La ricetta per stare bene.

Carmen Lăiu – Cosa pensereste se il vostro medico vi prescrivesse come cura una dose di natura? Ammirare una nuvola, pranzare in spiaggia, mettere il viso nell’erba… Questo è esattamente quello che stanno facendo alcuni dottori, dopo che gli studi hanno mostrato i benefici del contatto con l’aria aperta, soprattutto da quando la tendenza ad allontanarsi dalla natura negli ultimi decenni ha portato alla nascita di una generazione che trascorre al chiuso fino al 90% del proprio tempo.

Peter Foldbjerg, responsabile dell’energia diurna e del clima interno di un’azienda danese afferma che stiamo diventando sempre più una generazione di persone indoor, per le quali l’unica opportunità per beneficiare di aria fresca e di luce naturale durante la settimana, il più delle volte, è solamente lo spostamento verso la scuola o l’ufficio. Il fatto che alcune persone non trascorrano nemmeno un’ora al giorno nella natura è profondamente preoccupante, è il commento di Foldbjerg su un sondaggio che ha mostrato come europei e americani siano rinchiusi nelle loro case e uffici fino al 90% del tempo.

Generazione interna 
Il sondaggio è stato condotto su oltre 16.000 adulti provenienti da 15 Paesi europei e nordamericani, e ha mostrato che, sebbene gli intervistati stimassero di trascorrere solo il 18% del loro tempo al chiuso, in realtà la percentuale era significativamente più alta. Più della metà dei partecipanti al sondaggio (52%) ha dichiarato di aver trascorso un’ora al giorno, o meno, nella natura nell’ultimo mese e l’85% di loro ritiene che, da bambini, giocasse nella natura molto più di quanto facciano i bambini di oggi. Il sondaggio ha anche mostrato che un americano su quattro trascorre tra le 21 e le 24 ore in casa e il 41% rimane in casa tra le 15 e le 20 ore. I canadesi hanno dimostrato di essere campioni indoor. Il 69% di loro afferma di trascorrere un’ora o meno al giorno all’aperto, rispetto alla media globale del 52%.

Negli ultimi 200 anni, la percentuale di persone che lavorano all’aperto è diminuita drasticamente, dal 90% al 20%, afferma il dott. Russel Foster dell’Università di Oxford, che esprime la sua preoccupazione per questa transizione “dall’essere una specie all’aperto a trascorrere la maggior parte del tempo in caverne oscure”.

Anche durante il tempo libero, l’immersione nella natura non è molto popolare. Secondo la Outdoor Foundation, il numero di escursioni all’aperto effettuate dagli americani è diminuito di un miliardo nel 2018, rispetto al 2008, e nel caso dei bambini, nel 2018 è diminuito del 15% il numero di uscite all’aperto rispetto al 2012.

L’immersione nella tecnologia è una delle cause della disconnessione dalla natura, ma il quadro causale è in qualche modo più complesso, proprio come è diventata la vita quotidiana negli ultimi decenni.

Come ci siamo allontanati dalla natura? 
Nel 2005, l’autore Richard Louv ha coniato il concetto di Nature-Deficit Disorder, un termine che si riferisce all’alienazione dalla natura, specialmente nel caso dei bambini. L’urbanizzazione gioca un ruolo significativo nell’equazione di questa lontana relazione, scrive Louv, il quale analizza alcune delle cause della disconnessione delle nuove generazioni dal mondo naturale.

L’ambiente urbano ospita il 54% della popolazione mondiale (4,4 miliardi di abitanti, contro i 746 milioni del 1950) e si stima che entro il 2050 il 70% delle persone vivrà in città. L’alienazione dalla natura si verifica a causa di una pianificazione urbana che ignora l’importanza degli spazi verdi (mancanza di parchi e giardini nei quartieri o sistemi di trasporto che scavalcano le aree naturali), sottolinea Louv.

Sebbene molte famiglie abbiano limitate possibilità di raggiungere la natura, uno dei principali fattori di alienazione dall’ambiente esterno è che viviamo in una cultura della paura, spiega l’autore. Temiamo gli estranei o i pericoli reali in alcuni quartieri ma anche il mondo naturale, che non è sempre un ambiente privo di rischi. Tuttavia, la paura può essere superata familiarizzando con l’ambiente e riconoscendo che i suoi benefici superano i rischi.

