Il dottore del mondo dimenticato
17 Gennaio 2024

Il dott. Roland Hermann sa cosa vuole fare nella sua vita. Possiamo riassumere così le sue risposte incisive, ma allo stesso tempo rilassate e semplici. Da anni, il dentista quarantacinquenne di Mediaș, in Romania, viaggia in luoghi dimenticati per curare migliaia di pazienti in difficoltà.

Norel Iacob – Roland Hermann non ha paura di pensare e di esprimersi liberamente. Parla apertamente della sua passione per gli sport estremi. Con disinvoltura e semplicità spiega i principi altruistici che lo hanno condotto lungo un percorso insolito nella vita. Roland suona il pianoforte, la chitarra e il flauto dolce, è appassionato di escursionismo, paracadutismo, alpinismo, fotografia e disegno, ma la sua passione è soprattutto quella di aiutare le persone. Nella mia intervista, ho cercato di capire cosa è venuto prima: la sua passione per le persone lo ha portato a sviluppare l’altruismo, oppure la scoperta dell’altruismo lo ha portato a coltivare una passione per le persone?

Alla fine, mi è stato chiaro che la sua visione della vita non è una peculiarità della sua personalità, ma il frutto di una specifica educazione e di scelte personali. Dopotutto, Roland è un uomo che ha preso sul serio la ricerca del significato ultimo della vita. E non è da solo. Le sue azioni sono di squadra; è il rappresentante di un gruppo di persone speciali quanto lui, ma che hanno scelto una visione diversa dell’esistenza.

Norel Iacob: Roland, il mondo ti ha scoperto quando Discovery Channel ti ha incluso nella serie “Contemporary Heroes” nel 2010. Come sei arrivato a comparire in una produzione del genere? 
Roland Hermann: Dal 2005 a oggi sono stato coinvolto nell’organizzazione di diversi progetti medici in cui una piccola equipe composta da un dottore di medicina generale, un dentista e alcuni infermieri si reca in luoghi in cui le persone sono isolate o hanno un accesso minimo alle cure mediche. Questi progetti sanitari sono spedizioni nella giungla amazzonica, nell’Africa rurale e nei villaggi nei pressi del Monte Everest. In una delle spedizioni avevamo con noi una troupe cinematografica il cui regista credeva nella nostra causa, e così siamo entrati in contatto con il variopinto mondo dei media, ovvero Discovery Channel Romania.

N.I.: Le tue azioni mi ricordano il medico missionario David Livingstone o la celebre Florence Nightingale. Ecco perché non esito a definire te, missionario, e viaggi missionari le tue spedizioni. Quando è iniziato il tuo sogno di essere missionario tra i più svantaggiati? 
R.H.: Alcuni valori morali si trasmettono attraverso l’educazione, altri con l’auto-educazione. Dico questo perché da bambino ho conosciuto storie esemplari ma anche storie vere, come quelle di Livingstone e Albert Schweitzer, che scelsero l’Africa. Forse è stato allora che mi sono innamorato della possibilità di esplorare un mondo lontano, dove le persone erano così diverse da me e la natura selvaggia tanto stimolante. Un giorno arrivò il momento in cui dovevo prendere una decisione. Ogni persona a un certo punto deve scegliere cosa fare della propria esistenza. Mentre ancora studiavo odontoiatria, ho deciso di concentrare la mia vita sulla missione medica, con tutto ciò che comporta.

N.I.: Potresti raccontarmi nel modo più concreto e non ideologico, cosa ti motiva a fare quello che fai? 
R.H. : È un processo continuo di maturazione in cui sono intrappolato tra la vocazione e le soddisfazioni che rafforzano questa vocazione. Vedo vite cambiare continuamente, la vita di persone che non conosco, ma anche quella di coloro che prendono parte a queste spedizioni.

N.I.: L’anno scorso la stampa ha parlato molto di te. “Medico missionario”, “dentista viaggiante”, “benefattore”, “eroe contemporaneo” o “guaritore bianco” sono alcuni dei modi in cui sei stato descritto. Come definiresti te stesso e la tua missione? 
R.H.: Innanzitutto penso che queste definizioni siano meritate da tutti i miei colleghi che hanno corso dei rischi con me e, soprattutto, salvato vite umane. Mi descriverei come qualcuno che ha le competenze e la vocazione per andare a curare coloro che sono isolati e non hanno alcuna possibilità di ricevere cure mediche.

