Senza capacità empatiche, resilienza allo stress, relazioni basate sulla fiducia reciproca, sul rispetto vicendevole e sulla collaborazione, essere semplicemente “intelligenti” non aiuta ad andare molto lontano.

Corina Matei – “Molti non si sentono in contatto con i propri sentimenti. Gli uffici di consulenza e le case editrici hanno proliferato grazie alla necessità di aiutare le persone a migliorare le loro capacità di comunicazione, a recuperare l’autostima e ad aiutarle a relazionarsi con gli altri” dice Sir Ken Robinson nel suo libro Fuori di testa: Imparare a essere creativi.

Una volta ho assistito a una scena che mi ha mostrato quanto abbiano ragione i teorici delle scienze comportamentali riguardo a un nuovo tipo di intelligenza, l’intelligenza emotiva (IE), e come questa operi, al di là della teoria dell’intelligenza cognitiva classica, testando e insegnando l’IE a qualsiasi età. Ero sul filobus quando sono saliti una bambina e suo nonno. Stavano discutendo dell’imminente iscrizione della piccola all’anno scolastico propedeutico. Ecco di seguito il loro dialogo:
“Devo proprio andare a scuola quest’autunno?”, chiese la nipotina.
“Sì, devi, non c’è modo di evitarlo! Vedi, lì si fa sul serio, non si può più giocare tutto il giorno!” rispose il nonno in tono serio, guardando fuori dal finestrino.
La bambina era spaventata dalla prospettiva di qualcosa di così importante e misterioso che l’avrebbe costretta improvvisamente a smettere di giocare. Dopo aver cercato freneticamente una via d’uscita, continuò: “Ma non riesco ancora a parlare bene… guarda, non riesco a dire L” (voleva dire “R”).
“Dì guerra!”.
“Guella. Vedi? Non riesco a dirlo”.
“Oh, andiamo. Stai scherzando. Certo che puoi!”.
“Davvero non ci riesco…”.

Sentii la necessità di intervenire perché la mancanza di empatia di quel nonno nei confronti di sua nipote, che sono sicura amasse, mi sembrava incredibile.
“Prova a ripeterlo ‘davvero’, come prima”, le dissi. Avendo svelato il suo trucchetto, la bambina sembrava ancora più spaventata, soprattutto perché il nonno annuiva con approvazione, come se fossi sua alleata. Allora sorrisi alla bimba e le spiegai che ero un’insegnante e che a scuola i bambini sono felici quando imparano cose nuove, piacevoli, adatte alla loro età. Inoltre, devono fare solo quello che sanno fare, niente di difficile. La piccola si era sentita così liberata che mi ha toccato la mano con gratitudine, rivolgendomi un timido sorriso.

Zero empatia 
Di certo vi sarete imbattuti in scene di questo tipo, in cui il protagonista mostra una mancanza di comprensione dei sentimenti e delle emozioni altrui, e una risposta affettiva deludente rispetto alle aspettative di chi è accanto. I mass-media, purtroppo, offrono oggi esempi abbastanza comuni.

Un funzionario dello Stato, accusato di aver massacrato un poliziotto durante un corteo, usa ogni dichiarazione pubblica per parlare della propria dignità, dei propri problemi con le indagini, senza mai smettere di trovare scuse per sé e di crogiolarsi nell’autocommiserazione. In un’importante città della Romania, un gruppo di poliziotti non proprio competenti sta eroicamente lottando contro un cucciolo d’orso spaventato, e uno di loro ha proposto la grottesca “soluzione” di ucciderlo investendolo con l’auto. All’indomani del tragico incendio del Colectiv Club (un night club di Bucarest in cui sono morte 27 persone ndr), sono rimasta sconcertata dalla risposta di un sacerdote al rimprovero che la chiesa non empatizzi con la sofferenza delle vittime: “Chi siete voi per insegnarci qual è il ruolo della chiesa?”. Le scuse pubbliche arrivate in seguito suonavano ancora insufficienti, prive di empatia e con accuse rivolte agli altri, con espressioni di rammarico di essere stato frainteso.

Ecco come queste manifestazioni sono interpretate da un esperto di intelligenza emotiva. Lo psicobiologo, formatore e scrittore francese Jacques Salomé cita dapprima le parole di un paziente: “Questo bambino è insopportabile. Ogni volta che inizio a parlare con mia moglie, si comporta male, quindi devo punirlo”. Poi Salomé traduce per noi, come se leggesse una radiografia del comportamento: “Questo bambino fa ciò che è necessario affinché la rabbia ricada su di lui e i suoi genitori smettano di litigare. Sa come sono terminate le discussioni precedenti, quindi si sacrifica per mantenere l’armonia tra loro”.[1]

Questi casi e comportamenti, con le loro conseguenze negative nelle relazioni interpersonali, sono rilevanti per aiutarci a comprendere quanto abbiamo bisogno di sviluppare la nostra intelligenza emotiva.