La tecnologia e la proliferazione degli strumenti di comunicazione virtuale rappresentano un altro ostacolo al nostro rapporto con la natura. Il tempo davanti allo schermo è aumentato più che mai tra i bambini e gli adolescenti americani, secondo un sondaggio che ha rilevato che l’uso dei dispositivi dello schermo tra questi gruppi di età è aumentato del 17% tra il 2019 e il 2021, anche a causa dei cambiamenti causati dalla pandemia.

L’uso eccessivo di dispositivi elettronici era già un problema prima della pandemia, secondo un rapporto del 2019 dell’Association of Play Industries (Api), che avverte che non c’è mai stato un momento in cui i bambini facciano così poca attività fisica (gli schermi sarebbero i principali colpevoli). Il rapporto sottolinea che “all’età di 8 anni, il bambino medio avrà trascorso quasi un anno intero di 24 ore al giorno incollato allo schermo”.

Il consumo di media è comunque in aumento in tutte le età. Uno studio ha rilevato che, nel 2016, il tempo medio trascorso davanti allo schermo tra gli adulti era di 10 ore e 39 minuti al giorno. Non è la tecnologia in sé il nemico ma la nostra incapacità di mantenere un equilibrio, afferma Louv, sottolineando che mentre permettiamo agli schermi di rubare sempre più tempo, i nostri sensi si restringono e abbiamo sempre meno energia per trascorrere tempo all’aria aperta.

La tecnologia può anche mediare, promuovere o sostituire le esperienze nella natura, attraverso vari mezzi: robot progettati per essere animali domestici, app che aiutano a identificare alberi, piante o costellazioni, tour virtuali di siti naturali e così via. Gli studi dimostrano che tale interazione può portare più benefici rispetto alla mancanza di qualsiasi tipo di esposizione alla natura ma che questi effetti benefici sono minori rispetto al contatto diretto.

L’intrusione della tecnologia nel nostro rapporto con la natura è uno dei problemi psicologici centrali dei nostri tempi, ritiene lo psicologo Peter Kahn. Esperimenti condotti nel suo laboratorio hanno dimostrato che le interazioni dei bambini con Aibo (cani robot prodotti da Sony, in grado di riconoscere e rispondere a più di cento comandi vocali, esprimere una gamma di emozioni e, nelle versioni più avanzate, di evolvere da cucciolo ad adulto) non erano così profonde come le interazioni con un cane vero.

Interferendo con il nostro rapporto con la natura, la tecnologia può contribuire a quella che chiamiamo “amnesia generazionale ambientale”, afferma Kahn, spiegando che l’umanità sta progressivamente dimenticando lo stato del mondo naturale com’era una volta, e ogni generazione percepisce come norma le condizioni ambientali che incontra durante l’infanzia.

Negli anni ’90, il ricercatore Daniel Pauly ha osservato che ogni generazione di pescatori, ma anche di scienziati, accetta la diminuzione della biodiversità delle popolazioni ittiche come “punto di riferimento”. Pertanto, ogni generazione ha trattato la biodiversità oceanica impoverita come normale, un effetto che Pauly ha chiamato Shifting Baseline Syndrome (Sindrome da spostamento dei punti di riferimento)

L’elevata tolleranza per la perdita di risorse naturali rende difficile risolvere i problemi ambientali, dalla deforestazione al cambiamento climatico, sottolinea Kahn. I suoi anni di studio del rapporto tra uomo e natura gli hanno insegnato che questo legame è fragile e che dovremmo usare l’esposizione alla natura attraverso la tecnologia come un qualcosa in più, non come sostituto dell’interazione diretta.

Inoltre, i benefici fisici e mentali che raccogliamo dal contatto indiretto con la natura diminuiranno nelle generazioni future, ritiene lo psicologo, il quale avverte del rischio che questi benefici “in parte buoni ci impoveriscano come specie” in futuro, man mano che la distanza tra noi e la natura si approfondirà.

La natura, una medicina a portata di mano 
L’esperienza della natura può essere vitale per la nostra salute mentale, hanno concluso i ricercatori della Stanford University, a seguito di uno studio che ha dimostrato che gli individui che hanno camminato per 90 minuti nella natura hanno mostrato un’attività neurale ridotta nella corteccia prefrontale subgenuale, una regione del cervello altamente attiva durante la “ruminazione” (ovvero la concentrazione continua sui pensieri negativi che si traducono in disagio emotivo) rispetto a coloro che camminavano in un contesto urbano.

