Caro Messaggero,

il bell’articolo di Raffaele Battista circa la possibilità per coppie omossessuali di adottare un bambino ha suscitato in me dapprima approvazione piena, con il passare del tempo sono affiorate alcune riflessioni che mi piacerebbe condividere con i lettori.

Affrontare una tematica dal punto di vista ideale è doveroso, ma tutti noi sappiamo che i problemi non si risolvono solo con le riflessioni generali, per quanto acute e ben formulate possano essere. La vita ci insegna che spesso è necessario scendere a patti. L’ideale rimane distante, all’orizzonte.

Che sia giusto che tutti gli esseri umani mangino tre volte al giorno chi potrebbe negarlo, tendere verso il soddisfacimento globale è una sfida che deve coinvolgerci ma ci accontenteremmo, in una tappa parziale, che almeno la maggioranza di coloro che muoiono di fame possa sfamarsi comunque una volta al giorno (mentre noi che ragioniamo comodi sul divano continuiamo a lottare contro l’obesità).

Che sia equo che ogni individuo abiti in una casa confortevole chi lo metterebbe mai in discussione? Dopo una calamità o un terremoto, l’offerta di una tenda o di un container (pur non essendo in sé luoghi dignitosi) è sempre meglio che dormire all’addiaccio.

E così via, la fantasia nera non credo manchi a nessuno.

E allora, sul tema risolto da Hollande e sollevato da Raffaele: è preferibile un anonimo orfanotrofio a una famiglia, pur non ideale, che ama a modo suo? La strada, gli stenti e l’autogestione, sono forse la condizione ideale per una giovane vita che si affaccia all’esistenza?

Ma ancora: sfiora forse l’ideale una vita asettica, chiusa in un cubicolo di cemento armato, accompagnata dalla pervasiva presenza della tecnologia, per un bambino ricco, occidentale, i cui genitori etero lavorano tutto il santo giorno fuori casa per il necessario e il superfluo?

Rasenta forse l’ideale un’educazione parentale mononucleare, di stampo occidentale, senza che vi sia alcun allargamento alla famiglia più ampia (così come accadeva nella cultura rurale)? È più vicina all’ideale una famiglia etero nella quale non esiste l’armonia, dove la violenza regna indiscussa? Arrivando frettolosamente alla somma totale: è davvero così più pericolosa una formazione ai sentimenti svolta all’interno di una coppia omosessuale, rispetto non all’ideale genesiaco, ma alla cruda e nuda realtà così diffusa?

Il tema del «matri-monio» affrontato da Raffaele mi è parso senz’altro il più cogente per difendere la tesi dell’indiscutibile naturalità etero. Ma anche qui, si scusi l’enormità, mi pare possa trovare posto una verosimile disquisizione sull’impossibilità di esaurire il ruolo materno al semplice dato biologico. È davvero ‘madre’ colei che abbandona il figlio ancora avvolto nel cordone ombelicale in un cassonetto? Davanti a un monastero, a un convento? Nella toilette di un supermercato? Sul punto bisognerebbe probabilmente allargare e affrontare quali siano le ragioni di tale abbandono, le responsabilità di una società matrigna… ma la domanda che precede rimane comunque.

Da un punto di vista biologico, fisiologico, della tradizione umana e cristiana, la forza delle tesi di Raffaele è indiscutibile, inattaccabile. Da altri punti di vista, più terra terra se vogliamo, paiono scricchiolare, almeno un pochino.

Non si può che essere d’accordo sull’ideale, la realtà però è più complessa e a volte anche quello che pare un bene minore può essere considerato un diritto pieno, soprattutto per l’inerme sofferente.

Davide Mozzato, direttore del Campo Centro

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