Oltre ogni immaginazione. Lo zoppo salterà e la lingua del muto canterà

Oltre ogni immaginazione. Lo zoppo salterà e la lingua del muto canterà

Francesco Zenzale – Frequentando l’ospedale… [è facile notare che] la sofferenza non è un optional, ma “una” condizione di vita. Ciò a causa del peccato (cfr. Genesi 3:16-19; Romani 5:12). Un giorno di tanti anni fa, mia madre mi disse: “Figlio mio, per non soffrire e morire non dovevamo nascere”.

Ogni giorno siamo costretti a confrontarci con il dolore. Anche se stiamo bene noi, c’è sempre qualche sciagura che ci circonda. La vita sembra che non abbia un senso e il risentimento spesso si fa strada nei nostri pensieri, tale da indurci a dubitare di Dio. Ma Dio non si sgomenta, ha scelto di partecipare alla sofferenza umana.

Egli soffre per la distruzione della natura e la schiavitù dell’uomo nei confronti del male. Ecco perché Gesù si prese tanta cura dei malati, guarendoli nel fisico e nello spirito (cfr. Matteo 11:5); sperimentò in prima persona la sofferenza e il male; pianse quando morì il suo amico Lazzaro. Fu deriso e maltrattato; fu rinnegato e abbandonato dai suoi amici; fu crocifisso e lasciato morire in maniera atroce. Gesù volle portare il bene in questo mondo perché ci ama, ma fu combattuto e ucciso con odio e rancore. Malgrado ciò, dopo la risurrezione ha formulato la promessa: “sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell’età presente” (Matteo 28:20).

Il profeta Isaia aveva profetizzato questa sua vicinanza con le seguenti parole: “Quando passerai per delle acque, io sarò teco; quando traverserai de’ fiumi, non ti sommergeranno; quando camminerai nel fuoco, non ne sarai arso, e la fiamma non ti consumerà. Poiché io sono l’Eterno, il tuo Dio, il Santo d’Israele, il tuo salvatore… Perché tu sei prezioso agli occhi miei, perché sei pregiato ed io t’amo… Non temere, perché, io sono teco; io ricondurrò la tua progenie dal levante, e ti raccoglierò dal ponente” (Isaia 43:1-5, Luzzi).

Nel capitolo 35, Isaia assicurava che un giorno si “apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto canterà di gioia…” (vv. 5 e 6, Luzzi). I reni riacquisteranno la loro vitale funzione e i dialitici esulteranno; chi è affetto da una neoplasia eleverà lo sguardo verso il cielo ringraziano il datore della vita. Il vecchio arcuato correrà come un ventenne e i bambini neuropatici gongoleranno nel Signore.

Questa visione del futuro, in parte, si è realizzata con Gesù uomo. Il lebbroso è sanato, il paralitico prende il suo lettuccio e cammina, il cieco recupera la vista, il figlio della vedova di Nain riabbraccia suo figlio, l’orecchio del soldato riattaccato, il ladrone sulla croce perdonato, e così via. Ma al suo ritorno, la “tromba squillerà, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo trasformati” (1 Corinzi 15:52). «Ogni difetto, ogni deformità saranno lasciati nella tomba. Riammessi a nutrirsi dell’albero della vita, nell’Eden da tanto tempo perso, i redenti cresceranno (cfr. Malachia 4:2) fino a raggiungere la statura perfetta della struttura originale. Eliminate le ultime tracce della maledizione provocata dal peccato, i fedeli del Cristo appariranno nella bellezza dell’Eterno, il nostro Dio, riflettendo nella mente, nell’anima e nel corpo l’immagine perfetta del Signore. Questa redenzione meravigliosa, di cui tanto si è parlato, nella quale tanto si è sperato e che è stata attesa così a lungo, con impazienza ma mai pienamente compresa, si è finalmente realizzata! – E. G. White, Il gran conflitto, Ed. Adv, Firenze, 1996, p. 504.

Dio ha per noi “progetti di benessere” (Geremia 29:11), e quando questi saranno interamente conseguiti, allora esclameremo, Signore, “Tu hai mutato il mio dolore in danza; hai sciolto il mio cilicio e mi hai rivestito di gioia» (Salmi 30:11).

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Oltre ogni immaginazione. Deserti fioriti e sentieri sicuri

Oltre ogni immaginazione. Deserti fioriti e sentieri sicuri

Francesco Zenzale – Vivendo in una parte dell’Italia rigogliosamente verde, fra montagne e laghi, è meraviglioso passeggiare per ore e godere d’incantevoli paesaggi. Sembra di essere in paradiso! Il fruscio del vento, il brusio dei variegati insetti, il cinguettio degli uccelli, il passo felpato degli scoiattoli e delle volpi, il muggire delle mucche, il gorgoglio del ruscello o di una cascata, e poi il profumo della terra, dei prati in fiore, del fieno falciato e tanti altri odori delle aziende agricole, che risultano sgradevoli per chi vive in città.

È emozionante percorre lunghi sentieri pianeggianti a ridosso di un rivolo o di un fiume, senza l’ansia delle strisce pedonali, del semaforo rosso e del borsaiolo. Non si respira aria con l’acre odore di morte tipico di città che brulicano di automobili, pullman, metrò e di gente che corre col telefonino all’orecchio: un deserto sociale, esistenziale e ambientale.

Il 22 aprile 2016, Giornata mondiale dell’ambiente, all’Onu, 175 Paesi hanno firmato l’accordo sul clima raggiunto alla Cop21 di Parigi. il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, all’apertura della cerimonia, ha esortato tutti i Paesi a “muoversi rapidamente per unirsi all’accordo a livello nazionale in modo che possa diventare operativo il più presto possibile”.

Io non so in che modo e con quale efficacia i Paesi firmatari riusciranno a migliorare la qualità dell’ambiente. Onestamente mi resta difficile credere che si possa fermare questo processo di autodistruzione: troppi interessi economici e forse siamo arrivati al punto del non ritorno. L’apostolo Paolo evidenziava che la creazione perdura in uno stato di sofferenza e che “sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio” (Romani 8:21), quando Gesù ritornerà.

Il profeta Isaia annunciava che nel regno messianico, “il deserto e la terra arida si rallegreranno, la solitudine gioirà e fiorirà come la rosa; si coprirà di fiori, festeggerà con gioia e canti d’esultanza; le sarà data la gloria del Libano, la magnificenza del Carmelo e di Saron” (Isaia 35:1-2). “Io farò scaturire dei fiumi sulle nude alture, delle fonti in mezzo alle valli; farò del deserto uno stagno, della terra arida una terra di sorgenti; pianterò nel deserto il cedro, l’acacia, il mirto e l’olivo selvatico; metterò nei luoghi sterili il cipresso, il platano e il larice tutti assieme, affinché quelli vedano, sappiano, considerino e capiscano tutti quanti che la mano del Signore ha operato questo e che il Santo d’Israele ne è il creatore (Isaia 41:18-20).

