La normativa approvata il 12 aprile colpisce i diritti delle minoranze religiose.
Davide Romano – Come è già stato rilevato da più parti, la nuova legge regionale (12 aprile del 2016, n. 12) recante norme sul governo del territorio, varata dalla giunta regionale del Veneto, e che integra la precedente legge n. 11/2004, contiene significativi ostacoli alla libertà di culto. Il paradosso italiano di leggi regionali come quella del 2015 della regione Lombardia, recentemente, e in parte, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale (sentenza 63/2016), e di quella della regione Veneto è quello di rendere oltremodo difficile l’effettivo e concreto godimento della libertà di culto che è diretta estrinsecazione del diritto di libertà religiosa statuito dalla nostra Costituzione agli artt. 8, 19 e 20.
Purtroppo i soloni del Veneto, ispirati da ideologie politiche tristemente note per la loro avversione a qualunque forma di riconoscimento dei diritti degli stranieri e delle minoranze, perseguono scopertamente l’obiettivo di impedire che moschee e centri culturali islamici innanzitutto, e altre confessioni religiose cristiane in second’ordine, si strutturino sul territorio urbano.
La prova di questo atteggiamento vessatorio e ostracizzante sta in alcune disposizioni del testo di legge appena introdotto, particolarmente all’art. 31 ter, ove per la realizzazione di attrezzature finalizzate ai servizi religiosi – categoria peraltro estesa indebitamente anche all’abitazione del ministro di culto, ad esempio, oppure a centri adibiti a ospitare associazioni di qualunque tipo purché statutariamente riconducibili a enti religiosi, ecc. – è previsto che ogni eventuale onere per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria quali, a titolo di esempio, la rete viaria e fognaria, parcheggi, rete idrica, rete per l’erogazione dell’energia elettrica se assente, e quant’altro vi afferisca, sia realizzato a carico “del richiedente”, cioè della singola comunità di fede. Si intuisce facilmente la pretestuosità di tale normativa, ben sapendo che nessuna confessione religiosa, salvo forse quella cattolica-romana, avrebbe la capacità economica per insediarsi su un territorio alle suddette condizioni.
Ma giusto per non lasciare niente di intentato, al comma 6 dell’art.31 ter, si contempla altresì la possibilità per i Comuni di indire dei referendum consultivi al fine di ascoltare evidentemente il parere della comunità cittadina sulla opportunità o meno di consentire a una determinata confessione religiosa di insediarsi in un dato quartiere. Quale migliore esempio di democrazia diretta, si direbbe.
Solo che se i diritti delle minoranze fossero stati storicamente messi sic et simpliciter ai voti avremmo ancora i servi della gleba. La democrazia non tollera scorciatoie populiste. E le democrazie liberali hanno imparato che le istanze delle minoranze non si decidono con un referendum ad hoc, somministrato, peraltro, a cittadini spesso disinformati.
Rimane dunque l’amara constatazione che nel nostro paese, problemi complessi e situazioni sociologicamente impegnative, specie se religiosamente connotati, si vorrebbero risolvere non con un paziente lavoro di tessitura democratica e culturale, faticosa certo, ma più feconda nell’ottica dell’interesse generale della polis, ma piuttosto tagliando il nodo gordiano con un secco quanto improvvido colpo di sciabola. Prima o poi la Consulta dovrà tornare a pronunciarsi.