Daniele in breve. Le motivazioni più che le parole

Daniele in breve. Le motivazioni più che le parole

Francesco Zenzale – “Egli mi disse: Non temere, Daniele, poiché dal primo giorno che ti mettesti in cuore di capire e di umiliarti davanti al tuo Dio, le tue parole sono state udite ed io sono venuto a motivo delle tue parole” (Da 10:12).

Nel libro biblico di Michea, Dio invita quelli che hanno imparato ad apprezzare il suo amore a “praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Mi 6:8, Cei). Credo che Daniele abbia pienamente soddisfatto questo desiderio di Dio. Indubbiamente il primo a trarne vantaggio è stato il profeta stesso, se consideriamo lo svolgimento del suo percorso di vita e il compiacimento di Dio, il quale con trasporto emotivo gli dice che è “molto amato”.

A questi tratti caratteriali, il testo introduttivo della nostra breve riflessione ne aggiunge un altro: il desiderio di capire. La volontà di comprendere è intimamente legata all’umiltà, alla consapevolezza che vi è sempre qualcosa da imparare, da afferrare, nonostante la saggezza acquista nel corso degli anni. Con Dio e con la vita non si finisce mai di studiare. In tal senso gli orizzonti del sapere si ampliano e si arricchiscono.

L’angelo fa presente che le parole di Daniele “sono state udite” dal cielo, che è stato inviato da Dio “a motivo delle sue parole”. Ciò significa che Dio non risponde perché incentivato dalla moltitudine delle parole o per le spasimanti preghiere, ma per il loro contenuto. In altre parole, Dio non è interessato tanto al lessico o al tempo che dedichiamo alla preghiera, quanto alle motivazioni o a ciò che le parole esprimono.

“Parole parole” è uno dei grandi successi discografici di Mina. Fu interpretata dalla cantante in coppia con l’attore Alberto Lupo (voce recitante). Un duetto il cui tema è una storia d’amore che si trascina vuota e senza passione, riempita solo da vane parole e lodi melense. Lei reagisce ai futili complimenti dicendo che preferirebbe gesti d’affetto concreti, ma lui rimane sordo e resta in contemplazione della sua amata.

Anche noi, forse, ci troviamo nella stessa condizione della voce narrante. Parole ampollose, assillanti, incongruenti, puerili e distanti dalla propria e altrui realtà, e dal cielo. Prive di concretezza e di quella determinazione tale da permettere allo Spirito Santo di cambiare veramente la nostra vita o di avere la gioia di ascoltare le medesime parole che Dio rivolse a Daniele: “uomo grandemente amato […] io sono venuto a motivo delle tue parole”.

Ho l’impressione che si dia poca importanza al contenuto o al significato delle parole e, per trasposizione, anche al parlare di Dio. La stessa liturgia è sminuita dalla moltitudine di parole che fluiscono non da un cuore consapevole del loro significato, ma da una ritualizzata abitudine (cfr. Pr 29:20; Ec 3:7). In tal senso la parola acquista una valenza negativa anche agli occhi di Dio (cfr. Mt 6:7-8).

Che il nostro “parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come… rispondere a ciascuno” (Cl 4:6). Impariamo a parlare e ad agire «come persone che devono essere giudicate secondo la legge di libertà» (Gm 2:12).

 

 

Daniele in breve. Un uomo molto amato

Daniele in breve. Un uomo molto amato

Francesco Zenzale – “Poi mi disse: ‘Daniele, uomo molto amato, cerca di capire le parole che ti rivolgo, e alzati nel luogo dove stai; perché ora io sono mandato a te’. Quando egli mi disse questo, io mi alzai in piedi, tutto tremante” (Da 10:11).

Una voce familiare saluta Daniele, con parole amorevoli e rasserenanti: “uomo molto amato”, letteralmente “uomo prediletto, di delizie” (in ebraico, ’îsh chamudôth). La stessa espressione con cui Gabriele lo aveva salutato tre anni prima: “Quando hai cominciato a pregare, c’è stata una risposta ed io sono venuto a comunicartela, perché tu sei molto amato. Fa’ dunque attenzione al messaggio e comprendi la visione” (Da 9:23).

Ci sarà sempre qualcosa d’incomprensibile, di misterioso riguardo a Dio: la sua natura, il suo agire e forse anche il modo in cui manifesta il suo amore. Ma quando Gabriele dice a Daniele che “è molto amato”, resta difficile pensare di poter costruire una relazione di fiducia fondata su attributi, definizioni e dottrine.

Sinceramente sapere che “Dio è amore” (1 Gv 4:8) ha un valore relativo se quell’amore non lo si riconosce con il cuore. Il senso di affidamento a Dio va oltre formulazioni verbali, prammatiche e concettuali. Per crescere in fiducia e sicurezza, acquisire coraggio e afferrare quanto si è amati, abbiamo bisogno di ascoltare con il cuore il “ti voglio bene” di Dio, come se fosse pronunciato da una persona cara. Per questo motivo, Dio non lesina di manifestare a Daniele quanto sia presente nel suo cuore. Ed è sorprendente il modo in cui Dio lo manifesta! Nelle seguenti parole possiamo cogliere tutta la tenerezza di Dio (gentilezza, passione, comprensione, sostegno, incoraggiamento): “non temere, o uomo molto amato! La pace sia con te. Coraggio! Sii forte!” (Da 10:19).

“Uomo molto amato”. Parole calde che fanno del bene all’intimo, che sciolgono ogni ostilità o paura di abbandono. Amare e sentirsi amati da Dio è il segreto di una vita spirituale che sgretola ogni formalismo.

Dio non desidera che l’uomo interagisca con lui per enunciazioni, nozioni o per arida ubbidienza, né tanto meno con fastose liturgie, ma perché si sente gradevolmente amato da lui. Dio vuole arricchire il nostro modus vivendi con il suo affetto. È innamorato dell’uomo, e Gabriele è foriero di questo profondo sentimento divino.