Nell’attesa del compimento di questa entusiasmante promessa, espressa con parole a noi familiari, i credenti dovrebbero ricordarsi, secondo Genesi 2:15, che se lo spazio dove vivono è distrutto, la loro esistenza è in pericolo. La gestione del mondo creato è dunque di importanza vitale. Il compito di assicurare il benessere del pianeta non deve fondarsi sul pretesto del carattere sacro della natura, ma sul fatto che l’Altissimo ha designato l’uomo come suo amministratore.

 Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

[Immagine: Pixabay]

Oltre ogni immaginazione. Spade in vomeri

Oltre ogni immaginazione. Spade in vomeri

Francesco Zenzale – Non ho fatto il servizio militare e non ho mai impugnato una spada, una pistola, un fucile o un bazooka, e pertanto non so come si utilizzano, ma conosco il motivo per cui si costruiscono, si vendono e si comprano: evocano denaro e morte. Non ho mai visto una bomba o un aereo militare, se non in televisione. Anche questi strumenti mi angosciano.

Dagli archi alle balestre, dai pugnali alle spade, dalle pistole ai bazooka, passando dai fucili. Dai cannoni alle mine anticarro, dai carri armati ai cacciabombardieri e dall’energia atomica alla bomba atomica, a idrogeno o peggio ancora al gas nervino… Fino a quando dobbiamo reggere questo inconcepibile equipaggiamento di morte? Si racconta che ciascuno di noi dorma sopra un cuscino pari a trenta kilogrammi di tritolo. Tutto ciò mi affligge, ma non mi atterrisce.

La profezia aveva previsto che l’umanità sarebbe arrivata al punto di distruggere la terra, ma aveva anche segnalato che “è giunto il tempo di giudicare i morti, di dare il loro premio ai tuoi servitori, i profeti, ed ai santi e a quelli che temono il tuo nome, e piccoli e grandi” (Apocalisse 11:18, Luzzi).

Il profeta Isaia, prima ancora di Giovanni, annunciava: “Egli [Dio] giudicherà tra nazione e nazione e sarà l’arbitro fra molti popoli; ed essi delle loro spade fabbricheranno vomeri d’aratro, e delle loro lance, roncole; una nazione non leverà più la spada contro un’altra, e non impareranno più la guerra” (Isaia 2:4, Luzzi).

Che meravigliosa notizia! Non ci sarà più bisogno di soccorrere profughi. Non vedremo più intere città rase al suolo dai bombardamenti, bambini e adulti inghiottiti dal mare o uccisi dalla violenza delle armi impugnate dai loro stessi fratelli o connazionali.

Dice il Signore: “Non si farà né male né guasto su tutto il mio monte santo, poiché la terra sarà ripiena della conoscenza dell’Eterno, come il fondo del mare dall’acque che lo coprono” (Isaia 11:9, Luzzi). “Molti popoli v’accorreranno, e diranno: ‘Venite, saliamo al monte dell’Eterno, alla casa dell’Iddio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri’. Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell’Eterno” (Isaia 2:3, Luzzi).

Oltre ogni immaginazione! Dio risponde alle nostre aspirazioni secondo criteri che gli sono propri, soddisfacendo pienamente il desiderio di un’esistenza serena e avvincente, che si muove nella fratellanza universale, nel diritto di esistere senza la paura di essere depauperati, ma arricchiti dall’altrui presenza.

Pertanto, per il tempo che ci rimane da vivere, in vista della piena attuazione del suo regno, concediamo alla grazia di Dio, salvifica per tutti gli uomini, di insegnarci a “rinunciare all’empietà e alle passioni mondane, per vivere in questo mondo moderatamente, giustamente e in modo santo, aspettando la beata speranza e l’apparizione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore, Cristo Gesù” (Tito 2:11-13).

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Oltre ogni immaginazione. L’agnello e il lupo

Oltre ogni immaginazione. L’agnello e il lupo

Francesco Zenzale – Sorprende il testo di Genesi 1:30. Ci informa che “a ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo e a tutto ciò che si muove sulla terra e ha in sé un soffio di vita, io do ogni erba verde per nutrimento”.

Nel piccolo lago di Pusiano, dove ho la gioia di fare delle rilassanti passeggiate, in primavera si avverte un incessante movimento: le folaghe e le gallinelle d’acqua che bighellonano fra il canneto; le anatre con i piccoli anatroccoli che girellano e gli uccelli che innalzano canti di lode al datore della vita. I pesci che sguazzano nell’acqua, le scardole che si sfregano deponendo le uova, l’airone che si gode l’incantevole “elisio”. Ma questo gradevole quadro in una frazione di secondo è imbrattato dal sangue. Il corvo di turno, la gazza ladra o la poiana non hanno alcuna remora nel togliere la vita a uno dei tanti anatroccoli. E così in un attimo la morte mi riporta alla concretezza: non sono in paradiso!

Non riesco a immaginare un leone brucare l’erba unitamente a un agnello o a un cerbiatto, così anche una tigre, un leopardo e tanti altri animali che si nutrono di carne o di carogne. Ma verrà il giorno in cui “Il lupo e l’agnello pascoleranno assieme, il leone mangerà il foraggio come il bue, e il serpente si nutrirà di polvere” (Isaia 65:25). Sì! Nel regno del Messia, “il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, il leoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bambino li condurrà. La vacca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli si sdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue. Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzato stenderà la mano nella buca del serpente. Non si farà né male né danno su tutto il mio monte santo, poiché la conoscenza del Signore riempirà la terra, come le acque coprono il fondo del mare” (Isaia 11:6-9).

L’apostolo Paolo riafferma questa speranza con le seguenti parole: “la creazione aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l’ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio” (Romani 8:19-21).

La creazione “geme ed è in travaglio” (Romani 8:22) e vive nell’attesa della beata speranza del ritorno di Cristo, giorno in cui avremo la gioia di osservare l’anatroccolo e il corvo nutrirsi di erba verde. Di ammirare il pesce siluro, le tartarughe, il pesce persico, il luccio nutrirsi delle alghe dei laghi.

Questo quadro profetico ci permette di percepire in parte quel che avremo modo di osservare nei nuovi cieli e nella nuova terra: la morte, in ogni ampliamento dell’esistenza non ci sarà più. Un vero e inaspettato trionfo della vita.

