Luigi Caratelli – Dopo una conferenza, una mia amica mi disse: «Luigi, attento a usare correttamente le parole, poiché se per una persona hanno un significato per altre possono avere un significato opposto.
È assolutamente vero; e credo che lo stesso problema si ponga anche quando si scrive un articolo. Per cui, sarei dispiaciuto se le mie parole venissero travisate o mal comprese.
Sto riflettendo da molto tempo sul problema dell’evangelizzazione. Non ci sto solo riflettendo; ne sono pienamente implicato in azioni concrete. Ormai sono alla soglia della pensione e ho speso 40 anni della mia vita camminando con il Signore e facendo per lui quello che i suoi doni mi hanno permesso di fare, ovunque fosse necessario.
Quello che ho fin qui capito è che non esiste un metodo eccellente per evangelizzare, poiché l’evangelizzazione è portata avanti dagli uomini e, in definitiva, sono essi stessi a essere il metodo migliore. Dopo quattro decadi di impegno missionario ho anche capito che sussistono pregiudizi e falsi obiettivi che ritardano tremendamente l’opera evangelistica. Sempre a causa degli uomini. Comincerei raccontando una mia esperienza.
Non si dicono più certe cose!
Le torri dell’11 settembre si erano appena polverizzate, e il frastuono echeggiava anche all’interno della chiesa di Lungotevere Michelangelo a Roma. Ero stato invitato, per coincidenza, a tenere una serie di conferenze sulle profezie. A quel tempo utilizzavo anche parte del mio tempo in qualità di redattore del Messaggero Avventista; e con la Direttrice, Dora Bognandi, faticammo non poco a smentire fratelli e sorelle che ci inviavano messaggi e lettere, in cui esprimevano ferme convinzioni che Ellen White avesse previsto l’immane disastro di New York. Tutte fake-news, come si è soliti dire oggi: negli scritti di E.G. White non compare nulla al riguardo.
Così, in quella conferenza a Roma, espressi quanto dicevano i vaticini dell’Apocalisse circa una trasformazione in negativo della nazione statunitense; con tatto e convinzione. Quindi, rimasi sorpreso quando, al momento del dialogo in sala, un giovane pastore avventista appena laureatosi nelle facoltà di teologia, prese la parola e mi apostrofò dicendo: «Caro Luigi, queste cose non si possono più dire».
Una reazione poco etica per un pastore, dal momento che la sua bordata era stata sparata in presenza di un folto pubblico non avventista, che non avrebbe capito le «sottigliezze». Con tatto, e senza dubbio con abbondante dose di etica, risposi senza creare agitazioni nell’assemblea.
Che cosa avevo detto, dunque, di tanto fastidioso da provocare tale reazione? Semplice, avevo reso noto al pubblico che la profezia rendeva noto al mondo l’arroganza degli Stati Uniti, ben camuffati da «agnello che parlava come un dragone» (cfr. Ap 13:11)
Lo dicevo esattamente nel momento in cui il presidente della nazione più potente del mondo, per mezzo di pacchiane bugie, invadeva uno stato sovrano: l’Iraq. Certo, il dittatore Saddam non era uno stinco di santo, ma, dopo essere stato lungamente coccolato e aiutato proprio dagli Usa, nel 2003, non più utile, veniva neutralizzato con una fake-news: si mostravano alle Nazioni Unite fialette contenenti polverine da maghetti, spacciandole per armi chimiche del dittatore medio orientale. Una figuraccia che costò la carriera al generale Colin Powell e al suo emulo Tony Blair: entrambi dovettero chiedere scusa per le montature dei servizi segreti. Quelle fake-news costarono la vita a migliaia di esseri umani innocenti, molti dei quali bambini.
Bastava e avanzava per identificare il «falso profeta», come si usa dire nel nostro ambito, con gli Stati Uniti.
Lo dicevamo molto tempo prima
In quella conferenza dissi anche che il nucleo di giovani che fondarono il nostro movimento, già dal 1851 esprimevano l’opinione che quel «falso profeta» di Apocalisse fosse proprio l’America: quella cattiva e lontana dai progetti di Dio.
E i nostri pionieri, fidandosi della profezia, dicevano ciò quando l’America prendeva sonore batoste da un gruppo di intrepidi indiani delle praterie. I battaglioni di cavalleria americani venivano annientati dai pellerossa, e John Nevin Andrews affermava che i discendenti delle sfortunate «giacche blu» avrebbero conquistato il mondo. Spesso con arroganza.