Che cosa può significare sentirsi amati da Dio nonostante la sofferenza, la malattia, l’abbandono, l’ingiustizia, le calunnie e la vecchiaia? Quale valore aggiuntivo può acquisire una vita di successo? Io credo che amare e sentirsi amati da Dio elargisca a ogni aspetto del nostro vivere un senso di compiutezza, caratterizzato da un’indefinibile pace interiore e dalla certezza che, alla fine, le lacrime versate nell’otre divino non sono state versate inutilmente (cfr. Sl 56:8). Le ritroveremo mutate in lacrime di eterna letizia.

Signore, io vengo a te come uno che si sente grandemente amato! Consapevole che il mio gracile amore tu lo accogli nella tua comprensione, e sapendo che sgorga da un cuore che non sa più vivere senza sentirsi amato da te (cfr. Sl 139).

 

Daniele in breve. Basta una carezza

Daniele in breve. Basta una carezza

Francesco Zenzale – “Ed ecco, una mano mi toccò e mi fece stare sulle ginocchia e sulle palme delle mani. Poi mi disse: ‘Daniele, uomo molto amato, cerca di capire le parole che ti rivolgo, e àlzati nel luogo dove stai; perché ora io sono mandato a te’. Quando egli mi disse questo, io mi alzai in piedi, tutto tremante” (Da 10:10,11).

La visione è così intensa e sconvolgente che al novantenne Daniele non “rimase più forza; il suo (mio) viso cambiò colore fino a rimanere sfigurato e le forze lo (mi) abbandonarono” e cadde “assopito con la faccia a terra” (Da 10:8,9). Solo il tocco di una mano del cielo lo “fece stare sulle ginocchia e sulle palme delle mani” (vv. 10,11). Anche il novantenne Giovanni cadde come morto ai piedi del figlio dell’uomo, e come per Daniele, Gesù posò su di lui la sua mano destra ed egli rinsavì (Ap 1:17,18). La stessa esperienza è riscontrabile nel profeta Ezechiele dopo la visione della gloria di Dio: “quando la vidi, caddi con la faccia a terra e udii la voce di uno che parlava” (Ez 1:28).

Amo il modo in cui Dio si avvicina all’uomo! Delicato nel parlare e nel sostenere il vecchio Daniele, posando dolcemente la sua mano sulle arcuate spalle. Carezze! Tenerezze mediante le quali Dio trasmette il proprio consenso, la sua amicizia, il suo amore, il suo pensiero e la sua energia vitale. Gesti di riconoscimento che fluiscono dal suo amore in favore dell’uomo debilitato e affranto, offrendogli il diritto di esistere e di interloquire con l’Infinito.

Molti hanno un’idea fuorviante di Dio e ciò a causa dell’ambiente culturale-religioso in cui sono vissuti, dell’educazione ricevuta e in qualche modo dell’iconoclasta. Un Dio assente, austero ed esigente, amante di un’imparzialità giustizialista. Assetato di sacrifici o di spargimento di sangue mediante il quale concede misericordia. Questa è un’immagine proiettiva dell’uomo su Dio, che impoverisce la sua persona e il suo amore, che si esprime con quella tenerezza di cui il credente è manchevole.

Ispirandosi al modo in cui Dio ha cura delle sue creature e in particolare di coloro che lo amano, l’apostolo Paolo invita i credenti a imitarlo. “Siate dunque imitatori di Dio, perché siete figli da lui amati; e camminate nell’amore come anche Cristo vi ha amati e ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio quale profumo di odore soave” (Ef 5:1,2). Nella Lettera ai Romani, rende comprensibile il significato del camminare con lui nelle seguenti parole: “Quanto all’amore fraterno, siate pieni di affetto gli uni per gli altri. Quanto all’onore, fate a gara nel rendervelo reciprocamente […] Non abbiate altro debito con nessuno, se non di amarvi gli uni gli altri; perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge” (Ro 12:10; 13:8).

Scriveva l’autrice E. G. White: “molti considerano l’espressione del loro affetto come una debolezza e mantengono una riservatezza che li allontana dai loro simili. Questo modo di agire impedisce alla simpatia di manifestarsi. Quando si reprimono i propri slanci di affetto e rispetto, si diventa insensibili, e il cuore diventa arido e freddo. Facciamo attenzione a non compiere questo errore. L’amore che non si esprime si affievolisce. Non lasciate soffrire un cuore unito al vostro, trascurando di dimostrargli bontà e affetto”. – Sulle Orme del Gran Medico, Ed. Adv, p. 152.

Le tenerezze, le premure e le attenzioni trasformano un neonato in un fanciullo, un ragazzo in un adolescente, un giovane in un uomo o una donna e i credenti in fratelli e sorelle. Le carezze sono riconoscimenti reciproci che gli uomini e le donne si danno e che determinano la qualità della loro vita, della loro relazione con Dio, con sé medesimi e con gli altri.

Le carezze ci aiutano a dare all’esistenza quell’innocenza tipica di un bambino, quella capacità di sorprendere e di meravigliarci come giustamente Gesù ha ben evidenziato con le seguenti parole: “Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11:25; cfr. 18:10).

 

Daniele in breve. Caddi con la faccia a terra

Daniele in breve. Caddi con la faccia a terra

Francesco Zenzale – “Poi udii il suono delle sue parole, ma appena le udii caddi assopito con la faccia a terra” (Da 10:9).

La visione di Daniele, come anche quella di Ezechiele e di Giovanni, tratteggia la gloria e l’attività di Dio in favore dell’umanità, dei suoi figli e la reazione psico-fisica dei nostri eroi della fede. Daniele cadde “assopito con la faccia a terra”. Ezechiele cadde «con la faccia a terra» (Ez 1:18) e Giovanni cadde «ai suoi piedi come morto» (Ap 1:17)

Non è la prima volta che il novant’enne Daniele è schiacciato dalla presenza di Dio e dal contenuto delle visioni. Nel settimo capitolo del suo libro, il profeta fu “molto spaventato dai miei pensieri e il mio volto cambiò colore” (Da 7:28). Nell’ottavo, crolla “la faccia a terra, profondamente assopito”, per poi svenire e ammalarsi per diversi giorni (Da 8:17-18, 27).

Il modo in cui Daniele, Ezechiele e Giovanni, reagiscono alla presenza della gloria di Dio impone una serena e indicativa riflessione .