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

 

Oltre ogni immaginazione. Nostalgia canaglia

Oltre ogni immaginazione. Nostalgia canaglia

Francesco Zenzale – C’è un testo nella Bibbia in cui si afferma che Dio ha “messo nel cuore dell’uomo il pensiero dell’eternità” (Ecclesiaste 3:11). L’eternità! È un inspiegabile pensiero nostalgico presente in ogni essere vivente. L’atto del procreare esprime il desiderio estensivo della nostra delimitata esistenza. Il nulla, la morte non si addice alla voglia di vivere che esprimiamo in ogni atto mediante il quale cerchiamo di trascendere l’umana realtà dalla sua fragilità.

È interessante osservare nella Bibbia le lunghe liste genealogiche che spesso tralasciamo di leggere perché ritenute noiose (Luca 3:23ss; Matteo 1:1-17), ma che esprimono, oltre al valore esistenziale, “il pensiero d’eternità”. Una risposta all’inevitabile domanda: da dove veniamo? I testi dei Vangeli di Luca e Matteo dicono “Figlio di Davide, di Abramo, ecc…” e infine di Adamo “nostro padre” il quale per un tempo imprecisato ha avuto la gioia di gustare l’eternità e il paradiso terrestre; di esistere senza confrontarsi con la morte.

Nel desiderio di pace, armonia, fratellanza e trascendenza riverbera il pensiero d’eternità. La nostalgia di un’esistenza indefinitamente e pienamente vissuta è a volte struggente. Ci manca il tempo, l’eterna giovinezza, per realizzare sogni che per il breve corso della vita siamo costretti a custodire in un cantuccio del nostro cuore.

Nel variegato e immenso mondo religioso ci sono degli insegnamenti o delle teorie in cui irradia il pensiero dell’eternità. Ad esempio la dottrina dell’immortalità dell’anima e le esperienze ai confini della morte, note anche come Nde (sigla dell’espressione inglese Near Death Experience). Verosimilmente sono insegnamenti che non hanno nulla a che fare con la vera natura dell’uomo secondo la parola di Dio. Queste dottrine fanno parte del bagaglio culturale pagano, mitologico, ma evidenziano bene quanto la morte ostacoli la nostra voglia di vita vera.

Mentre passeggiavo, come di consueto, dietro casa, incontrai un signore, un cardiologo, che mi disse: “Siamo tutti figli di Dio, ma ci sono alcuni che si credono dio”.

Essere come Dio! Abbracciare la vita oltre la morte, pensare di essere immortali e di gestire ogni aspetto della vita da soli, ricorda la viscida frase che il serpente disse a Eva: “sarete come Dio” (Genesi 3:1-5). Sarete eterni e liberi da ogni legame. Potete disarticolarvi da Dio, perché voi stessi siete Dio. Potete moltiplicarvi e mettere al mondo delle creature a vostra immagine e somiglianza, offrire loro la gioia di essere felicemente eterni e vivere dentro e fuori il giardino dell’Eden, lontano dall’albero della vita e della conoscenza del bene e del male. Indubbiamente “il padre della menzogna” (Giovanni 8:44) ha ben saputo ingannare i nostri progenitori, come anche tutti quelli che ancora oggi presumono di trascendere l’umana fragilità, appagando il nostalgico pensiero d’eternità con dottrine e comportamenti illusori, distogliendo le orecchie dalla verità (cfr. 2 Timoteo 4:1-5; Tito 1:14.)

È saggio agognare una vita esentasse della morte e cercare il meglio nel tempo che ci appartiene, ma non commettiamo l’errore del ricco stolto, il quale, dopo avere a lungo lavorato, accumulando ogni ben di Dio, decise di concedersi una pausa di riposo pensando di essere eterno: “Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; riposati, mangia, bevi, divertiti. Ma Dio gli disse: ‘Stolto, questa notte stessa l’anima tua ti sarà ridomandata; e quello che hai preparato, di chi sarà?’” (Luca 12:19-20). In altre parole, che senso ha illudersi di soddisfare il pensiero d’eternità a prescindere da Dio?

Credo che l’apostolo Paolo avesse ragione quando scrisse che “nessuno di noi infatti vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso; perché, se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo del Signore. Poiché a questo fine Cristo è morto ed è tornato in vita: per essere il Signore sia dei morti sia dei viventi” (Romani 14:7-8). “Sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” (1 Tessalonicesi 5:10).

Solo Dio può soddisfare appieno la sete d’eternità. Sta scritto: “Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Implicazioni pratiche della creazione in vista della beata speranza

Implicazioni pratiche della creazione in vista della beata speranza

Francesco Zenzale – Ora comprendiamo, esaminiamo e “vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia: ora conosco in parte; ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto” (1 Corinzi 13:12, Luzzi).

Creati a immagine e somiglianza di Dio e non secondo lineamenti di ciò che ci era stato “sottoposto” (cfr. Genesi 1:26-28). Avevamo la facoltà di interagire con Dio con l’udito, la parola, lo sguardo e con l’intero essere. Non esisteva nessuna creatura in grado di gioire di tale attitudine. C’era un rapporto, una comunione, che consentiva rilevanti relazioni di ordine spirituali, affettive, esistenziali. Ciò significa, in primo luogo, che gli esseri umani sono essenzialmente delle persone religiose e trascendenti. In secondo luogo, la comprensione di noi stessi e dello scopo per cui vivere fluiscono grazie al raffronto con Dio. Fu con Dio che Adamo ed Eva ebbero le loro prime relazioni, prima ancora di interagire reciprocamente.

Plasmati fisicamente direttamente da Dio (Genesi 2:7) e non semplicemente con l’espressione della sua voce (Genesi 1:20, 24). Dio s’è sporcato le mani di fango prima di soffiare il suo alito vitale e donarci la gioia di essere delle creature viventi. Questo gesto antropomorfico divino prefigura l’incarnazione (cfr. Giovanni 1: 1-2, 14), il modo in cui il Signore desidera interagire con ciascuno di noi nonostante il peccato.

Mangiare per vivere secondo la nostra struttura fisiologia prima del peccato. Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra, e ogni albero fruttifero che fa seme; questo vi servirà di nutrimento” (Genesi 1:29). Ciò significa che il nostro corpo è un aspetto costitutivo dell’esistenza. Non possiamo immaginare la vita umana al di fuori di un qualche tipo di corpo. In realtà, un essere umano senza un corpo costituirebbe una contraddizione di termini.

Possiamo percepire l’importanza che il corpo riveste per l’esistenza umana nelle descrizioni bibliche della risurrezione dai morti. “Così pure della risurrezione de’ morti. Il corpo è seminato corruttibile, e risuscita incorruttibile … è seminato corpo naturale, e risuscita corpo spirituale» (1 Corinzi 15:42, 44, Luzzi). Per Paolo, il passaggio da questa vita a quella futura comporta una trasformazione radicale, ma non presuppone un lasciarsi l’esistenza corporea dietro le spalle.

