bibbia e luceFrancesco Zenzale – Nell’immensa e differenziata galassia del cristianesimo, la Pasqua, dopo il Natale, è la più importante festa cristiana. Essa da una parte si richiama alla Pasqua ebraica, che ricorda la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù egiziana. Dall’altra, rievoca la risurrezione di Cristo, preceduta dalla sua passione e morte, mediante la quale ha introdotto nell’universo la speranza della vita eterna, ponendo fine al peccato in tutte le sue conseguenze, compresa la morte (1 Cor 15:51-58; Rm 6:23; 8:18-23).

Fra le due festività esiste una significativa differenza teologica e temporale. Quella teologica – spirituale la possiamo cogliere nel successivo paragrafo. Per quanto riguarda quella temporale, si può con certezza affermare che la Pasqua ebraica non aveva una scadenza fissa, come quella cristiana.[1] Il motivo per cui la Pasqua cristiana si osserva sempre nello stesso giorno è probabilmente legato all’osservanza della domenica al posto del sabato, quale settimo giorno e quarto comandamento (Es 20:8-11).[2]

Nel Nuovo Testamento, in particolare nelle lettere apostoliche, non troviamo nessuna indicazione circa l’osservanza della Pasqua da parte degli apostoli. L’apostolo Paolo ne parla come di un evento tipologico storico – messianico già realizzato nella persona di Gesù (1 Cor 5:7). L’autore della lettera agli Ebrei la menziona rievocando la notte in cui «lo spruzzamento del sangue affinché lo sterminatore dei primogeniti non toccasse quelli degli Israeliti» (Ebr 11:28).

La Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno ritiene che la Pasqua, nel suo significato tipologico-messianico, faccia parte di quelle feste annuali dell’Antico Testamento che trovano il loro adempimento in Cristo, e quindi non più normative per i cristiani. Inoltre, crede che si rispetti il suo significato mediante la celebrazione della cena del Signore.

Ciò non significa che non si possa aderire, anche se non c’è nessun fondamento biblico. Non c’è nulla di malvagio nella celebrazione della Pasqua per ricordare la crocifissione, la morte e la risurrezione di Gesù, purché sia vissuta nello spirito di Cristo e non consumistico: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate alcun’altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio» (1 Cor 10:31).

La Pèsach
La Pasqua (in ebraico Pesah significa «passaggio») è una festa primaverile che ricorre il 15 di Nisan dopo la festa degli azzimi (di sette giorni in Israele e otto nella diaspora).[3] La festa ricorda l’esodo dall’Egitto (Es 34:25). Era chiamata in due modi: hag ha-Pesah (festa di Pasqua) perché Dio passò e protesse le case dei figli d’Israele (Es 12:23) e hag ha-Mazzot (festa degli Azzimi cfr. Es 23:15; Lv 23:6; Dt 16:16).[4] La sera del 14 di Nisan veniva immolato l’agnello pasquale, arrostito per intero (Es 12:1-28, 43-49; Dt 16:1-8) e consumato in famiglia. Il seder (ordine) della Pasqua è basato sulla responsabilità dei genitori nel trasmettere ai propri figli le ragioni della festa: «In quel giorno tu spiegherai questo a tuo figlio, dicendo: “Si fa così a motivo di quello che il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto”» (Es 13:8).[5]

Nel suo significato sociale, indica un cambiamento da una condizione a un’altra. Dalla schiavitù implicante una dipendenza totalitaria (Egiziana), alla liberazione, che ha in sé, comunque una dipendenza, ma caratterizzata da una libera scelta da chi dipendere o relazionarsi.

Nel suo significato psicologico, indica un cambiamento di mentalità, del modo  di pensare in rapporto a Dio, a se stessi, al prossimo e alla vita in generale. Pasqua è dunque «passare oltre» o «andare oltre» la visione che si ha di se stessi, del prossimo e della vita. Liberarsi dei tabù, degli handicap psicologici e librarsi verso una nuova vita. Pasqua è un risorgere a nuova vita.

Nel suo significato spirituale, indica un cambiamento religioso, un passaggio implicante un atto di adorazione rivolto a Dio. Pasqua è «passare oltre» nel senso di trascendere se stesso e dare un senso alla vita a partire da Dio il risorto. Comporta un movimento, un percorso verso la terra promessa e il raggiungimento di essa: la Canaan celeste.

