Joseph SarkodiePubblichiamo un sermone ricevuto da Joseph Sarkodie che è stato pastore nella chiesa cristiana avventista ghaneana di Castel Volturno. Ora studia nel seminario teologico della Andrews University, negli Stati Uniti, dove conseguirà la laurea a maggio di quest’anno.

Joseph Sarkodie – Matteo 18:21-35.

Il cartello di un parcheggio di una chiesa, in una zona molto trafficata del centro, avvertiva: «Vi perdoniamo, ma faremo anche portare via la vostra macchina».

Non c’è niente di più difficile del perdono sincero e non c’è niente di più comune del risentimento prolungato, e della riluttanza a perdonare. Una delle cose più difficili nella vita è perdonare una persona che che ci ha fatto un torto. Una volta, il teologo e apologeta cristiano C. S. Lewis ha detto:«Tutti diciamo che il perdono è una bella cosa… finché chi deve perdonare siamo noi».

Nonostante tutto, come credenti e cristiani, siamo chiamati da Dio a perdonare sinceramente, dal profondo dei nostri cuori. Nella sua autobiografia intitolata Il nascondiglio, Corrie ten Boom racconta la sua drammatica esperienza di quando lei e sua sorella sono state torturate e la sorella è morta in un campo di concentramento nazista. Dopo la sua liberazione, Carrie teneva degli incontri sul perdono a Monaco di Baviera, quando una sera, alla fine dalla riflessione, mentre salutava i presenti ha visto una delle guardie che avevano torturato lei e sua sorella. Si è avvicinata per salutarla e ha detto: «Come è bello che il Signore perdona tutti i nostri peccati passati». Inizialmente, Carrie ten Boom aveva avuto difficoltà a stringergli la mano e a perdonarlo, ma anche lui l’aveva riconosciuta e le aveva chiesto perdono. Dopo aver trascorso qualche momento in preghiera, Carrie era in grado di perdonarlo e di sviluppare un amore così grande per lui che solo la grazia di Gesù poteva renderlo possibile.

Nel testo iniziale (Matteo 18:21-35), perché Pietro pone a Gesù questa domanda sul perdono? Nei versetti precedenti, Matteo espone gli insegnamenti di Gesù su ciò che un credente deve fare quando qualcuno sbaglia nei suoi confronti. Pietro si rende conto che l’insegnamento di Gesù è rivoluzionario. A quanto pare, gli ebrei in genere accettavano che si potesse perdonare per tre volte. Pietro raddoppia questo numero e ne aggiunge anche un altro per farlo arrivare a sette.

Possiamo immaginarlo mentre si avvicina a Gesù soddisfatto di sé per aver compiuto qualche progresso nella comprensione e nella maturità spirituale. Eppure le sue parole tradiscono un problema evidente sul perdono: una persona non conta il numero di volte in cui perdona veramente. Il perdono è un aspetto dell’amore che non mantiene traccia dei torti subiti (1 Corinzi 13).

Così Gesù racconta una parabola per illustrare il perdono, in cui usa un’esagerazione per dare un effetto ironico. Parla di un re che aveva perdonato e cancellato un debito enorme nei confronti di uno dei suoi servi. Subito dopo costui aveva incontrato un suo collega servo che gli doveva una somma relativamente insignificante e non aveva ascoltato le sue richieste di pietà, di avere più tempo per restituire il denaro. Lo aveva invece fatto imprigionare per il mancato pagamento.

Lo storico ebreo Giuseppe Flavio, nella sua opera intitolata Antichità giudaiche, ci indorma che, in un anno, il gettito fiscale di Giudea, Edom, Samaria, Galilea e Perea era in totale di 800 talenti. Ciò significa che la somma di denaro che il re aveva condonato al servo era una veramente enorme: 10.000 talenti.

La parola greca tradotta con debitore è opheiletes ed è usata solo quattro volte in tutto il Nuovo Testamento e indica un debito morale o spirituale, un trasgressore morale contro Dio, un peccatore. Quindi Gesù non sta parlando di soldi, ma dei nostri peccati contro Dio e l’uno verso l’altro.