N.I.: Quando hai iniziato a viaggiare per fornire assistenza sanitaria gratuita? Quali sono state le prime impressioni e conclusioni? 
R.H.: Il primo viaggio è avvenuto nel 2005 nella Guyana britannica. Con l’aiuto di un traduttore amerindio e di un amico, pilota del Cessna 172, la nostra piccola squadra di tre persone è riuscita a viaggiare attraverso la giungla e visitare quindici villaggi. La prima conclusione è stata che si può fare molto con pochi soldi e che l’aiuto dei nostri compagni di spedizione ha fatto una grande differenza. Poi ho cominciato a sognare l’idea di mettere insieme piccole squadre molto flessibili di giovani medici, dotate di attrezzature portatili, che potessero andare praticamente ovunque per salvare vite umane e fornire assistenza medica. Negli anni successivi ho provato a immaginare altri modelli organizzativi, ma ogni volta sono giunto alla stessa conclusione. C’è un target di persone che le grandi organizzazioni umanitarie non riescono a raggiungere, e c’è molto che si può fare per loro con risorse finanziarie limitate.

N.I.: Quanti mesi della tua vita hai trascorso effettivamente in questi viaggi? Quanti Paesi hai visitato e come li hai scelti? Quante persone ritieni di aver curato gratuitamente? 
R.H.: Faccio un breve elenco:
– 2005, Guyana britannica, 40 giorni, con 3 volontari. 
– 2006, Guyana britannica, 40 giorni, con 9 volontari. 
– 2007, Ciad, 30 giorni, con 6 volontari. 
– 2008, Ruanda, 60 giorni, sono andato da solo. 
– 2008, Nepal, 28 giorni, con 6 volontari medici più una troupe cinematografica. 
– 2009, Amazzonia (Brasile), 30 giorni, con 6 volontari. 
– 2010, Bolivia, 30 giorni, con 2 volontari più un’équipe medica boliviana. 
– 2011, Nepal, 29 giorni, con 9 volontari, di cui una persona ultracinquantenne e una ultrasettantenne.

I Paesi sono stati scelti per includere la popolazione target, in modo da lavorare con partner che potessero monitorare e occuparsi della salute della popolazione locale dopo la nostra partenza. Abbiamo cercato di coprire quante più aree e culture possibili, per dimostrare che un medico o un infermiere romeno può venire in questi luoghi e svolgere il proprio lavoro, a patto che sappia adattarsi. Almeno 500 persone hanno ricevuto cure o visite mediche gratuite in ciascuna delle spedizioni.

N.I.: Come funziona un viaggio di missione come questo? Con chi vai? Di quale attrezzatura non puoi fare a meno? 
R.H.: Solitamente nei nostri viaggi, salvo poche eccezioni, siamo equipaggiati con tutto il necessario per svolgere il nostro lavoro. Ogni medico sceglie le attrezzature e i medicinali giusti in base alla propria specialità e alle esigenze locali. All’inizio sognavamo alcune apparecchiature portatili, come per l’elettrocardiogramma e gli ultrasuoni, ma la tecnologia e i fondi ci hanno permesso di averle solo di recente. 
Abbiamo sempre con noi il kit di emergenza e di traumatologia preparato dai nostri colleghi dello Smurd (Servizio mobile di rianimazione ed emergenza romeno). Inoltre, portiamo sempre un kit odontoiatrico che comprende, oltre a pinze e anestetici, strumenti alimentati da un pannello solare flessibile che fungeva anche da fonte di energia per il telefono satellitare, le macchine fotografiche e i videoregistratori.
Ci auguriamo che in futuro potremo accedere a Internet via satellite, il che ci permetterà di studiare soluzioni di telemedicina che potrebbero portare l’efficienza del team a un livello ancora più elevato. Le équipe erano composte da medici di diverse specialità, dagli ortopedici agli pneumologi e ai medici generici, e po infermieri generali e infermieri Smurd o specializzati in chirurgia maxillo-facciale, volontari provenienti da Romania, Germania, Portogallo e Svizzera, per lo più professionisti e talvolta studenti di medicina.

