Maol – I missionari avventisti del settimo giorno che si recarono nei campi di missione all’estero, all’inizio del XX secolo, sapevano che non sarebbero tornati vivi, ma furono felici di dare tutto ciò che avevano, anche la vita, per condividere Gesù in terre lontane. È stato questo il succo della presentazione di apertura del Consiglio di fine anno della Chiesa avventista mondiale, iniziato a Battle Creek, negli Stati Uniti, l’11 ottobre.

David Trim, direttore dell’Ufficio Archivi, Statistiche e Ricerche (Astr), ha evidenziato l’impegno di centinaia di missionari avventisti pionieri, per lo più giovani, che attraversarono l’oceano per diffondere il vangelo all’estero.

Un caldo benvenuto
L’incontro si è tenuto sotto una «grande tenda», nello storico villaggio avventista di Battle Creek, dove centinaia di membri e invitati del Comitato esecutivo, provenienti da tutto il mondo, si sono incontrati. La location, per certi aspetti, ricordava i primi raduni degli avventisti del settimo giorno avvenuti tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.

Molti dei partecipanti, uomini e donne, hanno accettato l’invito di indossare costumi d’epoca, e decine di membri del Comitato Esecutivo hanno anche lasciato crescere la barba per settimane o mesi. L’allestimento scenico includeva mobili storici, come il pulpito utilizzato varie volte da Ellen G. White quando predicava a Battle Creek oltre un secolo fa. Anche gli inni scelti per il fine settimana sono stati scritti tra il 1852 e il 1902, alcuni sono ancora presenti nell’innario avventista in inglese «Adventist Hymnal».

I dirigenti della Chiesa hanno dato il benvenuto ai delegati e presentato il sindaco di Battle Creek, Mark Behnke. Il primo cittadino ha letto una risoluzione del Consiglio comunale che dichiara l’11 ottobre 2018 «Adventist Day» a Battle Creek. «Gli avventisti del settimo giorno sono stati una parte fondamentale della storia di Battle Creek per più di 150 anni», ha affermato «Vi diamo il benvenuto e festeggiamo la decisione di riunirvi nella nostra città».

Persone che hanno dato tutto
Trim ha dedicato gran parte del su intervento ad alcuni dei missionari avventisti meno conosciuti, molti dei quali persero la vita per febbre tifoide, tubercolosi, malaria e morsi di serpenti. Molti di questi missionari, per lo più giovani, persero la vita pochi mesi dopo essere arrivati nel campo di missione.

«All’inizio del XX secolo, l’aspettativa di vita dei missionari in Africa era di soli 24 mesi» ha affermato Trim «Eppure, saperlo non ha impedito a questi giovani di andare in Africa, nei Caraibi, in Sudamerica, nel Pacifico del sud e in Asia meridionale, dove potevano anche aspettarsi di morire prematuramente».

Se confrontato con il numero complessivo di occidentali residenti in India in quel periodo, il bilancio dei missionari avventisti era sbalorditivo, ha asserito Trim. «Mentre gli occidentali in India avevano una media di 25 morti su 1.000, le statistiche mostrano che sono morti 83 missionari avventisti su 1.000». Pur se diverse ragioni spiegano questo alto numero, tra cui la tendenza dei primi missionari al superlavoro, avevano un altro «svantaggio».

I residenti delle «potenze coloniali vivevano isolati dalle popolazioni indigene e facevano di tutto per rimanere separati» ha spiegato Trim «I missionari avventisti, al contrario, si mescolavano con le persone e si occupavano delle necessità dei nativi là dove vivevano. Molti missionari contrassero malattie mortali dopo aver assistito persone affette da quella patologia».

Saluti strazianti
Le lettere e i resoconti dell’epoca rivelano quanto sia stato difficile e straziante per i missionari dare l’ultimo saluto ai mariti, alle mogli e ai figli morti nei campi di missione. Nel 1918, Hubert e Pearl Tolhurst, ad esempio, partirono dall’Australia per essere missionari in Cina, ma Pearl si ammalò e morì, a soli 28 anni, in un avamposto isolato della missione. Uno degli amici di suo marito ricordò in seguito la sua scomparsa: «Da solo, Hubert lavò il corpo di sua moglie e lo vestì; da solo scavò la fossa, tenne il funerale e la seppellì».

Emma Wakeham era missionaria da qualche tempo in Egitto, a fianco del marito, quando si ammalò gravemente. Per cercare guarigione, i Wakeham intrapresero un lungo viaggio verso Liverpool, in Inghilterra. Durante la navigazione Emma morì. Nel raccontare l’evento, suo marito riferì: «Con il cuore triste e addolorato, ma sostenuto dalla beata speranza, abbiamo affidato il suo corpo nelle braccia del vecchio oceano, fiduciosi che, anche se nessuna lapide segnerà il luogo in cui riposa, non sarà dimenticata quando colui che dona la vita chiamerà i santi che dormono».

Un altro missionario riferì della morte e della sepoltura di Edith Bruce, un’infermiera missionaria tra le montagne dell’Himalaya, nel 1920. «La seppellimmo sul tranquillo pendio ai piedi delle possenti Himalaya, finché queste antiche montagne non risplenderanno del bagliore del mattino luminoso quando Gesù verrà per riscattare dalla tomba i santi la cui morte è così preziosa ai suoi occhi, e il cui ultimo luogo di riposo ha segnato con tanta tenerezza».

Impegnati fino alla fine
Una delle caratteristiche sorprendenti delle lettere e dei resoconti dei missionari deceduti è l’impegno per la missione fino alla fine. «Non erano preoccupati di perdere la vita; temevano che il loro decesso avrebbe dissuaso gli altri dal seguire le loro orme».

Trim ha parlato, ad esempio, di Albert Fischer e di sua moglie Ina, giovani missionari a Porto Rico. Meno di sei mesi dopo il loro arrivo ne Paese, Albert si ammalò e, alla fine, morì. Un altro missionario, A. J. Haysmer, scrisse negli Stati Uniti, affermando che nei suoi ultimi giorni, Albert «temeva che molti pensassero che lui e sua moglie avevano commesso un errore nel venire in questo campo». Fischer aveva chiesto a Haysmer di sottolineare che era stato il Signore a mandarli e non rimpiangevano la decisione presa. Infatti, riportò Haysmer, Fischer era convinto che «se il Signore avesse dovuto chiamarlo al riposo, era felice di essere trovato al suo posto di servizio».

Un altro missionario, Charles Enoch, morì poco dopo il suo arrivo a Trinidad nel 1907. Qualche tempo dopo, suo fratello George riferì: «Sono grato che sia morto al suo posto di servizio… Non abbiamo rimpianti, ma prendiamo questo lutto come un ulteriore modo per legare le nostre vite all’altare dell’impegno missionario».

Trim ha infine evidenziato che prima e dopo simili resoconti, i missionari avventisti – molti dei quali si erano appena sposati – hanno continuato a lasciare le comodità della loro vita occidentale per viaggiare con gioia verso le missioni all’estero. Un caso tipico fu quello di Fred e Katie Brown, partiti da Battle Creek nel 1899, alla volta dell’India.

«Mentre il treno procedeva per la sua strada» scrivevano «avevamo gioia nel cuore … perché portavamo il messaggio del terzo angelo in quell’antica terra. Voglia Dio fare in modo che in molti possano conoscere la verità e pentirsi, prima che sia troppo tardi».

[Foto: Henry Stober, Adventist News Network]

 

 

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