che non si scorda di noi
26 Aprile 2023

Gesù si è ricordato di me sulla croce. Non mi ha dimenticato. Vivendo alla luce di quel ricordo, posso imparare ad amare gli altri e riesco a trovare speranza quando il mio mondo minaccia di crollare.

Carmen Lăiu – “Non è forse vero, purtroppo, che possiamo ricordare tutto tranne Cristo, e che non dimentichiamo nulla così facilmente come Colui che dovremmo ricordare?” (Charles Spurgeon).

Le ultime parole, ore o giorni trascorsi con una persona cara diventano incredibilmente preziosi dopo la sua dipartita, soprattutto se la morte colpisce inaspettatamente. Le ultime parole pronunciate da Gesù prima di morire sulla croce, quando tutto era stato detto e fatto (“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, Luca 23:46, Cei), sono state ricordate, studiate e analizzate innumerevoli volte. Tuttavia, nell’insieme degli ultimi consigli ed esortazioni rivolti ai discepoli, vi è un’altra serie di parole che sottolinea l’importanza che deve avere l’esercizio della memoria nell’esperienza dei cristiani: “Fate questo… in memoria di me” (1 Corinzi 11:25).

Al di là del comandamento, al centro delle parole di Gesù troviamo un dono per noi che siamo inclini a dimenticare ciò che è importante: questo costante richiamo a come siamo stati amati non è per lui, ma per noi.

Nella camera alta 
La settimana della passione volge al termine, è giovedì sera e Gesù partecipa con i suoi discepoli alla cena commemorativa della Pasqua ebraica, nella stanza superiore di una dimora di Gerusalemme.

È una sera speciale. Gesù è nel punto di passaggio tra due sistemi e due grandi feste.[1] Nel corso della storia del popolo d’Israele, la Pasqua rappresentava la commemorazione della liberazione dalla schiavitù egiziana, ma la festa indicava anche Gesù, “il nostro agnello pasquale” (cfr. 1 Corinzi 5:7). Nell’ultima Pasqua trascorsa con i discepoli, Cristo istituisce un atto commemorativo della sua morte. Secondo le sue parole, la cena del Signore doveva essere celebrata dai suoi discepoli in ogni momento, ovunque. Il pane spezzato (che simboleggia il suo corpo spezzato per noi) e il vino non fermentato (che simboleggia il suo sangue sparso “affinché chiunque crede in lui non perisca”, come leggiamo in Giovanni 3:16), presenti in questa cerimonia, attirano l’attenzione dei credenti sull’unica persona attraverso la quale la salvezza è possibile.

“Fate questo in memoria di me” (1 Corinzi 11:24). Spesso, leggendo queste parole, vengono in mente il testo e la melodia della nota canzone “Remember me”; cogliamo un doloroso contrasto tra la nostra abitudine a dimenticare Gesù e la sua fedeltà nel ricordarci.

Molto più che ricordare 
Nella Bibbia incontriamo frequentemente il verbo “ricordare” (ma anche il suo contrario, “dimenticare”), spesso al modo imperativo. Dio chiede ai suoi figli di ricordarsi di lui, del suo amore, delle sue opere e della chiamata che hanno ricevuto e, allo stesso tempo, troviamo nelle pagine della Scrittura numerose assicurazioni che non siamo dimenticati da lui in nessuna circostanza.

“Per molti cristiani, ricordare è un’attività mentale ambigua”, osserva il past. Dustin Crowe, in un articolo che affronta il tema del ricordare ciò che Gesù ha fatto per noi nella cena del Signore, ma anche in altri momenti.

Esistono diversi modi di ricordare, scrive Crowe, sottolineando la distinzione dell’autore puritano John Flavel tra il ricordo speculativo, che non fa alcun collegamento pratico ed evoca la storia di Gesù per un breve periodo di tempo, e il ricordo affettuoso e permanente, che consiste nell’imprimere il suo sacrificio nei nostri pensieri.

Per un occidentale, ricordare equivale a “richiamare alla mente cose che non fanno più parte della realtà presente”, scrive il professore di teologia Michael Horton. Nella tradizione ebraica, invece, “ricordare” significa partecipare qui e ora a eventi importanti del passato o del futuro.

Il significato biblico del ricordare va oltre il semplice atto di riportare la persona o le azioni di Gesù nei nostri pensieri, osserva Crowe, evidenziando che la chiamata a ricordare, specialmente quando è collegata alla cerimonia o all’alleanza, è “un concetto vibrante” nella Scrittura: la nostra vita è trasformata da ciò che ricordiamo.