In breve, la Pasqua è festa della libertà, del risorgimento ebraico. È la prima festa dell’anno e gli Israeliti la chiamano “festa della nostra liberazione”. Ricorda i secoli della schiavitù egiziana e il meraviglioso riscatto grazie all’intervento straordinario di Dio. In quella notte nasce Israele, un popolo eletto, una nazione,[6] portatrice degli oracoli di Dio, con la specifica funzione di testimoniare[7] dell’evento messianico che s’è realizzato nella persona di Gesù, il liberatore per eccellenza. Colui che avrebbe liberato l’umanità dalla schiavitù del peccato e procurato la redenzione eterna.[8]

Infatti, l’agnello pasquale sgozzato, arrostito e mangiato con erbe amare, era il simbolo del vero Agnello di Dio. Sin dall’inizio della sua missione Gesù viene presentato come «l’agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo» (Gv 1:29).  In Apocalisse si legge: «Poi vidi, in mezzo al trono e alle quattro creature viventi e in mezzo agli anziani, un Agnello in piedi, che sembrava essere stato immolato, e aveva sette corna e sette occhi che sono i sette spiriti di Dio, mandati per tutta la terra» (Ap 5:6; cfr. Gv 1:36; At 8:32).

La Pèsach, Gesù e la nuova istituzione[9]
Il contesto pasquale è una scelta voluta da Gesù. Quando invia i suoi discepoli a preparare la Pasqua (Mt 26:17,18; Mc 14:12-16; Lc 22:7-12), aveva già stabilito degli accordi con il proprietario della casa. L’importanza che Gesù accorda a questo incontro è espresso nelle parole rivolte ai discepoli: «Ho vivamente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi, prima di soffrire» (Lc 22:15). Perché la scelta del contesto pasquale?

Come abbiamo visto, la Pasqua ricordava l’intervento miracoloso di Dio per la liberazione d’Israele dalla schiavitù egiziana, restituendo piena libertà al suo popolo. Il sacrificio pasquale era un segno della grazia redentrice di Dio e dell’alleanza con il suo popolo.

Ma la Pasqua era anche l’anticipazione della redenzione messianica. Durante il pasto, Gesù parla di non mangiare più la Pasqua «finché sia compiuta nel regno di Dio» (Lc 22:16; Mt 26:29) e di bere la nuova coppa nel regno che sta per venire (Lc 22:18; Mc 14:25).

Gesù pone la Cena tra la Pasqua e l’esodo e il banchetto messianico della fine dei tempi. Praticamente collegandola al pasto pasquale Gesù trasforma la Cena in un memoriale del passato e un’anticipazione del futuro; una celebrazione della salvezza prefigurata nella Pasqua e una profezia della consumazione della salvezza finale al suo secondo ritorno: «Poiché ogni volta che mangiate questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor 11:26).

Le parole di Gesù sul pane: «Questo è il mio corpo che è dato per voi» (Lc 22:19) o «rotto» (1 Cor 11:24) «per voi» fanno allusione alla sua morte imminente, in un linguaggio chiaramente sacrificale. Nel contesto di Pasqua, sarebbe strano che Gesù avesse in mente un altro sacrificio oltre a quello pasquale. L’identificazione con l’agnello della Pasqua è confermata anche da altri brani del Nuovo Testamento come per esempio 1 Corinzi 5:7 in cui si dice che «Cristo, la nostra Pasqua, è stato immolato».[10]

Nel linguaggio sacrificale dell’Antico Testamento, il sangue è il simbolo della vita che solo Dio può donare: «Poiché la vita della carne è nel sangue. Per questo vi ho ordinato di porlo sull’altare per fare l’espiazione per le vostre persone; perché il sangue è quello che fa l’espiazione, per mezzo della vita» (Lv 17:11).