Dal momento che l’esistenza umana è essenzialmente corporea, ne consegue che il corpo è qualcosa di buono che merita di essere trattato con cura. In se stesse, le cose che rendono la nostra vita fisica gradevole sono buone. Per quel che riguarda la Bibbia, non c’è niente di male nel mangiare e nel bere. Dio stesso provvide al cibo di Adamo ed Eva (cfr. Genesi 2:9, 16). Gesù promise di mangiare e bere con i suoi discepoli nel regno di Dio (cfr. Luca 22:16-18), e Giovanni vide i redenti liberati dal problema della fame e della sete (cfr. Apocalisse 7:16).

Vivere con discernimento. L’albero della conoscenza del bene e del male (cfr. Genesi 2: 9) esprimeva la possibilità da parte dell’uomo di sperimentare il male. Prerogativa che Dio aveva accordato ai nostri progenitori (Adamo ed Eva) dal giorno in cui furono creati a sua immagine. Fino a quando vissero nel bene o secondo le aspettative divine, avevano la capacità di discernere il bene dal male espresso nelle seguenti parole: “La donna rispose al serpente: ‘del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino Dio ha detto: non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete’” (Genesi 3:2-3; 2:17).

Questa specificità è stata perduta a causa del peccato, perché solo chi è emancipato dal peccato e ha vissuto nel bene, ad esempio Gesù (cfr. Giovanni 8:46; Ebrei 4:15), è in grado di distinguere chiaramente il bene dal male e conoscere perfettamente la linea di demarcazione tra i due opposti. Appena il peccato è stato consumato, il male si è mescolato confusamente al bene e ora è quasi impossibile discernere l’uno dall’altro se non con grande fatica e con l’aiuto dello Spirito Santo (cfr. Giovanni 16:8; Atti 5:1-11). Pertanto, solo Dio, per la sua non-esperienza del male e per la sua onniscienza, è qualificato a esprimere giudizi di condanna eterna. La parabola della zizzania è un’ottima illustrazione (Mt 13: 24-27; cfr. Mt 7:1; Giovanni 8:7).

Vivere dipendendo da Dio in quanto creature. L’albero della vita (Gn 2:9) aveva un suo significato. Esso esprime il nostro status di creature. Non siamo eterni e non apparteniamo al divino se non come creature. Il nostro modo di esistere è essenzialmente differente da quello di Dio: egli è sempre esistito; noi siamo venuti all’esistenza. Per questo motivo Dio, nella persona di Gesù, si presenta a noi affermando di essere “l’io sono” (Giovanni 8:58) o “la via, la verità e la vita” (Giovanni 14:6). Senza di lui non possiamo fare nulla, ancor meno vivere (cfr. Giovanni 15:5).

Non eravamo delle divinità e neanche simili agli angeli, né superiori e inferiori al resto della creazione, ma conformi all’immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1:26). Ciò significa che il nostro modus vivendi doveva essere orientato verso l’alto e non verso il basso o orizzontalmente verso i propri simili (cfr. Esoso 20: 1-6). Infatti, Dio ci aveva invitati a custodire la creazione e non a lasciarci soggiogare da essa con il duro lavoro, cosa che avvenne a causa del peccato (cfr. Genesi 2: 15, 18-20; 3:17-19).

In breve, gli elementi sopra descritti devono essere compresi considerando che noi siamo stati opacizzati dal peccato. Ora comprendiamo, esaminiamo e “vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia: ora conosco in parte; ma allora conoscerò appieno, come anche sono stato appieno conosciuto” (1 Cor 13:12 Luzzi). Lo stesso vale per l’autore del Pentateuco, il quale non aveva intenzioni di descrivere dettagliatamente la realtà prima del peccato, ma evidenziare ciò che l’umanità ha perso in termini di armonia con il resto della creazione e soprattutto nella relazione con Dio. Il peccato ha impoverito l’uomo, non solo della vita eterna, ma anche della fratellanza, della bellezza, della natura incontaminata, della libertà di movimento, di pensiero e di comprensione dell’universo e di Dio stesso.


Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Oltre ogni immaginazione. Lo zoppo salterà e la lingua del muto canterà

Oltre ogni speranza e immaginazione

Francesco Zenzale – “Il Re d’Israele, il Signore, è in mezzo a te, non dovrai più temere alcun male. Quel giorno si dirà a Gerusalemme: ‘Non temere, o Sion, le tue mani non si indeboliscano! Il Signore, il tuo Dio, è in mezzo a te, come un potente che salva; egli si rallegrerà con gran gioia per causa tua; si acqueterà nel suo amore, esulterà, per causa tua, con grida di gioia’” (Sofonia 3:15-17).

“Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più. E vidi la santa città, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una gran voce dal trono, che diceva: ‘Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio. Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate’” (Apocalisse 21:1-4).

La profezia è nutrimento essenziale per chi crede nel ritorno di Cristo, giorno in cui si schiuderanno nuovi orizzonti per un’eterna giovinezza. Se da una parte si arguisce, profeticamente, un apparente trionfo del male in tutte le sue forme, soprattutto in quelle più seducenti, tali da attirare l’attenzione di tutti gli abitanti della terra (cfr. Apocalisse 13:1-8), dall’altra, la parola di Dio chiarisce, con espressioni antropiche, che la visione futura del genere umano è alquanto accattivante: nuovi cieli e nuova terra (cfr. Ap 21).

Come per Giovanni [autore del libro dell’Apocalisse, ndr], anche per noi è inconcepibile descrivere la nuova creazione. Nulla ci permette di materializzarla. Si tratta di una indescrivibile nuova dimensione della vita, e possiamo definirla come un “ritorno a casa”, al giardino d’eden, prima della trasgressione (cfr. Genesi capitoli 1 e 2). Anche i testi della creazione non ci autorizzano a ricostruire concretamente lo stato naturale paradisiaco della terra. Possiamo solo evidenziare alcuni elementi: flora (alberi, piante, arbusti, fiori e frutta), fauna (animali terrestri, volatili e pesci d’ogni specie) che nella loro complessità esprimono armoniosità, bellezza, equilibrio (cfr. Genesi 1:20, 25).

Il tutto aromatizzato col primordio del crescere e del moltiplicarsi (cfr. Genesi 1:22), che evidenzia libertà di movimento: estensibilità. Poi possiamo osservare il cielo stellato, così complesso, infinito vibrante, ritmico e assoluto, che ancora oggi racconta la gloria di Dio (cfr. Salmi 19:1). Infine, con l’opacità del peccato, appurare come siamo stati creati (cfr. Genesi 1:27; 2:7), il modo in cui dovevamo vivere nel tempo e nello spazio (cfr. Genesi 2:8) e cogliere alcune implicazioni pratiche in vista della beata speranza.