Inoltre, come elemento aggravante della nostra situazione comunitaria, gli specialisti ritengono che la rapida evoluzione della tecnologia odierna e la prolungata presenza nello spazio virtuale influenzino la capacità dei bambini e dei giovani di creare legami sani con i loro coetanei. In più, le previsioni relative all’emergere di una crisi economica hanno previsto anche un aumento dell’incidenza di ansia, depressione e mancato adattamento alla vita socioprofessionale.[2]

L’origine dell'”intelligenza emotiva” 
All’inizio del secolo scorso, lo psicologo francese Alfred Binet creò il test di intelligenza in risposta alla preoccupazione di molti genitori sulle performance intellettuali dei loro figli a scuola e sul loro futuro professionale. Fu considerata una delle grandi scoperte della psicologia, in grado di quantificare le capacità cognitive ed emotive, e di offrire il famoso quoziente di intelligenza, il QI. Da allora, il QI si è rivelato utile in molti contesti: nell’orientamento professionale, nella selezione delle risorse umane, persino nel reclutamento dei soldati americani nella Prima guerra mondiale.[3]

Negli anni ’80, lo psicologo ebreo Reuven Bar-On cercò di chiarire la situazione paradossale secondo la quale persone molto intelligenti falliscono nella vita e altre meno dotate intellettualmente hanno successo. Ha articolato, quindi, il concetto di quoziente emozionale (QE), che valuta un’ampia gamma di abilità e qualità degli individui.[4]

Essendo anche interessato alla ricetta per il successo nelle relazioni che le persone stabiliscono con gli altri, in vari contesti di vita, lo psicologo americano Daniel Goleman ha coniato il termine “intelligenza emotiva” (EI). Si riferisce a un’estensione dell’intelligenza dell’individuo, al di là della ragione, nella capacità di sviluppare la propria personalità attraverso la migliore gestione possibile delle proprie emozioni. Il concetto è stato ampiamente adottato. Questo è il commento dell’autore: “Per me, la più grande ricompensa è venuta dalla calorosità con cui il concetto è stato adottato dai responsabili dell’istruzione… Decine di migliaia di scuole in tutto il mondo offrono ai bambini programmi di educazione sociale ed emotiva”.[5]

Inoltre, nel 2002, l’Unesco ha intrapreso l’iniziativa di implementare l’educazione sociale ed emotiva nei ministeri competenti di 140 Paesi. I programmi riguardavano l’educazione del carattere, la prevenzione della violenza, il controllo dell’aggressività, la disciplina scolastica e la prevenzione dell’uso di droghe. L’obiettivo non era solo quello di migliorare l’atmosfera nelle scuole e nei dormitori, ma anche di aumentare il rendimento scolastico.

Risultati e vantaggi concreti 
Goleman afferma: “Ora possiamo dimostrarlo scientificamente: se aiutiamo i bambini a migliorare la consapevolezza di sé e la fiducia in se stessi, a controllare le emozioni e gli impulsi che li angosciano e a sviluppare l’empatia, la loro ricompensa non sarà solo un miglioramento del comportamento, ma anche un rendimento scolastico misurabile. Questa è la grande novità che ci è offerta da una meta-analisi recentemente conclusa su 668 studi che hanno valutato programmi di educazione sociale ed emotiva per bambini dall’età prescolare ai diplomati di scuola superiore”.[6]

Qui di seguito presentiamo una descrizione di questo approccio educativo, nelle tre fasi di istruzione pre-universitaria, secondo il piano di studi dello Stato dell’Illinois. Nella scuola primaria, gli alunni imparano a individuare correttamente le proprie emozioni e i propri sentimenti, ad analizzare gli effetti di queste emozioni sul comportamento e a identificare le emozioni e i sentimenti altrui attraverso indizi non verbali. Nella scuola secondaria di primo grado, gli studenti analizzano i fattori che generano stress e i fattori che li motivano ad agire. Nella scuola superiore, gli studenti imparano ad ascoltare, a discutere e a confrontarsi, cercando di appianare i conflitti, piuttosto che a inasprirli, e a negoziare soluzioni in cui entrambe le parti in causa siano soddisfatte.[7]

