"Sono forzatamente ospite delle patrie galere da quasi un anno e mezzo. Ho 57 anni, due figli, di 26 e 30, che vivono a Milano. Esercito la professione di ragioniere commercialista e revisore legale da oltre 35 anni e – pur lavorando con imprese di tutta Italia – non ho mai abbandonato la mia Palermo. Da libero osservatore privilegiato di un mondo a me sconosciuto fino a ieri, mi rendo conto di quanto siano distanti le carceri dai pensieri dei cittadini liberi. Sin dalle prime settimane della mia detenzione ho scoperto di avere un «lato onlus»: mi impegno quotidianamente per supportare i compagni di sventura in svariate attività ove è necessaria una minima conoscenza giuridica di base, che possiedo, e che metto a disposizione degli altri: una differenza che non trasformo in indif­ferenza, cosa purtroppo molto dif­fusa.In futuro mi farò promotore di un soggetto non profit che avrà come scopo principale la dif­fusione della conoscenza del mondo delle carceri, dove la funzione rieducativa dovrebbe avere più spazio. Grazie al carcere quindi ho conosciuto – a ben 57 anni, non è mai troppo tardi – un nuovo spazio di me stesso: aiutare gli altri. Ho anche avuto la possibilità di conoscere le attività del Terzo settore per il mondo penitenziario: ammirevole il quotidiano impegno degli operatori delle organizzazioni che si dedicano, tra mille ostacoli, a un mondo costruito dalla fragilità".

Questo è l’inizio di una lettera che Ludovico Collo ha inviato dal carcere di Caltanissetta al Corriere della Sera e che è stata pubblicata il 5 dicembre scorso. Questa testimonianza ci offre la possibilità di interrogarci con Giuseppe La Pietra sul senso della detenzione e sulla possibilità di riscatto umano all’interno del carcere. Giuseppe La Pietra è coordinatore delle attività formative in carcere dell’ente di formazione Cefal-Emilia Romagna  e membro del coordinamento della pastorale carceraria della Diocesi di Parma

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