Quello di cui abbiamo memoria del passato (e come lo facciamo) ha un impatto sul presente, sottolinea l’autore cristiano Jeff Stott, osservando che c’è un motivo importante per cui dobbiamo ricordare Gesù: “Quando dimentichi qualcosa di significativo, inizi a vivere per ciò che è insignificante”. Ricordare come siamo stati amati da Gesù, conclude l’autore, alimenta il nostro amore per lui e, in ultima analisi, il nostro amore per i nostri simili.

La scrittrice Jessica Brodie fa notare che nella Bibbia ci sono numerosi esempi in cui Dio “ricorda”. Nell’Antico Testamento il verbo usato è zakar che significa “portare qualcuno nei propri pensieri”, ma anche “agire per suo conto”; e nel Nuovo Testamento incontriamo il verbo greco mimnēskomai, che sembra implicare anche l’azione. Così, quando “Dio si ricordò di Noè e di tutte le bestie selvatiche e del bestiame che erano con lui nell’arca” (Genesi 8:1), seguì anche un’azione: “Egli mandò un vento sulla terra e le acque si ritirarono”. Quando gli Israeliti furono ridotti in schiavitù in Egitto, “Dio ascoltò i loro gemiti e si ricordò della sua alleanza con Abramo, con Isacco e con Giacobbe” (Esodo 2:24), il risultato fu che mandò Mosè per condurli nella terra promessa.

“Dio… si ricordò [dei] doni ai poveri” del centurione Cornelio (Atti 10:31) e inviò l’apostolo Pietro per una missione impensabile per l’esclusivismo ebraico: andare a casa del centurione, predicare il vangelo a lui e alla sua famiglia e, infine, battezzare coloro che avevano creduto e ricevuto lo Spirito Santo.

Dio non dimentica noi o i nostri bisogni come non dimentica le sue promesse, quindi, la frase “Egli ricorda è, piuttosto, la rassicurazione per noi (quelli che scordano e si sentono dimenticati così spesso) che Dio porta nel suo cuore, lavorando per il nostro bene, conclude la scrittrice Jessica Brodie.

Colui che non si scorda di noi quando noi lo dimentichiamo 
La profonda solitudine in cui Gesù visse, operò e soffrì è forse una delle scoperte più inquietanti che facciamo quando leggiamo i vangeli. Nessuno, nemmeno i suoi amici più cari, comprese la sua missione, distorcendo o dimenticando le sue parole, rimproverando o fraintendendo l’imminenza e il significato degli eventi a venire.

Essere senza peccato in un mondo pieno di peccati significa non adattarsi, non armonizzarsi veramente con nessun gruppo o persona, scrive il professor Jon Bloom. Fin dalla sua infanzia, i genitori di Gesù non lo capirono completamente (Luca 2:50); “I suoi stessi fratelli non credevano in lui” (Giovanni 7:5) e molto probabilmente continuarono a non credere fino alla resurrezione (Atti 1:14); mentre i suoi parenti, udendo delle guarigioni e del fatto che aveva scelto dodici discepoli, “uscirono per andare a prenderlo, perché dicevano: ‘È fuori di sé’” (Marco 3:21, Cei).

Dal momento che Gesù viveva come un uomo senza peccato, con genitori, fratelli, parenti, vicini e amici che invece erano peccatori, non c’era nessuno che potesse abbracciarlo e dirgli: “So esattamente cosa stai passando”, sottolinea Bloom.

Se facciamo fatica a discernere la solitudine negli anni della sua vita, man mano che si avvicina il momento della sua crocifissione, essa diventa sempre più evidente. Nell’ultima cena pasquale vissuta con i discepoli, Gesù si cinse con un asciugamano e lavò i loro piedi, svolgendo il compito di un servo. Era usanza nei giorni di festa che un servitore lavasse i piedi a chi era in casa, ma nel cenacolo c’era solo il gruppetto dei discepoli, e tutti si sottraevano a quell’incarico. Le parole di Gesù, che indicavano la sua sofferenza, erano state ascoltate di sfuggita; le liti sulla questione mai risolta del primato (“Fra di loro nacque anche una contesa: chi di essi fosse considerato il più grande”, leggiamo in Luca 22:24) non si era ancora spenta e il risentimento continuava a ribollire nei loro cuori; e tutto questo accadeva mentre Gesù avrebbe dovuto vivere l’agonia della croce meno di ventiquattr’ore più tardi.[2]

Nel Getsemani, quando l’ombra della croce incombeva minacciosa su di lui e il suo cuore era appesantito dal sentimento di ira di Dio contro il peccato (“Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui”, leggiamo in 2 Corinzi 5:21), Gesù chiese ai discepoli di passare la notte con lui in preghiera, ma loro si lasciarono vincere dal sonno, nella notte della sua ultima battaglia.