N.I.: Qual è stata finora la missione più difficile e per quale motivo? 
R.H.: Questa è una domanda a cui ciascuno dei miei colleghi risponderebbe a modo suo, ma se guardo al lavoro di ciascun team, direi che i casi più eclatanti e, soprattutto, il carico di lavoro più vario sono stati quelli in Ciad nel 2007. In quel periodo lavoravamo sia nell’ospedale rurale di Bere sia nei campi profughi nel sud del Paese, vicino al confine con la Repubblica Centrafricana. In Ciad, la vita umana può sembrare usa e getta, nel senso che può essere persa troppo facilmente. In termini di carico di lavoro e condizioni in cui operavamo, quella rimane la missione più difficile finora.

N.I.: Quali sono i costi e chi finanzia i vostri viaggi? 
R.H.: I costi rientrano in due categorie: logistici (trasporti, vitto e alloggio) e tecnici (attrezzature, medicinali e materiale sanitario). Per quanto riguarda la prima categoria, il viaggio da solo può costare tra i 1.500 e i 2.000 euro a persona. Il totale per la seconda categoria può variare da 500 a diverse migliaia di euro, a seconda delle attrezzature e delle forniture. Queste spedizioni sono state finanziate individualmente da ciascun partecipante, che ha pagato i propri voli, i visti, le vaccinazioni e così via. Ciascuno ha cercato di portare, procurarsi o acquistare quanto necessario affinché la spedizione si svolgesse senza intoppi.

N.I.: In questo tuo elenco non ci sono finanziamenti di sponsor. È perché non vuoi sponsorizzazioni oppure non hai avuto successo con le richieste di sostegno? 
R.H.: Sono un libero professionista, o almeno voglio esserlo, e ogni medico dovrebbe esserlo, almeno quando si tratta di spedizioni mediche umanitarie. Le sponsorizzazioni sono benvenute, ma i potenziali sponsor devono ancora abituarsi alla mentalità di sostenere i medici liberi professionisti. In generale, per qualche motivo che non capisco, le persone preferiscono fidarsi delle grandi organizzazioni. I medici freelance cercano di ottenere risorse in modo da rimanere liberi e le loro decisioni relative ai pazienti sono guidate dai problemi del paziente, non dagli obblighi verso lo sponsor. Inoltre, selezionano i pazienti in base ai loro bisogni e alla loro capacità di soddisfarli, non secondo piani elaborati in qualche ufficio dirigenziale o da un lontano consiglio religioso. Di tanto in tanto, brave persone ci hanno sostenuto finanziariamente e ci hanno dato fiducia senza imporre come spendere i soldi. Ma il peso finanziario è stato portato avanti dai componenti dell’équipe.

N.I.: Quale tipo di cose che considereremmo “esotiche” dovevi fare lì? 
R.H.: Beh, per me le cose più esotiche erano bere l’acqua dai rampicanti nella giungla, spingere la barca attraverso le rapide sapendo che c’erano gli anaconda nell’acqua, rinfrescarsi in Amazzonia con i delfini d’acqua dolce che sbuffavano a pochi metri da me, sorvolare con un parapendio a motore la savana africana o migliaia di ettari di foresta pluviale, addormentarsi al suono dei tamburi, farsi svegliare dalle scimmie urlatrici, godersi la nebbia che sale all’alba mentre la brezza increspa il cielo, la zanzariera sull’amaca nella giungla, dover utilizzare una canoa o un quad per raggiungere il successivo villaggio indiano, dormire in una capanna dove “risiedono” pipistrelli vampiri o tarantole, e molto altro ancora.

N.I.: Cosa speri di ottenere con queste missioni? Non sono solo una goccia in un oceano di bisogni? 
R.H.: Questo oceano di bisogni è una realtà al di là del nostro potere di giudicare il motivo per cui esiste. Demograficamente siamo un oceano. Per un po’ ho avuto la tentazione di giudicare il mondo in base al denaro, di indignarmi per il fatto che negli uffici delle grandi organizzazioni si spreca così tanto, quando la mia équipe potrebbe curare centinaia di persone con una piccola percentuale dello stesso denaro. A poco a poco mi sono reso conto che le grandi organizzazioni sono necessarie proprio perché abbiamo a che fare con un oceano, non con dei pesci. Dopotutto, potrei essere accusato della stessa cosa. Naturalmente, fornire assistenza sanitaria gratuita non rovina nulla dal punto di vista culturale, economico o politico, ma mi chiedo perché non si faccia almeno altrettanto per formare gli operatori sanitari locali nei Paesi in cui ce n’è così disperato bisogno.