Il credente dovrebbe essere pervaso da un sentimento di affettuoso dolore o di commossa e intensa partecipazione nei confronti di chi soffre. Questa evangelica attitudine, dalla quale dovrebbero fluire atti di carità cristiana (cfr. Mt 25:31-46), è inadeguata se la rapportiamo a Gesù. Indubbiamente, le ultime ore della vita di Gesù suscitano un’intesa pietà e chiariscono anche il significato delle seguenti parole: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua” (Lu 9:23); e ancora, “chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo” (Lu 14:27). Ma Gesù non è stato solo un uomo di dolore, familiare con l’umana sofferenza (cfr. Is 53), che ancora oggi suscita un’avvertita e commossa partecipazione. Egli è risuscitato ed è alla destra di Dio. È un essere divino e glorioso!

Ciò significa che nell’indugiare incessantemente sulla croce, avvertendo un sentimento di intensa pietà per la sofferenza di Gesù, potremmo essere accomunati alle pie donne, le quali ricevettero, da colui per il quale erano impietosite, il seguente invito: “Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse: ‘Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli. Perché, ecco, i giorni vengono nei quali si dirà: Beate le sterili, i grembi che non hanno partorito e le mammelle che non hanno allattato’. Allora cominceranno a dire ai monti: ‘Cadeteci addosso’; e ai colli: ‘Copriteci’. Perché se fanno questo al legno verde, che cosa sarà fatto al secco?” (Lu 23:27-30).

Gesù ci invita a non “piangere” per lui, quanto per noi stessi e per i nostri figli o per le future generazioni. Il motivo per cui Gesù percorse quella “dolorosa mulattiera” non aveva nulla a che fare con lui, con la sua natura umana e divina, quanto con la nostra natura fragile e trasgressiva. Qualora dovessimo perdere di vista Cristo, il Redentore, urleremmo ai monti “Cadeteci addosso; e ai colli “Copriteci” (cfr. Ap 6:15-17) nel giorno in cui ritornerà.

Queste parole esprimono il pensiero che oltre al Gesù sofferente e redentore, dovremmo contemplare soprattutto il Gesù glorioso, trionfante. In tal modo, come Daniele, anche noi ci troveremmo, senza paura, “con la faccia a terra” o “ai suoi piedi come morto” e con la consapevolezza che l’attuale corruttibile è indegno e friabile (1 Co 15: 42-45), non è in grado di vivere alla presenza della natura divina e gloriosa di Gesù.

Daniele in breve. Soltanto io

Daniele in breve. Soltanto io

Francesco Zenzale – “Soltanto io, Daniele, vidi la visione; gli uomini che erano con me non la videro, ma un gran terrore piombò su di loro e fuggirono a nascondersi. Io rimasi solo, a contemplare quella grande visione” (Da 10:7-8).

Quella del profeta Daniele è un’esperienza intima e personale, com’era la sua relazione con Dio. Gli uomini che erano con lui, “non la videro”, ma ebbero la percezione che qualcosa di sovrannaturale stesse succedendo, a tal punto che ebbero “un gran terrore” e “fuggirono a nascondersi”. Possiamo cogliere un’esperienza simile nella conversione di Paolo sulla via di Damasco. Il testo dice: “Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce ma non vedendo nessuno” (At 9:3-7 Cei).

Gesù apparve a Daniele come un uomo sovrannaturale, nella sua attività sacerdotale e straordinariamente folgorante. A Paolo si presentò avvolgendolo di una luce accecante e facendo udire sua voce. Ma soltanto Daniele e Paolo videro la visione. L’entourage provò terrore e disorientamento. Una reazione che si colloca nell’ambito dell’umana esistenza e nell’impenetrabilità della teofania (cfr. Nu 12:5-8). Era come se fossero ciechi e sordi. In realtà lo erano in senso figurato, partecipativo e spirituale.

Nel corso degli anni, Daniele aveva imparato a “vedere Dio” e a conoscere la sua voce e la sua volontà. Nel tempo aveva acquisito un profondo senso di abbandono in colui che lo amava, di cui era profondamente compiaciuto (cfr. Da 9:23). Anche Paolo amava il Signore con sincerità. Nel suo intimo, era profonda la percezione di Dio e della sua presenza, ma a causa dell’ambiente religioso in cui era cresciuto, aveva una conce distorta del Messia e della sua volontà. Credeva di essere il guerriero di Dio, di far parte dell’esercito del Signore. Lo era, ma non secondo le intenzioni di Dio. Lo divenne dopo la conversione.

Gli insegnamenti che possiamo trarre da queste due esperienze indicative sono molteplici: fra le tante l’importanza della relazione personale con Dio, che non può essere data o presa in prestito. Ciò significa che gli altri, a causa della loro diversa sensibilità spirituale ed esperienziale, non possono “vedere e udire” o “cogliere e vivere” la nostra intima e segreta relazione con Dio.

Soltanto Daniele e Paolo potevano cogliere la presenza di Gesù. Perché il modo in cui Dio si rivela a una persona è diverso rispetto a un’altra. E questo per un motivo molto semplice: la percezione che uno ha del sacro e l’esperienza di vita sono differenti. Ciò significa che non possiamo testimoniare di un’esperienza vissuta da Paolo, di Daniele o di qualsiasi credente. Semmai possiamo collegarci e trarre delle lezioni, ma ciò non vuol dire che esponiamo il nostro vissuto in Cristo. In altre parole, esporre la Bibbia per argomenti non implica necessariamente uno stile di vita centrato sulla persona del risorto. Gesù congedò l’uomo dal quale erano usciti i demoni, che gli chiese di restare con lui, dicendogli: “Torna a casa tua e racconta quello che Dio ti ha fatto” (Lu 8:38-39 Cei).