Il ruolo della natura nell’alleviare lo stress si riflette in un numero crescente di studi. Per verificare se questo effetto è più significativo nelle aree selvagge, dove l’intervento umano è minimo, rispetto agli ambienti gestiti dall’uomo, i ricercatori americani hanno monitorato i livelli di stress dei soggetti dello studio in tre diversi ambienti: una foresta, un parco di tipo municipale e una palestra. I soggetti che camminavano nell’area boschiva avevano i livelli di stress minori, misurati da indicatori come livelli di cortisolo più bassi, meno preoccupazioni riportate e livelli più alti di gioia. Altri ricercatori non hanno trovato differenze significative tra gli effetti della natura “selvaggia” e quelli della natura “gestita dall’uomo” sul benessere emotivo. Pertanto, uno studio del 2016 ha rilevato che l’esercizio migliora l’umore e riduce i livelli di cortisolo sia in un ambiente naturale che negli spazi verdi urbani, con l’ambiente naturale che fornisce ulteriori benefici cognitivi che persistevano per almeno 30 minuti dopo l’uscita dall’ambiente. Anche brevi soste nei parchi e nelle foreste urbane possono ridurre i livelli di stress, mentre il tempo trascorso in città diminuisce le emozioni positive, ha dimostrato uno studio coordinato dalla professoressa Liisa Tyrväinen.

Secondo una meta-analisi di 143 studi, una maggiore permanenza negli spazi verdi è stata associata a pressione sanguigna più bassa, minore incidenza di malattie cardiovascolari e mortalità per tutte le cause, minor rischio di parto pretermine e diabete di tipo 2 e minore incidenza di asma e dislipidemia. Uno studio condotto da ricercatori americani ha dimostrato che quattro giorni di immersione nella natura (e la corrispondente disconnessione dalla tecnologia) hanno aumentato del 50% la creatività e la capacità di risolvere problemi.

C’è una “dose di natura” che dobbiamo assumere per beneficiare appieno dei suoi effetti? Gli autori di uno studio del 2019, pubblicato su Scientific Reports, hanno fornito una risposta dopo aver analizzato i dati raccolti da 20.000 britannici in un periodo di due anni. La conclusione dello studio è stata che la soglia temporale essenziale per favorire il benessere dell’organismo potrebbe essere di almeno due ore alla settimana trascorse nella natura. Le persone che trascorrevano almeno 120 minuti alla settimana all’aperto avevano una probabilità significativamente maggiore di mantenere buona salute e di essere mentalmente equilibrate rispetto a coloro che non erano uscite nel verde nel corso di una settimana. Questa soglia era presente anche nelle persone con malattie croniche, suggerendo così che l’associazione tra tempo trascorso nella natura e benefici per la salute non si spiega solo con la tendenza delle persone più sane a uscire più spesso nella natura. Gli effetti positivi delle due ore trascorse nella natura, infatti, sono stati presenti in entrambi i sessi, giovani e anziani, etnie diverse, residenti in zone economicamente avvantaggiate e svantaggiate.

Con così tante buone notizie sui benefici del contatto con la natura che emergono da una moltitudine di studi, non sorprende che i medici stiano già prescrivendo il numero e la durata delle attività all’aperto. Il pediatra Robert Zarr è uno di loro. Fondatore di una onlus che incoraggia i medici a prescrivere ai pazienti uscite al parco, lo stesso Zarr consegna ai bambini e ai ragazzi che entrano nel suo studio prescrizioni con il nome di un parco vicino casa, compresa l’attività da svolgere all’aperto, la sua durata e la frequenza.

A partire dal 2018, il Servizio Sanitario Nazionale delle Isole Shetland ha lanciato il progetto “Nature Prescriptions” per curare condizioni come la depressione o l’ipertensione. Quando trattano pazienti la cui salute potrebbe trarre beneficio dal tempo trascorso nella natura, i medici forniscono loro un opuscolo che mostra gli effetti positivi dell’uscire e un calendario con suggerimenti relativi alle attività all’aperto da poter svolgere nella loro regione. Il progetto offre ai pazienti un piano strutturato per accedere alla natura, parte di un approccio ai problemi di salute libero dai farmaci, spiega la dottoressa Chloe Evans.

Dopotutto, indipendentemente dall’età dei propri pazienti, nessun medico vuole prescrivere farmaci “quando c’è un’alternativa più sicura, che è passare del tempo all’aperto”, come sottolinea il pediatra Robert Zarr.

(Carmen Lăiu è redattrice di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

Condividi

Articoli recenti