Al tempo di Gesù, la nozione dell’espiazione nella festa della Pasqua era rappresentata dalla «coppa della redenzione». Si capisce che Gesù utilizzi questa coppa come simbolo del suo sangue «sparso per molti». Inoltre, la Pasqua era diventata la festa del rinnovamento del patto, e non stupisce che Gesù abbia scelto questo contesto per parlare del suo sangue, rappresentato dalla coppa, come della «nuova alleanza» (1 Cor 11:25; Lc 22:19).[11]

L’ordine: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22:19), tramite il quale Gesù ha l’intenzione di perpetuare il rito della Cena, è altresì un elemento della liturgia pasquale. Infatti, come la Pasqua era la commemorazione e l’attualizzazione della liberazione d’Israele, così la Cena è la commemorazione e l’attualizzazione della redenzione ottenuta per mezzo del sacrificio di Cristo. La comunione del pane e del vino attualizza e ricorda, nei secoli, l’avvenimento di Cristo fino alla sua seconda venuta. Questo implica che la Cena è una creazione di Gesù a partire da una re-intepretazione e trasformazione di una cerimonia preesistente, la cui data è relativa, visto che Gesù stesso ha dato poca importanza. Ciò spiega perché molti credenti, inclusi gli avventisti, attribuiscono una notevole importanza al significato della celebrazione piuttosto che alla data di questa, tra l’altro alquanto incerta.

La santa Cena che noi celebriamo è molto più che un seder di Pasqua ad uso dei cristiani. Il contesto tradizionale non ci impedisce di cogliere l’estrema novità teologica di questa celebrazione. Chiama in causa insegnamenti nuovi e unici che rendono questo rito profondamente cristiano che non è possibile comprendere solo nel contesto delle feste ebraiche. Fin dalle origini, l’originalità del servizio di comunione ha conferito alla cerimonia della Cena un significato specifico che va oltre il senso della Pasqua, mezzo provvidenziale che doveva preparare e annunciare la grande redenzione pasquale compiuta da Cristo Gesù.[12]

Sta a noi di riconfermare l’accettazione della salvezza e rinnovare il nostro patto con il Salvatore, ogni volta che partecipiamo alla santa Cena.

 

Note

[1] Gli ebrei, secondo il comandamento biblico (Lv 23:5), la celebravano il 14 di Nisan, un mese oscillante tra marzo e aprile. La Pasqua ebraica e la Pasqua cristiana seguono regole di calcolo differenti e quindi non cadono quasi mai nella stessa data. All’interno del cristianesimo poi vi sono due regole differenti a seconda che si usi il calendario gregoriano (cattolici e protestanti) o quello giuliano (ortodossi). Queste due regole in alcuni anni danno la stessa data (e quindi tutti i cristiani festeggiano la Pasqua nello stesso giorno), in altri anni date differenti. La regola che fissa la data della Pasqua cristiana fu stabilita nel 325 dal Concilio di Nicea I: la Pasqua cade la domenica successiva alla prima luna piena dopo l’equinozio di primavera (21 marzo).  Di conseguenza essa è sempre compresa nel periodo dal 22 marzo al 25 aprile. Supponendo, infatti, che il primo plenilunio di primavera si verifichi il giorno dell’equinozio stesso (21 marzo) e sia un sabato, allora Pasqua si avrà il giorno immediatamente successivo, ovvero il 22 marzo. Qualora invece il plenilunio si verificasse il 20 marzo, bisognerà aspettare il plenilunio successivo (dopo 29 giorni), arrivando quindi al 18 aprile. Se infine questo giorno fosse una domenica, allora occorrerà fissare la data della Pasqua alla domenica ancora successiva, ovvero al 25 aprile.

[2] Per l’approfondimento di questo argomento rimandiamo il lettore ad uno studio del Pastore emerito, Giovanni Leonardi, Pasqua, perché sempre di domenica. Per riceverlo f.zenzale@avventisti.it

[3] La festa dei Pani Azzimi (menzionata in Es 12:8,15,17-20;13:3-7;23:15;34:18; Dt 16:3,8,16) cade fra 15 al 21 nissàn di ogni anno. Il nome della Festa è dato dai pani non lievitati che per tutta la durata della festa devono essere usati: מַצֹּות (matzòt), “azzime”. Le azzime sono impastate usando solo acqua, senza lievito. “Per sette giorni non si trovi lievito nelle vostre case, perché chiunque mangerà qualcosa di lievitato, sarà eliminato dalla comunità d’Israele, sia egli straniero o nativo del paese”. – Es 12:19.

