Cosa ci insegna fin qui la guerra di Putin (e di Kirill)
9 Marzo 2022

Davide Romano – Bisogna riprenderlo in mano, di questi tempi, quel meraviglioso saggio di James Hillman tradotto da Adelphi nel 2005,[1] e riscoprire ancora una volta quanto ancestrale e radicato sia nel cuore delle nazioni, nel cuore delle religioni e nel cuore dei singoli un terribile e inesausto amore per la guerra.

Tra i tanti meriti di quel saggio c’è anche quello di ricordarci le considerazioni amare di un anziano Robert McNamara, ex segretario alla difesa degli Stati Uniti al tempo di J. F. Kennedy e L. B. Johnson, che nel 2003 parlò della guerra in Vietnam come del risultato di un colossale difetto di immaginazione. Il medesimo difetto di immaginazione che oggi, aggiungo io, rischiamo di ripetere senza peraltro essere sicuri di conoscere quali siano le opzioni in campo per evitarlo. Intendo dire che nella situazione attuale ogni generica invocazione della pace risulta, nella sua assoluta giustezza, assolutamente equivoca al tempo stesso.

Se l’aggressore dell’Ucraina annuncia di voler “denazificare”, “demilitarizzare” e “neutralizzare” quel Paese, qualunque cosa vogliano dire questi termini sufficientemente inquietanti, non si può rispondere invocando la pace in termini generici, ma creando le condizioni affinché questo “vasto programma”, come avrebbe detto De Gaulle, non venga attuato e affinché il popolo ucraino non venga annientato o privato della sua legittima aspirazione ad autodeterminarsi.

Bisogna preparare la pace con il dialogo, con il confronto, con le reciproche concessioni e rivelando le proprie legittime paure, ma anche, quando è indispensabile, con la forza e la tenacia di chi non intende sdoganare la sopraffazione come metodo di ridefinizione dei propri confini e di soddisfazione delle proprie smanie imperiali.

Non so se la citazione di Churchill sia autentica, ma certamente è vera: “non puoi ragionare con la tigre quando hai la testa nella sua bocca”. Nel punto in cui siamo giunti, e con tutte le incognite che gravano su questo momento storico, si possono e si devono fare alcune considerazioni, a mio giudizio necessarie, anche se da tenere sullo sfondo.

La prima considerazione concerne le religioni coinvolte nel conflitto. In questa vicenda tra Russia e Ucraina le religioni hanno delle responsabilità e i loro rapporti non sono del tutto ininfluenti in ordine alla crisi in atto. I due maggiori patriarcati ortodossi al mondo, ovvero quello di Mosca, che da solo annovera circa il 60% dell’ortodossia mondiale e quello greco di Costantinopoli, di antichissima tradizione e che vanta un primato d’onore, si sono reciprocamente accusati e scomunicati, in territorio ucraino, a causa del recente (2018) riconoscimento da parte di quest’ultimo della agognata autocefalia del patriarcato di Kiev, che lo rende finalmente del tutto indipendente dall’orbita di Mosca.

Per quanto anticamente la Chiesa ortodossa russa sia nata proprio a Kiev, e per quanto la separazione di Kiev dal patriarcato di Mosca rechi con sé conseguenze significative – anche se rimane una piccola costola dell’Ortodossia ucraina fedele a Mosca – non si capisce il perché la chiesa ortodossa in Ucraina non possa legittimamente aspirare ad avere una sua sede ecclesiastica autonoma da Mosca senza che il patriarca di quest’ultima, Kirill, giudichi questo un tradimento degno della scomunica.

Ma questa aspra contesa ortodossa, da Kirill considerata un vero e proprio scisma, ha nutrito il progetto putiniano di reconquista dell’Ucraina?

Fino a qualche giorno fa era possibile supporlo, ma domenica scorsa il venerabile patriarca di tutte le Russie, fin qui piuttosto taciturno o generico sulla invasione dell’Ucraina, ha finalmente esternato un pensiero ben congeniato, per così dire, sulla sua visione dell’attuale conflitto, e ha affermato che da otto anni il popolo russo del Donbass sarebbe vessato a causa della sua resistenza ai valori occidentali salvo aggiungere in conseguenza di ciò che: “oggi esiste un test per la lealtà a questo governo, una specie di passaggio a quel mondo ‘felice’, il mondo del consumismo eccessivo, il mondo della ‘libertà’ visibile. Sapete cos’è questo test? È molto semplice e allo stesso tempo terribile: è una parata gay. Le richieste a molti di organizzare una parata gay sono una prova di lealtà a quel mondo molto potente; e sappiamo che se le persone o i Paesi rifiutano queste richieste, allora non entrano in quel mondo, ne diventano estranei”.

