NA - Notizie AvventisteDavide Romano – Alcuni mesi fa, un funzionario di palazzo Chigi, organico agli ambienti del sottosegretariato agli affari europei, rivelò a me e ad altri interlocutori nel corso di una conversazione, un aneddoto: la delegazione italiana durante un incontro di programmazione con rappresentanti della Commissione europea teso a ridefinire una nuova “visione” meno ossessionata dall’austerity, si era sentita ribattere da costoro pressappoco così: “per le visioni è consigliabile rivolgersi a bravi medici”.

Ieri, lunedì 4 luglio, il Corriere della Sera ha pubblicato un’intervista al ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, nel corso della quale quest’ultimo, interpellato sulla prospettiva post-Brexit e sull’urgenza di implementare ulteriormente le politiche di integrazione UE, ha ribadito che: “Non è ora il momento delle visioni…”; salvo tuttavia aggiungere poco dopo che: “dobbiamo guardare avanti”.

Osserviamo sommessamente che “guardare avanti”, facendo scrupolosamente attenzione a “non avere visioni”, vuol dire: fissare il vuoto. Ma questa è la tetra coerenza politica di un ministro tedesco che difficilmente sarà ricordato dai posteri come appassionato difensore del progetto europeo. Se un giorno, poniamo nell’aldilà, come si usa dire, Wolfgang Schäuble incontrasse Altiero Spinelli, sospetto che i due non si riconoscerebbero nemmeno.

La situazione attuale dell’Unione europea preoccupa, più che per il recente – grave – esito del referendum inglese, soprattutto per lo squallido plafond culturale e politico di molti dei protagonisti chiamati a porvi rimedio. Leader politici sprovveduti e funambolici come David Cameron, incalzati da sciagurati opportunisti come Boris Johnson, o da persone ciniche come Nigel Farage, imperversano nei talk show e nelle aule parlamentari di mezzo continente.

Certo, l’Unione europea così come l’abbiamo fin qui conosciuta non è il paradiso in terra; per noi avventisti è persino superfluo sottolinearlo; essa sconta anche un doppio difetto d’origine, ovvero: quello d’esser nata innanzitutto da motivazioni di ordine economico e commerciale, e altresì quello d’essere stata pensata come risposta geopolitica all’insidia comunista che premeva da oriente. Gli ideali federalisti c’erano, sin dal 1947, ma non riuscirono per molti motivi a incidere significativamente sul progetto costitutivo. La qualità democratica delle sue istituzioni si inverò molto gradualmente, basti ricordare che l’elezione a suffragio universale diretto dei membri del Parlamento europeo risale soltanto al 1979 e la rappresentanza democratica attraverso veri e propri europartiti (partiti cioè in grado di promuovere istanze di portata europea e non mere rivendicazioni nazionali) è stata perfezionata, se così si può dire, soltanto recentissimamente attraverso il varo del nuovo regolamento dei partiti del 2014.

Contrariamente a quanto sostenuto, o forse temuto, da taluni burocrati e leader improvvisati, il progetto europeo ha dunque bisogno di una nuova visione, di un nuovo slancio. Di un po’ di fiducia e un po’ di audacia. L’Unione europea, pur tra molte tensioni, spesso dovute a stucchevoli egoismi nazionali, ha fin qui garantito pace e prosperità alle popolazioni. Nel mondo globalizzato di oggi, singole nazioni che volessero – come sta accadendo ad esempio in paesi come l’Ungheria o la Polonia – ripiegare su vecchie nostalgie nazionaliste dal sapore vagamente autarchico, rischierebbero di essere risucchiate nel gorgo pericoloso degli etnocentrismi autoritari e illiberali. Basti vedere cosa accade ai confini del continente europeo, in paesi come la Turchia o la Russia: non propriamente isole felici dove i diritti delle persone e le più elementari garanzie democratiche sono ossequiosamente rispettate e garantite.

Le chiese europee, ciascuna con la propria peculiarità e la propria storia, dovrebbero – a parere di chi scrive – fare della salvaguardia dell’Unione europea come perimetro delle libertà e dei diritti civili e politici, una missione condivisa. Ma non sembra che il loro cuore batta per questa causa.

La statua delle nazioni, che nel libro biblico del profeta Daniele turbava i sogni di Nabucodonosor, agglutina ogni sorta di impero e di regime da Babilonia in poi come una sorta di plastica rappresentazione della storia politica dell’umanità; essa ha un aspetto imponente e luccicante ma non gode di buona salute, anzi vacilla a ogni piè sospinto, come purtroppo costatiamo ogni giorno. Non è il regno di Dio, è solo un progetto umanissimo e, in quanto tale, precario e contraddittorio. Ciò non vuol dire che non sia auspicabile tenerla in piedi con molta cura, fino a quando qualcosa di meglio, qualcosa di nuovo, non abbia a raggiungerci.

 

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