 

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Gesù esplosione di vita. Nella casa del Padre

Gesù esplosione di vita. Nella casa del Padre

Francesco Zenzale – “Ma il padre disse ai suoi servi: ‘Presto, portate qui la veste più bella e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato’. E si misero a fare gran festa” (Luca 15:22-24).

“Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me! Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che io vado a prepararvi un luogo? Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi; e del luogo dove io vado, sapete anche la via” (Giovanni 14:1-4).

Io non so come vi immaginate la casa del Padre o se avete mai pensato, emozionandovi, di essere alla sua presenza e fra le sue braccia. Ascoltare la sua euritmica voce chiedere agli angeli di “preparare un bel bagno caldo”, di vestirvi di una “bellissima tunica merlata d’oro” e di predisporre una fastosa cena tutta per voi.

Vi assicuro che non sto pensando a una casa delimitata, costruita con mattoni e cemento, porte, finestre e arredata di mobili antichi, di specchi “giudicanti o vigilanti”1 o di ogni altra cosa che possa riflettere l’arredamento della nostra attuale dimora. Di abiti griffati, di prelibate portate e di un rave-party con applausi e musica goa-trance.

La casa del Padre è infinitamente spaziosa. C’è posto per tutti! Anche per te! La luce che la illumina fluisce da Dio ed è calda, penetrante e avvolgente (cfr. Apocalisse 22:5). L’ambiente è distensivo, tranquillo e i figli di Dio gioiscono alla sua presenza (vv. 3-4). La musica è armoniosa, soave e i dolorosi ricordi svaniscono a ogni carezza di uno sbalorditivo “papà”. La pace e l’eterna compiutezza permeeranno il nostro essere (20:1-8). Finalmente felici!

Attenzione! Non sto affermando che vivremo in una realtà di esseri disincarnati, anime eteree, concezione tipica di molti cristiani. Non è neppure il paradiso delle gioie sensuali, dei musulmani. La vita è totale, nel senso che coinvolge tutte le nostre nobili espressioni. Il corpo e la mente non saranno più logorati dal peccato, dalla fatica, dalla vecchiaia, dalle frustrazioni e dai sensi di colpa. Avremo un corpo inossidabile e un’intelligenza al massimo del suo rendimento. Vivremo per sempre (cfr. Giovanni 14:19) e in uno spazio in cui la verità non sarà inquinata dalle bugie, la bellezza dalle bruttezze e la vita pervasa dalla morte. Il luogo che il Signore sta preparando per noi è di uno splendore indefinibile. Giovanni lo riassume con le seguenti parole: “nuovi cieli e nuova terra” (Apocalisse 21:1; Is 65:17).

Comprendo quanto sia difficile affacciarsi a questa nuova realtà e osservarla con la prospettiva della risurrezione e della fede, soprattutto immaginare qualcosa di diverso rispetto alla nostra misera e aggrovigliata esistenza. Tuttavia, siamo sempre alla ricerca di un luogo, di un cantuccio tutto nostro. Uno spazio in cui ci riconosciamo e realizziamo di essere amati e amanti, stimati ed estimanti. Un luogo in cui il trionfo della giustizia è assicurato e la morte esiliata.

Questo eufonico spazio non è dentro di noi, come alcune discipline orientali insegnano, perché siamo fragili e senza difese (cfr. Matteo 15:19), ma possiamo modestamente ghermirlo se permettiamo al regno di Dio di abitare in mezzo o dentro noi (cfr. Luca 17:21). Un habitat spirituale, estensivo in cui nell’altro vediamo il volto del risorto (cfr. Atti 9:5; Matteo 25:35-40).2 Uno spazio in cui è possibile fiutare l’eternità, sentirne gli odori, l’armonia fra gli esseri viventi (cfr. Isaia 65:25) e sentirsi sospesi tra il cielo e la terra, con un acuto desiderio di essere al più presto con Gesù. In tal senso, il regno di Dio è una porzione d’eternità nel tempo della vacuità, del dolore e della cedevolezza esistenziale. Un respiro d’aria pulita in un mondo inquinato dal peccato.

Non è saggio rimandare questa “prelibatezza” nel giorno in cui Dio inaugurerà il suo regno, liberando per sempre questa valle di lacrime dalla sofferenza e dalla morte. Abbiamo il privilegio di “anticiparlo”, di “praticarlo” e di “condividerlo”. Giovanni, espone la sua estensiva esperienza nelle seguenti parole: “Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato della parola della vita (poiché la vita è stata manifestata e noi l’abbiamo vista e ne rendiamo testimonianza, e vi annunziamo la vita eterna che era presso il Padre e che ci fu manifestata), quel che abbiamo visto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché voi pure siate in comunione con noi; e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia completa” (1 Giovanni 1:1-4).

Note
1 Gesù Cristo dovrebbe essere il riflesso della nostra persona e non noi stessi (cfr. Romani 8:29).
2 Moglie, marito, figli e in chi incontriamo ogni giorno per strada, nel supermercato, sul posto di lavoro, ecc.

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Gesù esplosione di vita. La tomba è vuota!

Gesù esplosione di vita. La tomba è vuota!

Francesco Zenzale – È triste leggere notizie di tombe profanate con atti vandalici; ed è penoso scoprire che il feretro è stato trafugato come un trofeo o per avidità. La tomba rimane vuota! La desolazione dei familiari è paragonabile a quella di Maria e delle sue amiche, quando, avvicinandosi al sepolcro, si resero conto che era vuoto. Avevano comprato gli aromi per ungere il corpo inerte di Gesù (cfr. Marco 16:1). Lungo la strada sterrata “dicevano fra di loro: ‘Chi ci rotolerà la pietra dall’apertura del sepolcro?’” (Marco 16:3), ma trovarono la pietra rimossa e il suggello, simbolo del granitico Impero romano, sbriciolato. Il sepolcro era aperto e sgombro! Pensarono subito che qualcuno avesse portato via il corpo di Gesù (cfr. Luca 24:4). Allora Maria “corse verso Simon Pietro e l’altro discepolo che Gesù amava e disse loro: ‘Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’abbiano messo’” (Giovanni 20:2). Nel tempo in cui gli apostoli verificarono l’accaduto, Maria piangeva disperatamente. Gesù si presentò rivolgendole delle domande con lo scopo di attirare l’attenzione sul risorto ma, nell’immediato, pensò che fosse l’ortolano (vv. 14-15).

Anche noi, spesso, affranti dal dolore rimaniamo seduti e piangiamo come se le avversità avessero trafugato Gesù dalla nostra esperienza di vita. Avvertiamo la dolorosa sensazione di aver perso ogni speranza. La nostra coppa traboccante d’amore, di sogni e di progetti sembra vuota. L’urto violento degli eventi negativi o di una malattia che ti lascia sospeso fra il cielo e la terra è incontenibile e sfibrante. L’intenso dolore scherma il risorto e Gesù è l’ortolano o una persona qualunque cui chiedere informazioni. “Signore, se tu l’hai portato via, dimmi dove l’hai deposto, e io lo prenderò” (Giovanni 20:15).