Ecco finalmente gettata la maschera. Nel momento in cui donne e bambini scappano dall’Ucraina e muoiono per le strade sotto i bombardamenti russi, il venerabile patriarca Kirill giustifica l’esigenza della guerra per scongiurare un pericolo più grande: la libertà eccessiva e le parate dei gay. In effetti… Suvvia come dargli torto? Cosa c’è di più terribile della libertà eccessiva e scollacciata dell’occidente, del suo consumismo compulsivo e del diritto a manifestare pubblicamente il proprio orientamento sessuale?

Se solo avessimo potuto spiegare tutto questo a Polina e suo fratello Semyon di 10 e 5 anni, morti sotto i colpi delle squadre speciali dei sabotatori russi, lo avrebbero capito subito e avrebbero accettato di buon grado di immolarsi per una causa così alta e così santa.

Anche un patriarca, come vedete, è capace di manifestare una simile angustia mentale e un terribile squallore spirituale da non avere pari.

I patriarchi scandalizzati dalla libertà, da una libertà eccessiva e visibile, sono scandalizzati da Cristo, quindi è giusto che scelgano di seguire Putin. Un uomo della provvidenza. Un Messia imperiale.

Dopotutto già nel mese di febbraio il metropolita Hilarion Alfeyev, presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, aveva orgogliosamente affermato al cospetto di Putin che il suo dicastero si sentiva incaricato di difendere i sacri confini della nazione ortodossa.

Ma c’è una seconda considerazione che vorrei fare ed è che le democrazie liberali sono un bene prezioso che non possiamo perdere e che l’Unione Europea (Ue) e il tanto detestato Occidente può candidarsi a rappresentare sempre di più, malgrado alcuni pessimi esempi interni. Per carità, attendiamo il regno di Dio e non ci facciamo troppe illusioni. Ma nel frattempo, nel tempo penultimo della storia, nel governo della contingenza, meglio trovarsi in un posto in cui la parola “libertà”, per abusata e corrotta che sia, non genera reazioni belliche e caustiche campagne moralizzatrici.

Un effetto collaterale di questa guerra, curioso ma non troppo, è peraltro quello di accreditare tra i possibili mediatori di soluzioni pacifiche, leader di Nazioni che hanno un curriculum politico, recente o risalente, di stampo decisamente autoritario, il che complicherà inevitabilmente il processo di sensibilizzazione internazionale necessario al ripristino delle libertà minime per quei popoli e quelle minoranze che oggi vivono in condizioni di estrema precarietà in ordine alle garanzie civili e democratiche.

Lo stato di salute delle democrazie liberali è sempre più cagionevole. Il secondo decennio del nostro secolo ha infatti decretato la messa in stato d’accusa della democrazia liberale, anche in Paesi dell’Ue come la Polonia e l’Ungheria. Il leader di quest’ultima, Viktor Orban, ha com’è noto teorizzato una democrazia illiberale, e l’assalto al Congresso degli Stati Uniti delle orde trumpiane sono un pessimo segno premonitore.

Il ritorno a forme di nativismo e di razzismo nei confronti delle minoranze, il nazionalismo in chiave religiosa, l’attacco politico ai poteri costituzionali neutri – come è accaduto in Polonia con la Corte Costituzionale ad opera del partito di governo Diritto e Giustizia – la sistematica repressione degli organi di informazione liberi sono un bruttissimo segnale di quanto torbide siano le acque nelle quali navighiamo, specie uscendo dalla recente condizione pandemica.

Infine, come non notare l’errore dell’attuale pontificato di papa Bergoglio che, pur avendo provato a contrastare robustamente alcune retoriche xenofobe in Italia e in Europa, ha al tempo stesso, per altra via, contribuito ad accreditare sul palcoscenico internazionale leader la cui efferatezza era già nota, come Vladimir Putin, probabilmente in funzione antiliberale e antiamericana?

Si pensi al magnifico assist fornito dalla Santa sede a Putin sulla gestione dell’annosa crisi siriana, che è risultato molto fruttuoso poi per la Russia e per il regime di Bashar el Assad.

Il papa ha incontrato in questi anni il Presidente russo per ben tre volte e con incontri significativamente lunghi, segno di interessi geopolitici convergenti e forse anche di qualche simpatia di troppo di cui forse adesso la diplomazia vaticana sta cercando faticosamente di trarsi di impaccio attraverso uno strenuo tentativo di mediazione.

Tutto questo dovrebbe insegnare alle chiese che il contatto prolungato con le autocrazie illiberali non è mai foriero di promettenti sviluppi. I regimi illiberali lucrano sulle religioni sempre molto di più dei presunti vantaggi che queste ultime, ingenuamente e colpevolmente, cercano di ottenere da tali discutibili frequentazioni.

Bisogna riprenderlo in mano, di questi tempi, quel bellissimo e struggente pamphlet di Svetlana Aleksievic, Perché sono discesa all’inferno?, per capire ancora meglio in che grosso guaio ci siamo cacciati.

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Nota 
[1] J. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, 2005.

 

 

 

 

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