[4] Perché il pane non lievitato? La spiegazione si trova in Dt 16:3 in cui è detto di mangiare “pane azzimo, pane d’afflizione, poiché uscisti in fretta dal paese d’Egitto, affinché per tutta la vita ti ricordi del giorno che uscisti dal paese d’Egitto”. Il pane non lievitato doveva far ricordare ogni anno agli ebrei che loro erano partiti in fretta dall’Egitto, tanto che non ebbero il tempo di far lievitare il pane: “Il popolo portò via la sua pasta prima che fosse lievitata; avvolse le sue madie nei suoi vestiti e se le mise sulle spalle” (Es 12:34). Il pane non lievitato rammentava l’afflizione e la schiavitù da cui erano stati liberati da Dio. Dovevano rendersi conto e riconoscere, non dimenticandolo, che la loro libertà (personale e nazionale) la dovevano a Dio.

[5] Roberto Badenas, Il Messaggero avventista n. 4/2006 pp. 5-7- Il seder segue il seguente ordine:

  1. Kaddesh (santificazione): la festa era introdotta dal Kiddush (benedizione) rivolta a Dio per aver dato questa festa.
  2. Rehaz (abluzione): il rito della purificazione richiedeva il lavare le mani.
  3. Karpas (verde): il prezzemolo viene immerso in acqua salata.
  4. Yahaz (divisione): il pane azzimo viene diviso in due e una metà viene nascosta. La seconda parte afikoman (dopo il pasto) viene consumata alla fine. C’è un premio per il bambino che riesce a trovare la parte nascosta.
  5. Maggid (recitazione): è la recitazione dell’Haggadah.
  6. Rahzah (lavarsi): il rituale di lavarsi le mani prima di rompere il pane.
  7. Mozi (portare fuori): come rendimento di grazia prima del pasto si recita: «Benedetto sei tu… che porti fuori (ha-mozi) il pane».
  8. Mazzah o Matzah – pane azzimo (cima): si mangiano i pezzi superiori (mazzah) è quello di mezzo rotto.
  9. Maror: le erbe amare sono bagnate nell’haroset e consumate.
  10. Korekh (legare): si legano insieme i pezzi superiori (mazzah) con le erbe amare secondo il testo di Numeri: «Mangeranno la vittima con pane azzimo e con erbe amare» (9:11).
  11. Shulhan arukh (tavola imbandita): si consuma il pasto della festa.
  12. Zafun (nascosto): l’altra metà del pane (afikoman) viene trovata e mangiata.
  13. Barekh (benedizione): Dopo il pasto si recita un rendimento di grazie.
  14. Hallel (salmo di lode): Si recitano i Salmi 115-118.
  15. Nirzah (accettazione).

[6] “Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia” (1 Pt 2:9-10).

[7] “I miei testimoni siete voi, dice il SIGNORE, voi, e il mio servo che io ho scelto, affinché voi lo sappiate, mi crediate, e riconosciate che io sono. Prima di me nessun Dio fu formato, e dopo di me, non ve ne sarà nessuno” (Is 43:10).

[8] Isaia  42: 1-4; cap. 53; Salmo 130:7; Romani 3:24; Efesini 1:7; Ebrei 9: 12; ecc.

[9] Tratto da Pasqua e santa Cena, di Roberto Badenas, Il Messaggero avventista n. 4/2006 pp. 5-7.

[10] L’identificazione simbolica tra pane e agnello pasquale è già attestata nel giudaismo alla fine del primo secolo, nella cerimonia dell’afikomen. Benché questa cerimonia non sia ancora stabilita ai tempi di Gesù, essa è una conferma che la relazione tra pane e agnello pasquale non è una forzatura.

[11] Il perdono dei peccati, associato al sangue, era diventato già da tempo un tema pasquale e che il dono del figlio benamato come sacrificio espiatorio, elemento fondamentale nella teologia del Nuovo Testamento, era già collegato alla Pasqua nella tradizione dell’Aqueda (Megillot 31a).

[12] R. Le Déant, La nuit pascale. Essai sur la signification de la Pâque juive à partir du Targum d’Exode XII, 42, Rome, 1980, p. 375.

 

 

 

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