Un altro insegnamento riguarda in nostro modo di vivere il sacro e la reazione alla manifestazione di Dio nella nostra vita. Ci vorrebbe un’eloquente dissertazione per esporre questi aspetti. In queste poche parole mi limito a evidenziare che la religiosità è figlia della cultura, del contesto in cui siamo cresciuti ed educati; quindi è contraddistinta dall’espressività liturgica, rituale, formale e non necessariamente spirituale e cristocentrica o evangelica. Questo, chiaramente, definisce la reazione che si potrebbe avere qualora Dio si manifestasse nella nostra vita. Daniele cadde per terra senza forza e sfigurato nel viso (cfr. Da 10:8) e Paolo fu abbagliato dalla presenza di Gesù. All’opposto, i presenti non videro nulla, furono afferrati dal terrore, fuggirono e rimasero impressionati.

Nel giorno in cui Gesù ritornerà in gloria, vi saranno due categorie di persone. I credenti che esulteranno e acclameranno il loro redentore (cfr. Ap 11:17; 19:6-7) e gli empi che diranno “ai monti e alle rocce: ‘Cadeteci addosso, nascondeteci dalla presenza di colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello; perché è venuto il gran giorno della sua ira. Chi può resistere?’” (Ap 6:15-17).

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Daniele in breve. Le motivazioni più che le parole

Daniele in breve. La gloriosa visione di Gesù

Francesco Zenzale – “Il ventiquattresimo giorno del primo mese, mentre mi trovavo sulla sponda del gran fiume, che è il Tigri, alzai gli occhi, guardai, ed ecco un uomo, vestito di lino, che aveva ai fianchi una cintura d’oro di Ufaz. Il suo corpo era come crisolito, la sua faccia splendeva come la folgore, i suoi occhi erano come fuoco fiammeggiante, le sue braccia e i suoi piedi erano come il bronzo splendente e il suono della sua voce era come il rumore d’una moltitudine” (Da 10:4-7).

Nel nono capitolo, la rivelazione si sofferma sul Mashiach Nagîd sofferente che sarà soppresso. Un atto cruento mediante il quale l’unto del Signore ha posto fine al rituale ebraico e avviato il nuovo patto (Da 9:26-27; cfr. Is 53). Si tratta di un’immagine umana, violenta e incompleta del Messia, perché si sofferma sulla prima parte del progetto salvifico. Di fatto manca l’aspetto vincente e glorioso del Messia-Principe: la risurrezione, l’ascensione, l’intronizzazione e la beata speranza del suo ritorno, quando risorgeranno i morti e il regno di Dio trionferà.

Nel decimo capitolo di Daniele evidenzia quest’ultimo aspetto. La visione è sovrannaturale, come è giusto che sia, e illustra il proposito divino relativo al futuro e una realtà diversa dalla nostra: quella celeste. Questa dimensione la si può cogliere per fede e per immagini apocalittiche che raffigurano il movimento di Dio nella realizzazione del suo progetto di redenzione. Ciò significa che il credente è invitato a orientare il pensiero verso il cielo (Cl 3:1-4), cercando di carpire il modo in cui Dio interagisce con il mondo e con i suoi figli, fino a quando colui che è stato assunto in cielo tornerà allo stesso modo in cui è salito (At 1:11).

In questa maestosa e surreale visione, Gesù si presenta come sommo sacerdote. Ciò lo si evince dal fatto che “l’uomo”, chiaro riferimento al figlio dell’uomo del settimo capitolo (Da 7:13), è “vestito di lino” e con una “cintura ai fianchi” (10:5). Questa immagine mobilita la nostra attenzione al Kippur ebraico, al giorno in cui il sommo sacerdote entrava nel santissimo per intercedere in favore del popolo durante la purificazione del santuario, correlativa alla rimozione definitiva dei peccati accumulatisi durante l’anno (cfr. Lv 16:4,23; Es 28:4,5,8). Un rituale tipologicamente ciclico, che rappresentava il tempo in cui Dio inaugurerà il suo regno, ponendo fine allo status attuale di peccato.

L’insieme della visione descritta con eccezionale intensità e luminosità, che descrivere il carattere straordinario di Gesù, non è un prerogativa del libro di Daniele. “Ritroviamo quegli stessi elementi anche in Ezechiele (cap. 1): il lampo (vv. 14,28), il crisolito (v. 26), il rame splendente (vv. 7,27), il fuoco (vv. 13,28), la voce di una moltitudine (v. 24). Ezechiele scrive: ‘Era un’apparizione dell’immagine della gloria del Signore’ (1:28). Una scena simile si trova anche in Apocalisse (cap. 1): il personaggio veste gli abiti del sacerdote, con una cintura d’oro (v. 13); anche in questa descrizione i suoi occhi brillano di fuoco, le sue gambe sono come rame; la sua voce come tuono simile a una folla (v. 15). Il personaggio si identifica con un essere divino: «Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e del soggiorno dei morti» (1:17,18). Il linguaggio evoca chiaramente Gesù Cristo così come viene descritto qualche versetto precedente nello stesso capitolo: «Primogenito dei morti» (v. 5), «alfa e omega» (v. 8)» (Jacques B. Doukhan, I SEGRETI DI DANIELE, Ed. Adv. Firenze 2014, p. 196).

In breve, il Gesù che si presenta ai nostri amici (Daniele, Giovanni e Ezechiele) ci invita a oltrepassare la croce e  la tomba (Pasqua in ebraico Pesah, dal verbo pâsah, che significa “passare oltre”  – Es 12:12,13-23). Il Gesù che noi cerchiamo, che è stato crocifisso e sepolto «è risorto, non è qui», ovvero nel sepolcro (Mc 16:6). Perciò non ha senso cercare «il vivente tra i morti» (Lc 24:5) e indugiare incessantemente sulla croce con angosciosa costernazione. Volgiamo lo sguardo al cielo «dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio» e pensiamo «alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3: 1-2).

Daniele in breve. Cordoglio e senso di responsabilità

Daniele in breve. Cordoglio e senso di responsabilità

Siamo arrivati alla puntata numero 100 della serie “Daniele in breve”. Notizie Avventiste desidera ringraziare il past. Francesco Zenzale per la puntualità e la costanza con cui conduce i lettori alla scoperta del libro biblico di Daniele. Le riflessioni continueranno ancora nelle prossime settimane. (La redazione)

Francesco Zenzale – “In quel tempo, io, Daniele, feci cordoglio per tre settimane intere. Non mangiai nessun cibo prelibato; né carne né vino entrarono nella mia bocca e non mi unsi affatto sino alla fine delle tre settimane” (Da 10: 1-2).