Piangiamo! E piange anche lui, a motivo della nostra esigua lucidità spirituale. Ma non ce ne accorgiamo! Pensiamo che sia così divino, lontano, disinteressato e rimosso dalla nostra visione e percezione. La sua promessa “io sarò con voi tutti i giorni” (Matteo 28:20) fino al mio ritorno, non sembra veritiera e i ricordi più belli, le promesse, le aspettative e i segni evidenti della sua presenza, svaniscono come vapore nell’aria. Anche noi, come i discepoli di Emmaus esclamiamo: “pensavano che fosse lui il Messia!”. Non si sbagliavano (cfr. Luca 24:21-24). Solo che le loro pretese e attese profetico-esistenziali erano errate.

Forse anche la nostra comprensione di Gesù e le nostre acclamate richieste sono inadeguate, ci illudono e annientano il tempo esistenziale. Quando ciò accade cerchiamo Gesù dove non c’è. Pensiamo che sia ancora sepolto. Sommerso dai nostri sogni, progetti e devozione, invece è risorto. Affrancato da una realtà fugace e irrilevante e da una religiosità formale. È accanto a noi! Cammina con noi! Ma abbiamo l’impressione che non sia lui, bensì un giardiniere o un viandante.

Eccoci seduti a tavola, come nell’ultima cena o come la nostra prima cena vissuta con la comunità. Il pane, ancora una volta, è spezzato e benedetto, non da un uomo prossimo alla morte, ma dal risorto, da chi è in grado di riempire la nostra coppa di eternità. I nostri occhi, come quelli dei discepoli, si aprono e le penose e sgradevoli cataratte spirituali sono rimosse, lo vediamo e lo riconosciamo come lui vuole essere conosciuto. Esclamiamo: “Non sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?” (Luca 24:32).

Aveva sgombrato il cielo della sua presenza per abitare l’umanità e abbandonato la tomba per riempire la nostra coppa di speranza. Lascerà, ancora una volta, il cielo per prenderci e portarci con sé (cfr. Giovanni 14:1-3).

Quando permettiamo a Gesù di essere nostro compagno di viaggio riceviamo la capacità di reggere gli urti o gli eventi dolorosi senza spezzarci, senza che la fede e il desiderio di vivere vengano meno.1 Ci alziamo e senza indugio torniamo a Gerusalemme. Non quella terrena, ma quella celeste (cfr. Luca 24:33-35; Ebrei 12:22; Apocalisse 3:12). Dimentichiamo le cose che indugiano nel tempo dei ricordi e corriamo “verso la meta per ottenere il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù” (Filippesi 3:12-14).

 

Nota
1 “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Sarà forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Com’è scritto: ‘Per amor di te siamo messi a morte tutto il giorno; siamo stati considerati come pecore da macello’. Ma, in tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, in virtù di colui che ci ha amati. Infatti sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8: 35-39).

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Gesù esplosione di vita. Parla… che non ti ascolto!

Gesù esplosione di vita. Parla… che non ti ascolto!

Francesco Zenzale – “Hai mai visto un uomo precipitoso nel parlare? C’è più da sperare da uno stolto che da lui” (Proverbi 29:20). “Poiché in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo 12:37).

Parlare è insito nella natura umana e il “savoir bien parler” è un esercizio che tutti dovremmo imparare. Ma se con le parole cerchiamo di mistificare il bisogno di giustizia dell’altro  e di defraudarlo della sua dignità, se esprimiamo pensieri che tradiscono le nostre intenzioni, traendo encomi e benefici economici o sociali, allora le parole sono un serio problema, “poiché  in base alle tue parole sarai giustificato, e in base alle tue parole sarai condannato” (Matteo 12:37; cfr. 5:37).

L’arte del parlare è una professione consolidata, soprattutto in definite realtà pubbliche e private, ad esempio quelle politiche, religiose, finanziarie, assicurative, ecc. I talk show sono affollati di uomini e donne dal pungente ed edulcorato modo di esprimersi. Sanno cavalcare la cresta dell’onda, seguire i ritmi incalzanti degli eventi e del cuore della “povera gente” e mantenere la propria posizione perseguendo interessi personali.

Senza dubbio, la maggioranza non ha molta confidenza con il saper parlare. Ma questo non significa che viva nel silenzio. Abitualmente parla ponendo l’accento sul sé inappagato, sulle proprie disgrazie vere o presunte che siano, sul proprio standard di vita, ecc. Ci sono anche quelli che con le parole esprimono l’idea di avere sempre ragione e credono di essere “perfetti” riguardo agli altri. Soffrono e non sanno che “la felicità più grande non sta nel non cadere mai, ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta” (Confucio). Sinceramente, è difficile convivere con persone che pensano di non avere mai inciampato e che giustificano ogni ruzzolone. Essere perfetti è una virtù senza luce e umanità verso se stessi e gli altri. Il “perfetto” non sa godersi la bellezza della vita con i suoi alti  e bassi.

Scriveva l’Ecclesiaste: “Non essere precipitoso nel parlare e il tuo cuore non si affretti a proferir parola davanti a Dio, perché Dio è in cielo e tu sei sulla terra. Le tue parole siano dunque poche” (Ecclesiaste 5:2). Scrivendo ai Corinzi, uomini e donne di molte e incomprensibili parole, Paolo affermava che preferiva “dire cinque parole intelligibili per istruire anche gli altri, che dirne diecimila in altra lingua” (1 Corinzi 14:19).

“Le tue parole siano poche!”. “Cinque al posto di diecimila!”, due al posto di duemila, mezza parola al posto di mille, per poi smettere di ciarlare. Quant’è difficile da applicare! Spesso siamo  come un fiume in piena. Riversiamo sull’altro moltitudini di parole al punto che “c’è più da sperare da uno stolto” (Proverbi 29:20). Parlare è più facile che ascoltare. Siamo allenati a parlare di noi, usando pronomi “io, mio, me” e il “tu”, spesso, lo riserviamo per ingiungere, emanare giudizi e non per accedere nel cuore altrui, disponendosi al mite e interessato ascolto. La parola di Dio, con insistenza, ci invita ad ascoltare più che a parlare. Sii “pronto ad ascoltare e lento a parlare” (Giacomo 1:19).