Mi chiedo anche perché il prodotto della società siano le grandi organizzazioni e non un numero equilibrato di medici liberi professionisti come Albert Schweitzer e altri. Vorrei che potessimo svegliare le persone inattive che non sono coinvolte nelle grandi organizzazioni, né nei progetti locali, e che non sostengono nessuno, per dimostrare che ci sono ancora gruppi di persone di cui nessuno si preoccupa, che c’è anche questo metodo, troppo poco vissuto, di essere un libero professionista umanitario, un libero professionista medico.

A volte è difficile sul campo quando sei sopraffatto dai problemi. È allora che entra in gioco una parola molto dura: triage. È il momento in cui devi avere la forza e la saggezza per gestire le vittime: identificare i pazienti prioritari senza provocare disordini, e allo stesso tempo tenere conto di cosa puoi fare per loro con i farmaci e le attrezzature minime che hai a disposizione. È difficile perché a volte vedi la disperazione nei loro occhi. È ancora più difficile perché a volte ci sono tanti bambini e devi mantenere la calma mentre il tuo cuore si spezza e non puoi credere in quali terribili condizioni un essere umano può finire a vivere…

N.I.: Pensi di andare avanti così per il resto della tua vita? Hai qualche progetto per proseguire a un altro livello? 
R.H.: Sì, vorrei poter trovare un modo per svolgere queste missioni a lungo. Se mai avrò l’opportunità di assicurarmi un reddito che mi permetta di trascorrere un minimo di tempo nella “civiltà” e un massimo di tempo alla “fine del mondo”, non esiterò. Ho intenzione di dedicarmi a un programma/progetto di aviazione medica in cui potrò fornire servizi medici gratuiti, spedizioni mediche aeree, trasporto di medici e volontari in aree remote con popolazioni isolate.

Molto probabilmente avvierò un progetto del genere in Ciad. Vorrei anche sviluppare un sistema di franchising medico-umanitario che fornisca un modello di lavoro per una squadra di 3 o 4 medici. Attraverso questo sistema vorrei che un’équipe che decide di fare volontariato per un mese o più, possa ricevere un equipaggiamento ultramobile che comprende: kit per analisi di laboratorio, strumenti chirurgici, kit traumi ed emergenze, kit dentale, kit per la diagnostica per immagini e un kit per la telemedicina.

N.I.: Alcune persone che, su Discovery Channel, hanno sentito della tua passione per gli sport estremi potrebbero considerare te e i tuoi compagni di squadra persone avventurose, desiderose di adrenalina, sport estremi, pericolo ed emozioni. Come puoi far comprendere le vere ragioni per cui partecipi a questi viaggi di missione? 
R.H.: Non nego la propensione a correre rischi calcolati, né la vera gioia di vedermi in aria o di tuffarmi nel vuoto, né che l’avventura sia un aspetto gradito, per cui posso a ragione considerarmi avventuroso, con due distinguo: 1) rischio sempre e solo la mia vita per raggiungere le persone e quando sono “a terra” scelgo la strada più sicura (un medico ferito è un medico inutile); 2) dopo l’avventura, gli unici trofei sono le liste dei nostri pazienti che sono stati aiutati. Più di una volta, gli sport estremi ci hanno aiutato a compiere le nostre missioni.

N.I.: Hai imparato qualcosa in più sulla felicità durante questi viaggi? Oppure la tua decisione di continuare significa rinunciare alla felicità per sacrificarti a beneficio di chi ha bisogno? 
R.H.: La felicità è un argomento filosofico troppo complesso. Se non pianifichi la tua vita, altri la pianificheranno per te. Ho scoperto che la felicità mi può capitare in diversi posti del mondo, mentre riesco a vivere valori che nessuno può togliermi. Sì, rinuncio a certi piaceri o li rimando, ma non sento di fare uno sforzo diverso da chi compie sacrifici per raggiungere obiettivi in una potenziale carriera o per realizzare ambizioni personali. Infatti, sarei infelice se non seguissi la mia vocazione.

(Norel Iacob è direttore di Signs of the Times Romania e ST Network).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

 

 

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