Daniele era un uomo molto sensibile e spesso quando avvertiva che l’opera di Dio non andava bene, o che la comunità deportata era in pericolo, non si lamentava, né inveiva contro nessuno, ma assumeva un comportamento che dovrebbe essere abituale per un credente: dispose se stesso all’ascolto di Dio con maggiore intensità.

Il testo biblico ci informa che il profeta aveva l’abitudine di pregare tre volte al giorno (Da 6:10), nel decimo capitolo, come nel nono, scelse di potenziare la sua comunione con il cielo, facendo cordoglio per tre settimane con un semi-digiuno, nonostante i suoi circa novant’anni.

Il motivo di questo intenso dolore, plausibilmente scaturiva dalle difficoltà attinenti alla costruzione del tempio. Il libro di Esdra ci ragguaglia su un aspro conflitto fra i Giudei rimpatriati e i vicini Samaritani sgorgato dal rifiuto dell’offerta di collaborazione fatta da questi ultimi ai capi dei Giudei (cfr. Ed 4:1-3). A seguito del diniego, il testo ci informa che “la gente del paese si mise a scoraggiare il popolo di Giuda, a molestarlo per impedirgli di fabbricare, e a corrompere dei consiglieri perché facessero fallire il suo piano. Questo durò per tutta la vita di Ciro, re di Persia, e fino al regno di Dario, re di Persia” (Ed 4:4-5).

Indubbiamente le vicissitudini dei reduci erano seguiti con viva partecipazione dagli Ebrei che, per diversi motivi, avevano scelto di rimanere nei luoghi d’esilio. Neemia, nel suo testamento, riferisce che “Anani, un mio fratello e alcuni altri uomini arrivarono da Giuda. Io (Neemia) li interrogai riguardo ai Giudei scampati, superstiti della deportazione, e riguardo a Gerusalemme. E quelli mi risposero: ‘I superstiti della deportazione sono là, nella provincia, in gran miseria e nell’umiliazione; le mura di Gerusalemme restano in rovina e le sue porte sono consumate dal fuoco’” (Ne 4:2-3).

È importante rimarcare che anche Neemia, dopo essere stato informato sulla situazione sopra descritta, assume lo stesso comportamento di Daniele: “Quando udii queste parole, mi misi seduto, piansi, e per molti giorni fui in grande tristezza. Digiunai e pregai davanti al Dio del cielo” (v. 4).

Ciò significa che questi uomini erano profondamente legati a Dio, alla sua opera e al popolo (Chiesa). Spesso siamo soliti dire che l’opera è del Signore. Ciò è vero! Ma se questa affermazione preclude la responsabilità personale e comunitaria, acquista una valenza anaffettiva e deresponsabilizzante.

Quando Gesù dichiara che la sequela implica essere sale della terra e luce del mondo (Mt 5:13-16), esplicita la volontà nel lasciarsi coinvolgere affettivamente, spiritualmente e sensatamente. Neemia non solo pianse e fu in grande tristezza, ma prese anche la decisione di partire per Gerusalemme (Ne 2).

A conclusione della parabola del buon samaritano, Gesù pose la seguente domanda: “Quale di questi tre ti pare essere stato il prossimo di colui che s’imbatté nei ladroni? Quegli rispose: ‘Colui che gli usò misericordia’. Gesù gli disse: ‘Va’, e fa’ anche tu la stessa cosa’” (Lu 10:35-37; cfr. 9:60).

 

Daniele in breve. La parola

Daniele in breve. La parola

Francesco Zenzale – “Il terzo anno di Ciro, re di Persia, fu rivelata una parola a Daniele, chiamato Baltazzar; la parola è vera e predice una grande lotta. Egli fu attento al messaggio e capì il significato della visione” (Da 10:1).

Nella Bibbia e in particolare nei libri profetici, da Isaia a Malachia, il termine “parola” (dabar in ebraico) è intercalato da una serie di efficaci espressioni del tipo: “ascoltate la parola del Signore” (Is 1:10; 28:14; Gr 2:4; Ez 34:7; ecc.); “hanno disprezzato la parola del Santo d’Israele” (Is 5:24; 30:12); “la parola del Signore gli fu rivolta” (Gr 1:2; Ez 6:1; 33:1); “gente, considerate la parola del Signore!» (Gr 2:31).

Il profeta Isaia evidenzia che la “parola del nostro Dio dura per sempre» (Is 40:8), nel senso che i suoi effetti sono eterni. Infatti, la sua parola non torna mai a Dio senza produrre l’effetto dovuto (Is 55: 10-11). Geremia la paragona a un fuoco e a “un martello che spezza il sasso” (Gr 23:29; cfr. Eb 12:29). Il testo introduttivo della nostra riflessione evidenzia che la Parola del Signore “è vera e predice una grande lotta”. Ciò significa che la parola del Signore ha in sé una potenza e un’autorevolezza che nessuno dovrebbe mettere in discussione, perché fluisce da chi è veritiero (Sl 31:5; 86:15; Is 65:16) e onnipotente (Ge 17:1; Nu 24:4; Ap 1:8).

Inoltre, «Dabar» indica un’azione in avanti, una proiezione profetica efficace perché «predice una grande lotta». Ciò indica l’estensione della preconoscenza di Dio, attraverso la parola che coinvolge l’uomo il quale è invitato a capire il «significato della visione». La parola dunque è rivelatrice di fatti, di eventi presenti e futuri che richiedono attenzione, di ascolto e di comprensione (Dn 9:23, 25). «Beato chi legge e beati quelli che ascoltano le parole di questa profezia e fanno tesoro delle cose che vi sono scritte, perché il tempo è vicino!» (Ap 1:3).

