Testata-Rettangolare-300x214 (sfondo bianco)Luigi Caratelli – Nelle scene iniziali del film «Il seme della follia», interpretato da Sam Neill, trova rilievo una frase che è tutto un programma, oltre che un monito: «Abbiamo distrutto l’aria, abbiamo distrutto il mare, perché non proviamo a distruggere il nostro cervello?».

Alvin Toffler, nel suo libro «Lo choc del futuro», individua un fattore che realmente può distruggere o mandare in tilt il nostro cervello: la fretta. Così presenta il problema: «La società occidentale, negli ultimi 500 anni, è stata investita da una tempesta di fuoco di mutamenti… generando personalità bizzarre».1 Gli studiosi del settore sono ormai convinti che il ritmo crescente nel mondo intorno a noi disturbi il nostro equilibrio interiore, alterando il modo stesso con il quale sperimentiamo la vita. In poche parole: l’accelerazione esterna si traduce in accelerazione interna; la fretta intorno a noi genera fretta dentro di noi.

Lo afferma con altre parole Lamberto Maffei, direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR. Egli si dice convinto che il progresso tecnologico e la sua diffusione capillare hanno prodotto una vera e propria rivoluzione del pensiero, ciò è particolarmente deleterio perché «dimentichiamo che il cervello è una macchina lenta e nel tentativo di imitare le macchine veloci, andiamo incontro a frustrazioni e affanni».2 Molte persone, avvertendo un fastidioso vuoto interiore, si drogano con massicce dosi di «velocità tecnologica», con il risultato che nelle relazioni con le altre persone non sperimentano più la profondità e la meraviglia dell’incontro, della scoperta serena e profonda della vita che vibra nell’essere umano.

Mi piace ribadirlo con le parole di un cantautore dei nostri giorni, Caparezza, il quale nella sua canzone «Mica van Gogh», citando l’esperienza del pittore olandese, a suo modo innamorato della vita e delle persone, indica una via alternativa a molti giovani del nostro tempo: «Lui [van Gogh], trecento lettere, letteratura fine [scritte a suo fratello]3. Tu, centosessanta caratteri, due faccine, fine… Lui, distante ma sa tutto del fratello Theo, tu convivi e non sai nulla del fratello tuo… Lui, oli su tela, e creò dipinti, tu, oli sui muscoli, gare di body building». Certo, van Gogh mise fine alla sua vita, ma per motivi diametralmente opposti ai tanti suicidi per «vuoto di vita». La fretta uccide la vita.

Nel Salone dei Cinquecento a Firenze, il Vasari ha dipinto un interessante affresco. Ciò che lo caratterizza è una ripetizione di una immagine simbolica: una tartaruga sul cui carapace svetta una vela di nave. Messaggio dai contenuti apparentemente antitetici: la tartaruga è conosciuta per la sua proverbiale lentezza, mentre la vela se gonfiata dal vento permette a uno scafo di scivolare veloce su uno specchio d’acqua. Il messaggio è reso esplicito in un nastro disegnato sotto l’immagine in questione su cui è scritta la frase latina “Festina lente”, cioè “Affrettati lentamente”. Ancora un’ antinomia. Solo apparente però. Perché è proprio la nostra struttura cerebrale che ce lo chiede. Per il nostro bene. Per i motivi che lo studioso Guy Claxton ha evidenziato nel suo lavoro dal titolo «Il cervello lepre e la mente tartaruga».4

La nostra mente, ci viene spiegato, ha diverse velocità: una più rapida del pensiero, che agisce sotto la spinta degli istinti, e una intonata su un registro che lavora più lentamente; quest’ultima è il pensiero propriamente detto, che ci permette di elaborare e capire le cose; in poche parole di ragionare. La vela e la tartaruga. Quindi l’imperativo «Affrettati lentamente» è nelle nostre capacità innate.

Ecco perché lo scrittore Oswald Chambers ha potuto dire del Cristo, modello per ogni nostro comportamento: «Gesù non perdeva mai tempo, ma non andava mai di fretta». Fretta che invece bombarda anche i cervelli dei religiosi, siano essi laici o pastori. Un cervello costantemente sollecitato dalla fretta sperimenta l’ansia; la quale, a sua volta, restringe innaturalmente i tempi e li svuota di contenuti concreti.

Ellen G. White ha scritto che i delicati circuiti elettrici del cervello sono i soli canali che lo Spirito Santo può utilizzare per comunicare i suoi messaggi. Se tali circuiti sono sovreccitati, anche in chi si occupa dell’opera del Signore, il risultato sarà disastroso. L’operaio, per dirla con l’apostolo Paolo, «Batterà il vento», andrà a vuoto, ricavandone solo agitazione e spossatezza. Invertendo la rotta, decidendo di «Affrettarsi lentamente», offriamo allo Spirito Santo la possibilità di rendere il nostro cuore (o il nostro cervello, se gradite) il canale dei suoi «frutti», che invece sono «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, autocontrollo» (Gal 5:22). Insomma il prototipo del vero, maturo cristiano.

Mi piace concludere con una lunga, ma appropriata pagina di Alessandro Pronzato, magari utile proprio per rallentare, dominare la fretta e mettere in attività la mente lenta.

Parlando di colui che si dedica al servizio del Signore e usando immagini iperboliche, l’autore scrive: «Qualcuno ha il coraggio di sostenere che gli uomini del deserto si sottraggono agli impegni apostolici. Personalmente non ho mai conosciuto individui più attivi di quelli. Vanno nel deserto per agire, lavorare, costruire. Hanno rinunciato all’efficienza. Perché hanno scelto l’efficacia. Il solitario… è uno che, avendo compreso che apostolato significa “portare Dio”, “dare Dio”, si è anche reso conto che soltanto Dio può dare Dio… L’uomo è impotente a portare Dio, a comunicarlo… per evitare tentativi sterili, [il solitario-discepolo] si pone direttamente all’interno dell’azione stessa di Dio. La sua attività è tanto più efficace in quanto non è sua. Tra un moderno apostolo indaffarato, agitato, che non può fermarsi un istante altrimenti il mondo si inceppa, e il solitario… non ho dubbi. È quest’ultimo il più attivo. Quando vedo un apostolo correre, ho sempre paura. Sospetto che, preso da tutte quelle opere e realizzazioni, nel suo affanno, abbia lasciato a casa il Dono che aspetto e che mi è dovuto. L’uomo di Dio non corre. Lui cammina al passo di Dio. E quando mi raggiunge, non è solo».

Naturalmente per «solitario» Pronzato intende colui che è in ascolto di Dio. Ecco la ricetta per sottrarsi alla tirannia della fretta e dell’agitazione che svuota. Ma questo è tutto un altro articolo… anzi, un altro cervello.

 


1 A. Toffler, Lo choc del futuro, Sperling e Kupfer, Varese, 1988, pp. 11, 12.
2 L. Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna, 2014, p.13.
3 V. van Gogh, Lettere a Theo, Guanda editore, 2013.

 

 

 

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