Ascoltare!
Com’è possibile ascoltare se siamo stati, sin dalla nascita, stimolati a parlare? Il repertorio è colmo di risposte preconfezionate adatte a qualsiasi richiesta o situazione sociale. E se dovessimo essere senza cartucce, subentra il formulario evasivo. Tra genitori e figli, fratelli e sorelle, uomini e donne, ecc., esiste una particolare sindrome: il dialogo audioleso. Questa malattia crea un vuoto esistenziale empatico distinto dalla reciproca incomprensione a causa dall’incapacità di ascoltare col cuore.

Ascoltare significa essere aperti e disponibili e realmente interessati a ciò che l’altro anela condividere. Significa avere voglia di apprendere e di sorprendersi, senza interrompere e formulare conclusioni esprimendo tediose opinioni. Significa accettare le emozioni altrui anche quando contrastano con le proprie e accettare di non avere sempre ragione. Tutto questo non fa parte del nostro bagaglio educativo e culturale. Perciò, ascoltare è un’arte che s’impara. E per assimilarla bisogna in qualche modo svuotarsi dell’”io so” e istituire uno spazio nel nostro cuore affinché l’altro possa coesistere amorevolmente.

In breve, parlare è rilevante quando esprimiamo con grazia (cfr. Colossesi 4:6), gratitudine, lode, stima in risposta a una richiesta d’aiuto, ma non quanto ascoltare. Ascoltando s’impara a vivere meglio con se stessi e con gli altri. Favorisce lo sviluppo del carattere. Crea individui intelligenti e riduce nell’altro la paura delle emozioni negative. Ascoltare trasmette speranza, fiducia, stabilisce o rinsalda i legami emotivi e riconosce la dignità della persona. “Sappiate questo, fratelli miei carissimi: che ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare” (Giacomo 1:19).

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Gesù esplosione di vita. Giudizio e misericordia

Gesù esplosione di vita. Giudizio e misericordia

Francesco Zenzale – “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24).

Non ho paura del giudizio di Dio, ma di quello degli uomini. Perché è spietato, disabilitante e inquinato dalla comprensione inadeguata di se stessi, dell’altro e della vita in generale. Tuttavia gli uomini passano e ciò che rimane sono le “opere”, le quali certificheranno la nostra attuale condotta nel giorno dell’estimo finale (cfr. Apocalisse 20:12-13; 2 Corinzi 5:10).

A proposito del giudizio e della misericordia di Dio ci sono alcune idee da evidenziare. In primis, il giudizio rende evidente quella che è stata la nostra vita interiore e pragmatica (cfr. Matteo 15:19; 1 Corinzi 4: 5). La seconda nozione è che il giudizio e la misericordia sono inclusivi: l’uno non estromette l’altro, perché entrambi fluiscono dall’amore di Dio. Il terzo pensiero riguarda la sentenza e l’atto esecutivo del giudizio, mediante il quale il male sarà estirpato dall’universo. Il quarto concetto concerne l’opera mediante la quale Dio ha riempito la voragine provocata dal peccato liberando l’uomo dalla morte eterna. L’ultima idea è che la redenzione non è vincolante. L’uomo è libero di percorrere sentieri divergenti, declinando il dono della vita eterna (cfr. Giovanni 3:16; Atti 16:29-31).

“Infatti, Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è giudicato; chi non crede è già giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. Perché chiunque fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce, affinché le sue opere non siano scoperte; ma chi mette in pratica la verità viene alla luce, affinché le sue opere siano manifestate, perché sono fatte in Dio” (Giovanni 3:17-21).

Questo brano delle Scritture merita più attenzione rispetto a quella che possiamo dare in questa breve riflessione. Tuttavia possiamo affermare che chi non crede in Gesù “è già giudicato” o condannato, perché la morte è radicata nella natura umana1 e nella risolutezza di continuare a vivere nelle tenebre rifiutando la “luce”. Chi, al contrario, “crede in lui non è giudicato”, nell’accezione che le conseguenze dell’estimo, che prorompono dal peccato, non avranno alcun effetto. In Matteo, Gesù evidenzia che al suo ritorno saremo tutti soppesati, con la differenza che “gli empi andranno a punizione eterna; ma i giusti a vita eterna” (Matteo 25:31-32, 46; cfr. Ro 2:5-10).

Chi ospita Gesù, ascolta la sua parola e crede in chi l’ha inviato (Dio), “ha vita eterna; e non viene in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5:24). Passare “dalla morte alla vita” non svaluta il giudizio, lo status di uomo peccatore, ma sbriciola il “salario del peccato” che è la morte (Romani 6:23).

Nel contesto della liberazione d’Israele, la decima piaga, che tracima dall’ostinatezza del Faraone e non dal giudizio, implicava la morte dei primogeniti: egiziani e israeliti. Solo chi eseguì la volontà di Dio,2 rivelazione della sua misericordia, “passò oltre”,3 vale a dire “dalla morte alla vita” o alla liberazione (Esodo 11 e 12). Ciò significa che l’estimo non è annesso alla morte, ma alla grazia. Dio giudica non per condannare, ma per salvare. Non c’è misericordia senza giudizio e non c’è giudizio senza misericordia. Perciò, chi crede in Gesù non muore, perché il peccato e il suo devastante effetto sono incompatibili con la misericordia.4

Nella parabola del figlio prodigo, l’abbraccio redentivo del padre non impoverisce la condotta esecrabile del figlio, ma “copre una moltitudine di peccati” (1 Pietro 4:8), e inibisce l’inconsistenza esistenziale. La benignità del padre si esprime nell’accoglienza, nel vestire il pentito di abiti splendidi e nel festeggiarlo. La prospettiva che possiamo cogliere da questo dipinto, dai colori contrastanti, nel quale l’oscurità e la sofferenza precedono la luminosità e la gioia, è che la naturale e umana fragilità sarà rimossa per dare spazio a un individuo spirituale, glorioso, incorruttibile, celeste, ecc. (cfr. 1 Corinzi 15:42-49).

In breve, il giudizio nella sua accezione sgorga dall’amore di Dio, quindi ha una valenza creativa e favorevole allo sviluppo della persona. Esso non ha nulla a che fare con espressioni o comportamenti avvilenti e distruttivi. La misericordia non deprezza il giudizio, ma agisce sul peccato e la polvere (cfr. Genesi 3), permettendo all’uomo naturale, schiavo del peccato, di “oltrepassare la morte”.

