brexit-1Riflessioni a partire dal referendum sul BREXIT

Davide Romano – Gli inglesi sono un popolo strano e affascinante. Vengono da un passato glorioso. Non hanno mai digerito la perdite delle colonie d’oltreoceano e hanno dovuto subire, come una specie di nemesi storica, la progressiva egemonia culturale economica e militare di queste ultime, con complessi notevoli e un’autostima sempre fragile di fronte ai vecchi cugini americani dirimpettai.

L’Unione Europea non fu mai per gli inglesi un “pensiero stupendo”, per citare Patty Pravo, salvo forse nella fase iniziale, ovvero nell’immediato dopoguerra, quando lo stesso Winston Churchill diede un considerevole impulso alla creazione di quelli che chiamava “Stati uniti d’Europa”, come rimedio al virus dei nazionalismi guerrafondai. Ma già qualche decennio dopo gli inglesi non vollero aderire alla CECA, preferendole un’area di libero scambio più ampia e meno vincolante. Progetto poi miseramente naufragato. In tempi più recenti hanno robustamente fornito ottimi burocrati alla UE, ma sempre come inossidabili difensori degli interessi inglesi.

Come evolverà la questione del referendum (sul cosiddetto BREXIT), basterà attendere giugno per vederlo, ma difficilmente, a parere di chi scrive, malgrado un certo radicalismo anche emotivo che attraversa molti strati – specie quelli di età più elevata – della società britannica, l’Inghilterra deciderà davvero di uscire dalla UE. Rischierebbe oltretutto nuovi problemi interni con la Scozia, che in Europa vuole tenacemente restarci, ed economicamente – a detta di molti esperti – sarebbe tutt’altro che una mossa promettente.

Ma approfittiamo della questione del referendum inglese per suggerire una brevissima riflessione sulla necessità che l’Europa rimanga, con o senza l’Inghilterra, unita e il più possibile coesa, attraverso l’implementazione di meccanismi federali: non solo per le comuni ragioni politiche, economiche, strategiche, che generalmente vengono rassegnate dagli europeisti, ma anche per assicurare una maggiore tutela della libertà religiosa.

In un tempo in cui in Europa si assiste all’inopinato e sinistro risorgere di muri e toni razzisti, e derive autoritarie si ripresentano in veste post-ideologica ma pur sempre temibile, come accade in Ungheria e in Polonia, con grande nocumento per le libertà civili e religiose, solo l’Unione Europea può fornire un quadro sovranazionale di contenimento e temperamento politico, per quanto ancora farraginoso, di simili spinte.

Gli strumenti giuridici, ideologici e politici sono infatti già stati in misura adeguata predisposti. Non ci riferiamo soltanto alla Carta dei diritti fondamentali, che all’art. 10 stabilisce ad esempio che:

“Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.

Ma il successivo Trattato di Lisbona del 2007 (art. 17), il susseguente documento chiamato Strategic Framework and Action Plan on Human Rights and Democracy (2012),attraverso il quale l’UE identifica le priorità nel campo della salvaguardia dei diritti umani e democratici come bussola di orientamento della propria politica estera, e altresì le Linee guida sulla Promozione e Protezione della libertà religiosa e di fede (2013), fanno dell’Europa, almeno teoricamente, un indispensabile garante capace di intervenire sulle dinamiche di compressione dei diritti nei suoi paesi membri.

Chi volesse dunque sbrigativamente e un po’ cinicamente dichiarare il fallimento dell’Unione Europea, sottolineandone, anche a ragione, i difetti e l’eccessiva logica burocratica, faccia attenzione a non compiere il gesto sconsiderato di chi, ancora una volta, come si dice, pensa di buttar via l’acqua sporca, sbarazzandosi anche del bambino.

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