Francesco Zenzale – “Il popolo d’un capo che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine verrà come un’inondazione ed è decretato che vi saranno devastazioni sino alla fine della guerra” (Da 9:26).

Tre sono gli aspetti inerenti alla fine che “verrà come un’inondazione”: la distruzione del tempio e di Gerusalemme, la fine del valore simbolico del rituale e l’eclissi d’Israele come popolo eletto.

La fine del sistema cultuale è da ascrivere a Cristo il quale, mediante la sua morte e resurrezione, ha posto fine a tutto ciò che lo rappresentava. In questo l’autore della Lettera agli Ebrei è molto esplicito. Con il suo stile letterario antitetico, cerca di far comprendere ai destinatari che la loro posizione teologica nei confronti dell’antico patto, caratterizzata dai “primi elementi degli oracoli di Dio” o da una rivelazione parziale e transitoria della salvezza, non era in armonia con l’evento conclusivo della rivelazione di Dio (Eb 1:1-2), di cui il santuario è il modello per eccellenza e del quale gli interlocutori avrebbero dovuto essere già maestri (Eb 5:12-14; Eb 10).

La fine dell’elezione è da attribuire a Israele, alla reticenza nel rifiutare il Messia, facendosi promotore della sua morte (At 3:15; 13:28). Non aveva fatto tesoro dei 490 anni che Dio aveva messo a disposizione, né tratto qualche lezione dal passato. L’espressione “popolo dal collo duro” (Es 32:9; 33:3; 34:9; De 9:6), in parallelo con l’acuta frase: “Egli fece ciò che è male agli occhi del Signore” (1Re 15:26; 15:34; 16:25; 2 Re 3:2; 13:2), rivelano quanto l’ostilità abbia caratterizzato la storia di questo popolo, al punto che la sua elezione, come anche la sua stessa esistenza sia sempre stata legata alla fedeltà e alla misericordia di Dio (La 3:22-23).

Si racconta che la storia è maestra. È vero! Ma solo se si è disposti a imparare prima di tutto dagli errori. Israele del nord era scomparso dalla faccia della terra a causa delle sue trasgressioni e per opera di Tiglat-Pileser, re di Assira, nel 750 circa a.C. (2 R 17:1 e segg.; 1 Cr 5:6, 26). Il regno del sud (Giuda e Beniamino), consapevole di questo disastro politico-nazionale-spirituale, non ha saputo trarre alcuna lezione. Al contrario, nonostante gli appelli dei profeti (Isaia, Geremia, ecc.), si era rivelato più perfido (Gr 3) e pertanto i settant’anni di deportazione a Babilonia risultavano inevitabili (Gr. 25). Ma Dio, che sbalordisce per misericordia e fedeltà al patto, aveva concesso 490 anni per prepararsi all’evento unico e decisivo della storia dell’umanità e al ruolo che avrebbe avuto nel nuovo patto. Ma il fallimento è stato totale! Solo il resto si era salvato (Ro 9:27; 11:5): Giovanni il Battista, Simeone, Anna (Lu 2), Nicodemo, Zaccheo, gli apostoli e tanti altri.

La distruzione del tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C, per opera dell’esercito romano, il «devastatore» (Da 9:27), è da imputare ai movimenti integralisti (Farisei, Zeloti), in opposizione al dominio romano. La devastazione di Gerusalemme e del tempio, ad opera di Tito. è un avvenimento dalle conseguenze storiche significative. Nell’ambito religioso segna il distacco definitivo del cristianesimo dall’ebraismo. In quello politico, la dispersione della nazione ebraica, nell’Impero romano e fuori di esso, diede inizio a quelle vicende che si sono prolungate fino a oggi, come dimostrano anche i fatti della Palestina di questi ultimi anni (De 28:66; Mt 23:37; 24:1-2).

La drammatica storia di questo popolo, il suo oscillante rapporto con Dio naufragato nella morte del Messia che ha posto fine alla relazione elettiva, ci porta a pensare che l’uomo possa indurre Dio a dire basta e a cambiare strategia. Questo insegnamento è debitamente presente nell’Apocalisse: nelle sette lettere dal valore storico-profetico, nei capitoli 2 e 3, il Signore invita la chiesa al ravvedimento, a porre fine al peccato e al compromesso (Ap 2:5, 16, 21; 3:3, 19), “altrimenti verrò presto da te e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se non ti ravvedi” (Ap 3:5).

Nella lettera a Laodicea, che profeticamente rappresenta la chiesa del tempo che precede il ritorno di Cristo, oltre all’invito al ravvedimento, cogliamo una descrizione del modus vivendi da cui potrebbe sgorgare una reazione di repulsione: “Io conosco le tue opere: tu non sei né freddo né fervente. Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca” (vv. 15-16).

Ciò significa che anche noi possiamo vivere la stessa esperienza del popolo eletto. Pertanto, il Signore rivolge il seguente invito: “Mostrati dunque zelante e ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (vv. 19-20).

 

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