Infine, dabar esprime sia la parola in sé sia l’evento che suscita. “Andiamo fino a Betlemme e vediamo ciò che è avvenuto, e che il Signore ci ha fatto sapere” (Lu 2:15), dicono i pastori di Betlemme mentre si dirigono verso la mangiatoia. Dio parla e la sua parola, vivente ed efficace (Eb 4:12), si è fatta carne (Gv 1:14) e pertanto è stato possibile vederla, ascoltarla, contemplarla e toccarla (1 Gv 1:1).

Quando Dio parla, la sua parola infrange il “silenzio”. Il silenzio di Dio è così presente nelle Sacre Scritture tale da suscitare disorientamento (Ac 1:13; cfr. Gr 20:18; 1 S 3:1). Verosimilmente, esso sgorga dal mancato silenzio dell’uomo e pertanto si potrebbe affermare che sia l’uomo a far tacere Dio, perché determinato a non ascoltare. Questo è uno dei motivi per cui, nella Scrittura, troviamo spesso la seguente espressione: “sta’ in silenzio davanti al Signore” (Sl 37:7); “è bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (La 3:26). Oppure, “ascolta, Israele” (De 6:4); “ascolta la parola del Signore” (Is 39:5; Gr 22:2). “Fa’ silenzio e ascolta, Israele!” (De 27:9). “Ogni creatura faccia silenzio in presenza del Signore, perché egli si è destato dalla sua santa dimora” (Za 2:13).

In tal senso, l’ecclesiaste rivolge la seguente esortazione: “Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio e avvicinati per ascoltare, anziché per offrire il sacrificio degli stolti, i quali non sanno neppure che fanno male. Non essere precipitoso nel parlare e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio; perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra; le tue parole siano dunque poche; poiché con le molte occupazioni vengono i sogni, e con le molte parole, i ragionamenti insensati” (Ec 5:1-3).

 

Daniele in breve. Un uomo molto amato

Daniele in breve. Osservazioni generali su Daniele 10 – 12

Francesco Zenzale – “Ascoltate ora le mie parole; se vi è tra di voi qualche profeta, io, il Signore, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sogno” (Nu 12:6).

I capitoli da 10 a 12 di Daniele formano un’unità composta da tre elementi. Il primo elemento è rappresentato dal capitolo 10, che funge da introduzione al capitolo 11. In esso possiamo cogliere una surreale descrizione di Dio e del suo agire in una realtà a noi inaccessibile se non per fede.

Il secondo elemento della visione (da 11:2 a 12:4) riguarda le drammatiche vicende dell’undicesimo capitolo, le quali riproducono, con dovizie di particolari, esperienze già descritte nei capitoli 7 e 8. Diversamente dalle precedenti visioni, i regni-imperi-istituzioni che hanno avuto che fare con il popolo di Dio nel corso della storia, non sono rappresentati mediante metalli, animali feroci e domestici deformati, ma da commistioni e sconvolgimenti politici e militari. Anche in questo capitolo come nell’ottavo, i fatti descritti suscitano nel profeta l’ansiosa domanda: “Quando sarà la fine di queste cose spaventevoli” (Da 12:6; cfr. 8:13). Dio risponde a Daniele, dicendogli: “sono cose che concernono il tempo della fine» (12:4,9; cfr. 8:19).

Il terzo elemento (Da 12:5-13) conclude sia i capitoli 10 e 11, sia il contenuto del libro di Daniele. L’ultima visione è stata accordata a Daniele due anni dopo il ritorno dei giudei da Babilonia. In quest’ultima parte, è saggio rilevare quanto sia importante la nozione del  “tempo della fine”. Le visioni sono nascoste e sigillate perché riguardano il tempo della fine (Da 12: 4, 9). Il quale sarà preceduto dalla comprensione delle profezie in esso contenute (Da 12:4), da un “tempo di angoscia” e dall’intervento di “Michele, il gran capo”, che coinciderà con la resurrezione dei morti e con il giudizio (Da 12:1-3). È sorprendente come il pensiero di Gesù sia in linea con quanto sopra evidenziato. Nel suo discorso profetico, riscontriamo l’invito a prestare attenzione al libro di Daniele (Mt 24:15). E, nel Vangelo di Luca, Gesù fa presente che il suo ritorno sarà preceduto da una serie di eventi che arrecheranno una profonda angoscia (Lu 21).

Questi tempi angosciosi culmineranno col trionfo del regno di Dio e dovrebbero indurci a osservare la nostra esistenza non come un modus vivendi temporaneo e fugace, ma infinito: morte eterna o vita eterna (Da 12:2-3).

Perciò, Gesù ci affida il seguente avvertimento: “State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lu 21:34 36).

“Le cose occulte appartengono al Signore nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre, perché mettiamo in pratica tutte le parole di questa legge” (De 29:28).

 

Daniele in breve. La solitudine di Gesù

Daniele in breve. La solitudine di Gesù

Francesco Zenzale – “Dopo le sessantadue settimane un unto sarà soppresso, nessuno sarà per lui” (Da 9:26).

Nessuno sarà per lui. Triste epilogo di un’esperienza umana contrassegnata da equivoci, incomprensioni, rifiuti, ostilità, imboscate, tradimenti, e altro ancora. Elementi che alla fine hanno avuto il sopravvento: lo hanno soppresso. Nelle ultime ore del suo itinerario, Gesù aveva scelto di percorrere l’esistenza umana lasciandosi inondare dal suo stesso sangue (cfr. Mt 26:42).

Sin dalla nascita si poteva intuire quale sarebbe stato il suo modus vivendi. L’evangelista Giovanni, con il senno di poi, riepiloga il suo dramma umano con le seguenti parole: “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, ma il mondo non l’ha conosciuto. È venuto in casa sua e i suoi non l’hanno ricevuto” (Gv 1:10-11).