Tre cose impariamo da questa parabola sul perdono:

1. In quanto discepoli di Gesù, dobbiamo essere come il nostro Padre in cielo il quale perdona a ciascuno di noi un debito incalcolabile di peccato che non potremmo mai pagare. È importante ricordarci che siamo grandi peccatori misericordiosamente perdonati, perciò dobbiamo fare lo stesso verso gli altri.

La storia racconta di come Luigi XII di Francia trattava i suoi nemici dopo essere salito sul trono. Prima fu gettato in prigione e tenuto in catene. Poi, diventato re, fu invitato a vendicarsi, ma rifiutò. Invece, preparò una pergamena in cui erano elencati tutti i nomi di coloro che avevano perpetrato dei crimini contro di lui. Accanto a ogni nome aveva messo una croce con inchiostro rosso. Quando i colpevoli sentirono parlare di questo, temendo per la loro vita, fuggirono. Allora il re spiegò: «La croce che ho disegnato accanto a ogni nome non è un segno di punizione, ma un impegno di perdono, in nome del Salvatore crocifisso che sulla sua croce perdonò i suoi nemici e pregò per loro».

2. La prova del cambiamento nel cuore di un discepolo si trova nel fatto che è disposto a perdonare le offese subite. Nella parabola, il servo spietato è gettato all’inferno, come prova della sua mancanza di conversione. Il Signore non potrà mai distruggere una persona convertita.

Ellen G. White, nel libro La speranza dell’uomo, scrive: «L’amore cristiano è lento nel condannare, pronto a scorgere il pentimento, pronto a perdonare, a incoraggiare, a guidare e sostenere chi sbaglia nel sentiero della santità».

3. Il motivo per cui i cristiani possono essere spietati è che riducono i loro peccati contro Dio a livello di banalità e ingrandiscono le piccole offese ricevute al livello in cui sono in realtà i loro peccati contro Dio.

C’è un detto nel Talmud che afferma: «Considera enormi i piccoli torti che hai fatto agli altri, e come insignificanti i grandi torti fatti a te».

Gesù ci fa capire chiaramente che dobbiamo perdonare gli altri, il che si traduce in riconciliazione nella chiesa locale. È difficile capire perché un credente dovrebbe optare per uno stato di tensione e non di pace. Ricordando ciò che Dio ci ha perdonato, anche noi perdoniamo gli altri e rimaniamo nell’amore, nella misericordia e nella grazia di Dio. Come afferma un proverbio tedesco: «Se Dio non fosse disposto a perdonare, il cielo sarebbe vuoto».

La sera del 25 aprile 1958, uno studente coreano, e leader in’organizzazione studentesca della University of Pennsylvania, uscì per andare a spedire una lettera ai suoi genitori che vivevano a Pusan. Tornando passò davanti a undici adolescenti in giubbotti di pelle. Senza dire una parola, il gruppo lo attaccò e picchiò con calci, pugni e un tubo di ferro. La polizia lo ritrovò morto in un canale. Tutta Filadelfia chiese vendetta. Il procuratore distrettuale cercò di far giudicare i colpevoli come se fossero adulti, per poterli condannare a morte. Poi, arrivò una lettera dalla Corea che fece riflettere tutti. Era firmata dai genitori e da venti altri parenti del ragazzo assassinato. Diceva, tra l’altro: «Le nostre famiglie si sono incontrate insieme e abbiamo deciso di presentare una petizione perché sia somministrato il trattamento più generoso possibile, entro le leggi del luogo, a coloro che hanno commesso il crimine. Al fine di dare prova della nostra sincera speranza contenuta in questa posizione, abbiamo deciso di risparmiare i soldi per creare un fondo da utilizzare per l’educazione religiosa, scolastica, professionale e sociale dei ragazzi quando saranno rilasciati alla fine della pena. Esprimiamo queasta speranza con lo spirito ricevuto dal Vangelo del nostro Salvatore Gesù Cristo, che è morto per i nostri peccati».

Qualcuno vi ha fatto un torto? Provi rancore? Ricorda ciò che Gesù ha fatto per te sul Calvario e fai similmente, perché siamo «perdonati per perdonare».

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