Furono ore di agonia, ma non per la vergogna e la sofferenza che stava per sopportare. “Sentiva che il peccato lo separava dal Padre. Quell’abisso era così profondo, così oscuro e così immenso, che tutto il suo animo fremeva. Egli non si sarebbe servito della sua potenza divina per evitare quell’agonia, ma come uomo avrebbe sopportato le conseguenze del peccato e la collera di Dio contro la trasgressione”.[3]

Nella notte della sua agonia, coloro che aveva servito per tre anni, che amava e per i quali stava per morire non compresero la sua angoscia e non vegliarono in preghiera, sebbene li avesse avvertiti che in quella nottata tutta la loro lealtà verso di lui, che dichiaravano e di cui erano sinceramente convinti, sarebbe stata distrutta. “Gesù soffriva di fronte a queste prospettive. Lo tormentava il pensiero che coloro che aveva amato così tanto si sarebbero uniti alle trame di Satana”.[4]

Mentre Gesù veniva catturato dalla folla inferocita, tutti i discepoli fuggirono per paura di condividere il suo destino. Uno di loro lo vendette ai suoi nemici e un altro, che aveva affermato di seguirlo fino alla morte, lo rinnegò pubblicamente. Sulla via del Calvario, dovettero seguirlo da lontano, come se fossero spettatori indifferenti, estranei che non sapevano cosa stesse accadendo. Nessuno si offrì di portare la sua croce quando divenne chiaro che, subendo maltrattamenti e flagelli, il suo corpo non poteva più sopportarne il peso fino al luogo della crocifissione. Le loro bocche non pronunciarono una parola che esprimesse fede, gratitudine o comprensione per il sacrificio di cui erano beneficiari.

“Gesù, ricordati di me”, questa era l’unica testimonianza di fede, ma veniva da uno dei ladroni, tra i quali Gesù fu crocifisso. Si tratta di una delle preghiere più commoventi registrate nelle pagine delle Scritture.

Ancora più toccante è il fatto che un Salvatore morente si ricordasse del ladro che aveva sprecato la sua vita e ascoltasse la sua preghiera. La sua agonia non lo distraeva dai bisogni di coloro che lo circondavano. Non si era distratto dal prendersi cura di sua madre, alla quale non aveva nulla da dare, ma che affidò a Giovanni, suo discepolo prediletto. Non si era distratto dal dolore delle donne che lo piangevano e alle quali rivolse dolcemente la loro attenzione nei momenti in cui la disobbedienza avrebbe portato alla distruzione di Gerusalemme e alla morte di alcuni dei loro figli.

Sulla croce, schiacciato da una sofferenza che non riusciamo a comprendere, Gesù si è ricordato di noi. Per questo non ha risposto alla beffarda provocazione dei sacerdoti e degli scribi: “Ha salvato altri, salvi se stesso” (Luca 23:35). Proprio per salvarci, non ha potuto salvare se stesso. Il fatto che abbia sopportato tutto il dolore causato dalla separazione dal Padre e l’umiliazione dei trattamenti crudeli escogitati dagli uomini è la prova vivente che ci ha custoditi nel suo cuore fino al suo ultimo respiro.

L’unica vita degna di essere vissuta è quella in cui scelgo di tenere a mente, ogni giorno, che Gesù si è ricordato di me sulla croce. Non mi ha dimenticato, perché sebbene abbia miliardi di figli, nessuno può sostituirmi nel suo cuore. Vivendo alla luce di quel ricordo, posso imparare ad amare gli altri e riesco a trovare speranza quando il mio mondo minaccia di crollare.

Note 
[1] E. G. White, La speranza dell’uomo, Ed. Adv, Firenze, p. 563.
[2] Cfr. E. G. White, La speranza dell’uomo, Ed. Adv, Firenze, pp. 554-555.
[3] Ivi, p. 686.
[4] Ivi, p. 687.

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

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