Gesù passò dalla solitudine, che sgorgava dal disprezzo, dall’odio dei suoi nemici e dall’incomprensione dei discepoli, all’abbandono. Era indesiderato e disprezzato. Nel Getsemani, “oppresso da tristezza mortale” (Mt 26:38), chiese un gesto di riconoscimento, di accoglienza: “rimanete qui e vegliate con me”, ma quelli si addormentarono (Mt 26:40-45). Non li rimproverò! Gli aguzzini arrivarono e gli apostoli presi dal panico fuggirono (Mr 14:50-52; Mt 26:56): lo lasciarono solo! Solo davanti al sommo sacerdote, a Pilato, a Erode e lungo il sentiero che lo conduceva al supplizio. All’ombra della croce, gli esecutori tiravano a sorte per appropriarsi della tunica (cfr. Gv 19:24); le pie donne, sua madre e il discepolo dell’amore (Giovanni, cfr. Gv 19:26), piangevano nell’incomprensione. Non si rendevano conto che quella morte precedeva la risurrezione e pertanto sarebbe stata l’inizio di una nuova esperienza di vita. La speranza messianica ed escatologica si era concretizzata, la si poteva perfino vedere e toccare.

Etimologicamente il termine “solitudine” rimanda alla parola “separare”, composta da “se” e da “parare”. La prima indica “divisione”, la seconda “parto”. Ciò significa che Gesù sin dall’incarnazione si è separato dal cielo (cfr. Fl 2:5-8), successivamente dal grembo di Maria, poi da coloro che dovevano accoglierlo e dal mondo. Facendosi uomo ha scelto di vivere in un pianeta separato da Dio e dall’universo, accettandone tutte le conseguenze, ma con la sua vita, morte e risurrezione ha posto fine al trauma d’abbandono dell’umanità e a questa terra senza futuro. “Infatti Dio era in Cristo nel riconciliare con sé il mondo, non imputando agli uomini le loro colpe, e ha messo in noi la parola della riconciliazione” (2 Co 5:19).

Nessuno sarà per lui. Neanche noi. Non c’eravamo! Ma se fossimo stati presenti, mi resta difficile pensare che avremmo avuto un atteggiamento diverso da quello dei discepoli, dei farisei o di Pilato. Nella nostra limitatezza, lo avremmo lasciato solo!

Invece, Dio è sempre con noi, come lo è stato con Israele. “Egli lo trovò in una terra deserta, in una solitudine piena d’urli e di desolazione. Lo circondò, ne prese cura, lo custodì come la pupilla dei suoi occhi. Come un’aquila che desta la sua nidiata, volteggia sopra i suoi piccini, spiega le sue ali, li prende e li porta sulle penne” (De 32:10-11).

Pertanto, la nostra condotta non sia dominata dall’amore del denaro, dal disprezzo, dall’indifferenza e dall’ostinatezza. Cerchiamo di essere contenti delle cose che abbiamo; perché Dio stesso ha detto: “Io non ti lascerò e non ti abbandonerò” (Eb 13:5).

 

Daniele in breve. Un uomo molto amato

Daniele in breve. Il dramma d’Israele

Francesco Zenzale – “Il popolo d’un capo che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine verrà come un’inondazione ed è decretato che vi saranno devastazioni sino alla fine della guerra” (Da 9:26).

Tre sono gli aspetti inerenti alla fine che “verrà come un’inondazione”: la distruzione del tempio e di Gerusalemme, la fine del valore simbolico del rituale e l’eclissi d’Israele come popolo eletto.

La fine del sistema cultuale è da ascrivere a Cristo il quale, mediante la sua morte e resurrezione, ha posto fine a tutto ciò che lo rappresentava. In questo l’autore della Lettera agli Ebrei è molto esplicito. Con il suo stile letterario antitetico, cerca di far comprendere ai destinatari che la loro posizione teologica nei confronti dell’antico patto, caratterizzata dai “primi elementi degli oracoli di Dio” o da una rivelazione parziale e transitoria della salvezza, non era in armonia con l’evento conclusivo della rivelazione di Dio (Eb 1:1-2), di cui il santuario è il modello per eccellenza e del quale gli interlocutori avrebbero dovuto essere già maestri (Eb 5:12-14; Eb 10).

La fine dell’elezione è da attribuire a Israele, alla reticenza nel rifiutare il Messia, facendosi promotore della sua morte (At 3:15; 13:28). Non aveva fatto tesoro dei 490 anni che Dio aveva messo a disposizione, né tratto qualche lezione dal passato. L’espressione “popolo dal collo duro” (Es 32:9; 33:3; 34:9; De 9:6), in parallelo con l’acuta frase: “Egli fece ciò che è male agli occhi del Signore” (1Re 15:26; 15:34; 16:25; 2 Re 3:2; 13:2), rivelano quanto l’ostilità abbia caratterizzato la storia di questo popolo, al punto che la sua elezione, come anche la sua stessa esistenza sia sempre stata legata alla fedeltà e alla misericordia di Dio (La 3:22-23).

Si racconta che la storia è maestra. È vero! Ma solo se si è disposti a imparare prima di tutto dagli errori. Israele del nord era scomparso dalla faccia della terra a causa delle sue trasgressioni e per opera di Tiglat-Pileser, re di Assira, nel 750 circa a.C. (2 R 17:1 e segg.; 1 Cr 5:6, 26). Il regno del sud (Giuda e Beniamino), consapevole di questo disastro politico-nazionale-spirituale, non ha saputo trarre alcuna lezione. Al contrario, nonostante gli appelli dei profeti (Isaia, Geremia, ecc.), si era rivelato più perfido (Gr 3) e pertanto i settant’anni di deportazione a Babilonia risultavano inevitabili (Gr. 25). Ma Dio, che sbalordisce per misericordia e fedeltà al patto, aveva concesso 490 anni per prepararsi all’evento unico e decisivo della storia dell’umanità e al ruolo che avrebbe avuto nel nuovo patto. Ma il fallimento è stato totale! Solo il resto si era salvato (Ro 9:27; 11:5): Giovanni il Battista, Simeone, Anna (Lu 2), Nicodemo, Zaccheo, gli apostoli e tanti altri.

La distruzione del tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C, per opera dell’esercito romano, il «devastatore» (Da 9:27), è da imputare ai movimenti integralisti (Farisei, Zeloti), in opposizione al dominio romano. La devastazione di Gerusalemme e del tempio, ad opera di Tito. è un avvenimento dalle conseguenze storiche significative. Nell’ambito religioso segna il distacco definitivo del cristianesimo dall’ebraismo. In quello politico, la dispersione della nazione ebraica, nell’Impero romano e fuori di esso, diede inizio a quelle vicende che si sono prolungate fino a oggi, come dimostrano anche i fatti della Palestina di questi ultimi anni (De 28:66; Mt 23:37; 24:1-2).