Mi sembrava, allora, di aver detto qualcosa di straordinario; qualcosa di profetico.
Naturalmente continuai a dire «certe cose» e ricevetti apprezzamenti da chi quelle cose non le aveva mai sentite, e non ci trovava nulla di riprovevole a sentirle.
Come un interessato che, in una successiva conferenza nella città di Mestre, dopo aver sentito le stesse cose esposte giorni prima a Lungotevere, si alzò in piedi e mi disse: «Signor Caratelli, lei ha ragione. Come può una nazione libera come l’America, fare la prepotente con altre nazioni ugualmente libere?». Non trovava scandaloso che dicessi certe cose e, successivamente, decise di prendere studi biblici insieme alla figlia, presente alla conferenza.
L’evangelizzazione è un’altra cosa!
Sono da sempre convinto, come suggeriva la mia amica, che bisogna essere prudenti quando si comunica la parola. Soprattutto considerando il fatto che all’interno di ogni gruppo sociale – chiesa compresa – si sviluppano dinamiche di segno opposto che possono disgregare le relazioni: tra noi, inutile negarlo, convivono, e a volte si scontrano, integralisti e liberali.
Spesso un gruppo si assembla per reagire a una esagerazione del gruppo opposto. Si può diventare ultraliberali per spegnere gli ardori, e spesso le esagerazioni, di quanti sono convinti che fotocopiare i dieci comandamenti e inzeppare le cassette postali, sia il modo migliore per adempiere il mandato evangelico. Come ci si può irrigidire in posizioni fondamentaliste di fronte alle proposte di quanti ritengono che sia più evangelico non pestare i piedi a nessuno, non essere troppo «diversi», non affermare il proprio patrimonio teologico; dicono, questi ultimi, che bisogna essere solo cristiani e non avventisti.
Vittime di tali negative dinamiche – almeno fino a quando non c’è onesto e sincero confronto – sono quanti affermano che evangelizzare significhi solo fare studi biblici o conferenze pubbliche; oppure lavorare solo nel sociale, o nella proposta salutista e medica. Quando una proposta viene presentata come la panacea o il massimo della attendibilità, si è già su un terreno minato. Perché sostenendo che il «mio» è migliore del «tuo», che il mio dipartimento è l’unico vero interprete dell’azione missionaria, si arresta la spinta dell’opera, si frenano gli entusiasmi e l’azione comune.
Chi si esprime in contrapposizioni ed esclusioni rispetto ai metodi evangelistici, non tiene conto dell’unico vero e unico metodo scelto dal Signore per la sua Chiesa. Egli ha fornito i suoi figli di una gran quantità di doni, che si esprimono nella diversità di progetti, azioni, e quindi, dipartimenti.
Per il Signore non è mai esistito il problema se oggi si deve operare nel sociale anziché nella proclamazione classica del messaggio evangelico. Ogni proposta è utile per tutte le categorie di persone che compongono l’umanità.
Invece di sparare sciocchezze su cosa si deve o non si vede dire oggi, sarebbe meglio considerare la ricchezza dei nostri mezzi e fare in modo che non si parli più di «metodo», ma di persona.
Spesso i metodi falliscono non perché sono «obsoleti», ma perché chi li propone non è adatto; Dio non potrà mai benedire progetti che non rientrano nel suo piano, o che sono portati avanti da persone che Dio non ha qualificate.
Quando la persona – l’evangelizzatore – è in un continuo atteggiamento di «richiesta a Dio» su cosa dire e cosa fare, elimina molti problemi; e non è egli stesso il problema.
La persona consacrata a Dio, e non ai personali progetti, sentirà spesso cosa è giusto dire o non dire all’altro.
Dopo 40 anni di lavoro nell’opera del Signore, mi sento di dire che il successo nell’evangelizzazione non dipende tanto, o non solo, dai metodi, dipende dalle persone. Si può dire tutto, se tu sei il metodo, se tu sei colui o colei che ascolta la voce dello Spirito, unico che sa istruire su cosa dire al momento opportuno. Soprattutto quando, nell’elaborare progetti – indispensabili per una preventiva e giusta comprensione dei metodi – il primo posto lo si lascia ai consigli del Padre.
Ellen G. White scriveva che il messaggio medico sanitario – quindi, oggi, anche il sociale in tutte le altre sue espressioni e forme – è il braccio destro dell’evangelizzazione. Due braccia importanti: una armata della parola, l’altra a suo sostegno e supporto.
Capire ciò è il segreto del mandato evangelico; qualunque cosa si dica.