Note
1 Siamo come un albero al quale sono state recise le radici. Il tempo esistenziale è limitato. Le foglie s’ingialliscono, i rami cominciano a seccarsi, poi il tronco s’infradicia e si polverizza.
2 In occasione dell’ultima piaga, motivata dall’ostinazione del faraone, che avrebbe colpito i primogeniti (Esodo 11:4-8) prima del giorno della liberazione dalla schiavitù in Egitto, gli Israeliti furono invitati a compiere due atti di fede: sacrificare un agnello e spruzzare il sangue sugli stipiti e sull’architrave della porta, come segno dell’accettazione per fede del dono della vita in favore dei primogeniti; arrostire l’agnello intero, con la testa, le gambe e le interiora, e mangiarlo con pane azzimo ed erbe amare, senza lasciare alcun avanzo fino al mattino. Andava mangiato in fretta, con i fianchi cinti, i calzari ai piedi e il bastone in mano, pronti per partire (Esodo 12:5-11).
3 La Pasqua (in ebraico Pesah, deriva dal verbo pâsah, che significa “passare oltre”), racconta il modo in cui Dio intendeva affogare la morte e la schiavitù del peccato, offrendo all’umanità la gioia della salvezza.
4 La morte, come conseguenza del peccato e uno stile di vita ostile a Dio e alla sua misericordia, è preceduta dal giudizio, che nella sua accezione è utile agli empi i quali si confronteranno con il loro indegno modus vivendi, come anche per i credenti, che ammireranno l’amore di Dio e comprenderanno i motivi per cui gli empi non si salveranno (cfr. Apocalisse 20).

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

Gesù esplosione di vita. Chiedo che tu pratichi la giustizia

Gesù esplosione di vita. Chiedo che tu pratichi la giustizia

Francesco Zenzale – “O uomo, egli ti ha fatto conoscere ciò che è bene; che altro richiede da te il Signore, se non che tu pratichi la giustizia, che tu ami la misericordia e cammini umilmente con il tuo Dio?” (Michea 6:8).

La realtà che percepisco con lo sguardo e l’udito mi demoralizza. Cerco di individuare nobili gesti di rettitudine che indubbiamente ci sono, ma sono oscurati dal male così devastante e iniquo. Aveva ragione Gesù quando dichiarò: “l’iniquità aumenterà e l’amore dei più si raffredderà” (Matteo 24:12). Tempi difficili e faticosi per chi è moralmente sensibile e integro, anche se fragile. Francamente, è difficile vivere senza compromessi e personali pericoli. Denunciare e agire in favore della rettitudine è arduo se non impraticabile. Di Gesù sta scritto che era un uomo giusto e praticava la giustizia con misericordia in favore della povera gente, senza mai scendere a compromessi con il male (cfr. Giovanni 8:46-47; 1 Giovanni 2:1, 29). Questo suo percorso irritava i capi religiosi del suo tempo. Infatti, decisero di farlo fuori con trappole legislative, false accuse e complotti, per poi eliminarlo con la collaborazione dell’Impero romano. Era l’ora delle tenebre o della perfidia (cfr. Luca 22:53).

Anche il nostro tempo è contraddistinto dall’oscurità morale, dall’indifferenza e dalla disumanità senza eguali. Si ha l’impressione che Dio sia stato defenestrato, destituito come garante dell’esistenza. Siamo “… egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, insensibili, sleali, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene, traditori, sconsiderati, orgogliosi, amanti del piacere anziché di Dio…” (2 Timoteo 3:1-5). Siamo formalmente caritatevoli.

Credo che i peggiori ostacoli nel praticare la giustizia, seguendo le orme di Gesù, siano insite nel cuore dell’uomo. Onestamente, è più agevole esprimere opinioni sulla giustizia che praticarla. C’è poi da considerare che i principi etici di riferimento risentono molto di convinzioni pedagogiche, politiche, religiose e culturali, che potrebbero non avere nulla a che fare con i parametri celesti. Da non dimenticare che per esercitare la giustizia bisogna creare uno scrigno affinché l’altro coabiti nella nostra sfera emotiva. Quest’atto implica una seria riconsiderazione del nostro status vitae. Difficile vero? Se fosse facile, non ci sarebbe bisogno della nuova nascita o di modificare il nostro modo di pensare e di agire! (cfr. Giovanni 3:7; Efesini 4: 20-25).

Di Gesù sta scritto, che “svuotò se stesso” o “spogliò se stesso” (Filippesi 2:7 NR e Cei) per servire l’umanità con fatti di giustizia (cfr. Isaia 61:1-3; Luca 4:16-21). Gesù si è svuotato o spogliato della sua natura divina, rinunciando a una condizione di vita celestiale che non riusciamo minimamente a immaginare. Gesù si è impoverito per abbracciare la nostra disordinata e fugace esistenza. Si è svuotato per abitare la natura umana e si è spogliato per vestirsi di noi, di me e di te, affinché avessimo l’opportunità di vestirci della sua grazia e del suo stile di vita (Colossesi 3:1-25).

Questa metamorfosi, che per l’umanità ha un valore redentivo, è incoraggiante per chi desidera smettere di essere bruco e diventare farfalla. La realizzazione di questa trasformazione richiede condizioni ardue da praticare, ma non impossibili. Perché bisogna svuotarci del nostro orgoglio e riempirsi di umanità, spogliarci dei nostri parametri morali per indossare requisiti etici che s’ispirano alla giustizia di Cristo, distanziarci dalle nostre paure e insicurezze per concederci al prossimo seguendo il Maestro.1

Per praticare la giustizia, è indispensabile essere affamati e assetati (cfr. Matteo 5:6), ovverosia soffrire per la propria e l’altrui ingiustizia. Dal desiderio di giustizia fluisce l’azione in favore di chi ha sete, fame ed è bisognoso di affetto, di perdono e di speranza. Di chi è maltrattato o defraudato nella sua dignità (cfr. Deuteronomio 10:18; Matteo 25:35-36; 26:11).2

In breve, praticare la giustizia significa, nei limiti delle nostre possibilità, soddisfare i bisogni esistenziali dell’altro. Muoversi riconoscendo i nostri errori e auspicando che l’altro discerna i propri e cercando di vivere in pace con tutti (cfr. Romani 12:18). Cogliere le ingiustizie sociali o umanitarie e denunciarle con fervore con leciti strumenti e senza giustificarle. Volere, come Mosè,  amministrare la giustizia senza tralasciare il buon senso e la misericordia (cfr. Esodo 18:13).

Note
1 Le nostre insicurezze e paure ci invogliano a rimanere ancorati alle nostre convinzioni morali, religiose e sociali. Queste costituiscono una corazza esistenziale autolesiva. All’interno di quest’armatura, il sapere teologico, religioso e comunitario è subordinato alla nostra fragilità emotiva ed esistenziale. Ci muoviamo, come pesci in un acquario, senza avere nessuna possibilità di nuotare e nutrirsi nell’oceano della vita. Si ha l’impressione che l’esistenza fluisca nel miglior modo, in realtà ruota intorno a schemi mentali, culturali e religiosi ben definiti.

2 Il Signore gradisce “… che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo (…) che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne (…) Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, la gloria del SIGNORE sarà la tua retroguardia” (Isaia 58:6-8).

 

Pubblicato in omaggio e memoria dell’autore.

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