La drammatica storia di questo popolo, il suo oscillante rapporto con Dio naufragato nella morte del Messia che ha posto fine alla relazione elettiva, ci porta a pensare che l’uomo possa indurre Dio a dire basta e a cambiare strategia. Questo insegnamento è debitamente presente nell’Apocalisse: nelle sette lettere dal valore storico-profetico, nei capitoli 2 e 3, il Signore invita la chiesa al ravvedimento, a porre fine al peccato e al compromesso (Ap 2:5, 16, 21; 3:3, 19), “altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi” (Ap 3:5).

Nella lettera a Laodicea, che profeticamente rappresenta la chiesa del tempo che precede il ritorno di Cristo, oltre all’invito al ravvedimento, cogliamo una descrizione del modus vivendi da cui potrebbe sgorgare una reazione di repulsione: “Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca” (vv. 15-16).

Ciò significa che anche noi possiamo vivere la stessa esperienza del popolo eletto. Pertanto, il Signore rivolge il seguente invito: “Mostrati dunque zelante e ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (vv. 19-20).

 

Daniele in breve. Soltanto io

Daniele in breve. Antico e nuovo patto

Francesco Zenzale – “Egli stabilirà un patto con molti, per una settimana; in mezzo alla settimana farà cessare sacrificio e offerta” (Da 9:27).

La morte del Messia segna la fine dell’antica alleanza e l’inizio di un nuovo patto. Con esso si compie la promessa fatta ad Abramo: “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce» (Ge 22:18). Infatti, la nuova alleanza non è stata affidata a nessun popolo particolare o confessione religiosa. Ogni essere umano può redigere la sua alleanza con Dio a titolo personale: “Se siete di Cristo, siete dunque discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Ga 3:29).

Riguardo al vecchio patto, l’autore della Lettera agli Ebrei evidenzia che era difettoso (Eb 8:6-7; 7:22). I motivi fondamentali della sua incompiutezza sono diversi:
– Perché era stato redatto con norme di culto tipiche del contesto religioso e culturale del tempo. Anche i pagani offrivano sacrifici cruenti di animali.
– Il complesso cultuale ebraico che si svolgeva nel santuario prefigurava ciò che il Messia ha realizzato con la sua morte e risurrezione (Eb 8 e 9). In altre parole, il rituale del santuario, centro del patto sinaitico (Eb 9:1), annunciava già, con il suo carattere provvisorio (Eb 8:13), che la soluzione definitiva al problema del peccato doveva venire da Dio (Eb 9:15), l’unico ad essere in grado di risolverlo.
– In un contesto di infedeltà verso Dio, in cui Israele era sul punto di scomparire, invaso da eserciti stranieri, il profeta Geremia annuncia la nuova alleanza dal carattere definitivo (Gr 31: 31-34; cfr. Eb 8:6-13; Ez 36:24-28).
– L’antico patto, a causa della perfidia del popolo eletto, poteva essere annullato in qualsiasi momento (Gr 11: 8-10; 14:21; Os 6:7; 8:1). Se ciò non è avvenuto, è in virtù della promessa fatta ad Abramo e a Davide (Ge 22.18; 2 Cr 21:6-7), della misericordia di Dio e della sua volontà nel portare a compimento le promesse in esso contenute. “Anche se i monti si allontanassero e i colli fossero rimossi, l’amore mio non si allontanerà da te, né il mio patto di pace sarà rimosso, dice il Signore, che ha pietà di te” (Is 54:10).

Gesù, durante l’ultima cena, era ben consapevole che il primo patto stava per esaurire la sua funzione pedagogico-spirituale e che una seconda alleanza sarebbe stata inaugurata con la sua morte: “Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, che è versato per voi” (Lc 22:20; cfr. Mt 26:28; Mr 14:24; 1 Co 11:25). Nella Seconda lettera ai Corinzi, Paolo fa presente che gli israeliti, a causa della loro ostinatezza, non riescono a capire che in Cristo l’antico patto è stato abolito (2 Co 3:14).

La morte cruenta del Mashiach Nagîd, avvenuta “in mezzo alla settimana” d’anni, vale a dire nella Pasqua dell’anno 31 d.C., segnò la fine del suo ministero messianico, il compimento del complesso sacrificale, fondamento liturgico dell’antica alleanza (Gv 1:19). Quest’ultimo aspetto è stato sugellato da un segno inequivocabile: il “lacerarsi in due da cima a fondo” della “cortina del tempio” tra il “santo” e il “santissimo” nell’istante in cui Gesù Cristo “rese lo spirito” (Mt 27:50-51).

È interessante evidenziare che anche la nuova alleanza è stata convalidata con un segno opposto rispetto al precedente, che sanciva la fine di un sistema religioso. La cortina del tempio che si squarcia in due indica rottura con il passato e con la morte, così presente in ogni sacrificio cruento e incruento, a tal punto che era quasi impossibile cogliere la misericordia di Dio in termini di risurrezione, con la quale il nuovo patto è stato sigillato. Prima ancora che Gesù tornasse in vita, il testo biblico ci informa che “le tombe s’aprirono e molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono; e, usciti dai sepolcri, dopo la risurrezione di lui, entrarono nella città santa e apparvero a molti” (Mt 27:52:53). Ciò significa che dalla morte di Cristo fluisce concretamente la vita. Pertanto, la morte è stata definitivamente sommersa nella vittoria (1 Co 15:5-55).

Concludiamo questo breve excursus evidenziando che entrambe le alleanze, benché siano state stipulate da Dio, e quindi dal valore eterno riguardo alle promesse in essi contenute, hanno un comune denominatore: il contraente. L’uomo, la sua fragilità e la sua libertà di muoversi nell’ambito della misericordia di Dio, oppure di deambulare fuori di essa. In altre parole, gli esiti eterni di una vita vissuta nel peccato (Ro 5:12) dipendono da noi. “Io prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua discendenza”» (De 30:19).

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