Goleman promuove l’idea di espandere questo tipo di educazione alle categorie svantaggiate, come nelle famiglie indigenti e nelle carceri (specialmente quelle minorili), e immagina un futuro in cui sarà una pratica standard a ogni livello di istruzione. “… credo che allora le nostre famiglie, le scuole, i posti di lavoro e le comunità in cui viviamo saranno più umane e più stimolanti”.[8]

Gli esperti[9] sottolineano diversi vantaggi che derivano dall’educazione che sviluppa il potenziale individuale dell’intelligenza emotiva. In primo luogo, una forma educativa di questo tipo crea equilibrio, sottolineando l’idea che la classica “intelligenza” non è il motore esclusivo della realizzazione nella vita – per esempio, la capacità di risolvere problemi di matematica e fisica – e che, senza capacità empatiche, resilienza allo stress, relazioni basate sulla fiducia reciproca, sul rispetto vicendevole e sulla collaborazione, essere semplicemente “intelligenti” non aiuta ad andare molto lontano.

Grazie al lavoro di vari specialisti, l’intelligenza emotiva può essere poi quantificata e misurata, con evidenti vantaggi in diversi campi (dall’orientamento scolastico e professionale alle politiche delle risorse umane, dalla consulenza di coppia alle strategie di management e marketing). È interessante notare che le misurazioni hanno mostrato che l’intelligenza emotiva supera i pregiudizi legati all’esistenza di un’intelligenza di genere.

Le differenze consistono nel fatto che le donne hanno ottenuto punteggi più alti in categorie come l’empatia e la responsabilità sociale, mentre gli uomini hanno ottenuto punteggi migliori per la resistenza allo stress. Un’altra buona notizia è che l’intelligenza emotiva trascende le differenze razziali. I punteggi totali medi variavano meno del 5% tra caucasici, afroamericani e asiatici. Infine, va detto che il quoziente di intelligenza non è fisso nel tempo. Al contrario, può essere migliorato indipendentemente dall’età, dal sesso, dalla razza o dall’etnia, aiutando chiunque voglia essere un lavoratore, un collega, un genitore, un compagno di vita, un figlio/a, un vicino di casa migliore da un punto di vista dell’intelligenza emotiva, ecc.

Riguardo ad alcune tendenze comportamentali spesso riscontrate nei bambini e nei giovani di oggi, Sir Ken Robinson, noto esperto di educazione, fa un’amara riflessione: sono più inclini rispetto alle generazioni precedenti a essere “più soli e depressi, più arrabbiati e indisciplinati, più nervosi e tendenti alle preoccupazioni, più impulsivi e aggressivi”.[10] Ecco perché, soprattutto per loro, sarebbe utile lavorare per migliorare il QE.

Si tratta di un grande bisogno: consentirebbe ai giovani e ai bimbi di oggi di diventare genitori e nonni in gamba, responsabili ed empatici, anziché aggravare i problemi portandoli nelle loro famiglie e condannare se stessi e chi li circonda a tanta infelicità.

Se i nostri giovani non riescono a trovare soluzioni salvifiche da dentro, allora è dovere di genitori, formatori, insegnanti, psicologi, sacerdoti e pastori intervenire al momento giusto, per ravvivare la loro intelligenza emotiva in modo che, alla fine, ritrovino la propria anima e la possibilità di una vita felice. Come diceva Antoine de Saint-Exupéry: è solo con il cuore che si può vedere bene…

Note 
[1] Jacques Salomé, Se solo ascoltassi me stesso, Element Books Ltd, 1997.
[2] Daniel Goleman, Intelligenza emotiva, Random House Publishing Group, 2005.
[3] Intelligenze multiple: nuovi orizzonti teorici e pratici, Basic Books, 2006.
[4] Howard E. Book e Steven J. Stein, EQ Edge: L’intelligenza emotiva e il vostro successo, Jossey-Bass, 2011.
[5] Daniel Goleman, op. cit., p. 8.
[6] Ivi, p. 9.
[7] Ivi. 
[8] Ivi, p. 18.
[9] Steven J. Stein, Howard E. Book, op. cit., p. 5-7.
[10] Sir Ken Robinson, Fuori di testa: imparare a essere creativi, Capstone, 2011.

(Corina Matei è professoressa associata con dottorato di ricerca alla Facoltà di Scienze della comunicazione e delle relazioni internazionali dell’Università “Titu Maiorescu” di Bucarest).

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio] 

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