Come educatore mi sento interpellato a intervenire in seguito al recente dibattito sul tema delle adozioni da parte delle coppie gay apparso su questa testata (Il Messaggero Avventista Online, n. 5, 9, 11).

La tesi di Mozzato «meglio-poco-che-niente» ha un suo valore intrinseco, soprattutto quando di fronte a problemi concreti desideriamo trovare delle soluzioni pragmatiche piuttosto che dibattere idealmente. Inoltre, la prassi pedagogica di Dio è intrisa di continui aggiustamenti tra ideale-e-realtà (a questo si ispirò Gesù quando disse: «Fu per la durezza dei vostri cuori che Mosè vi permise di mandar via le vostre mogli; ma da principio non era così», Matteo 19:8).

Ma siamo proprio sicuri che si possa applicare anche al tema delle adozioni gay? Che un bambino adottato da un coppia gay sia il «male minore»? Che sia la risposta concreta a un reale bisogno?

Per rispondere, dobbiamo prima domandarci da dove proviene l’istanza di tali adozioni. Proviene da uno Stato che si trova con un surplus di bambini orfani, rispetto alla domanda da parte di coppie eterosessuali, e la cui efficacia nel garantire uno Stato sociale verso tali bambini è ridotta al minimo? No di certo. Piuttosto, ci troviamo nel caso di una richiesta da parte del movimento gay, o per meglio dire del movimento Glbt (acronimo di: gay, lesbiche, bi-sessuali, transessuali), che invoca il diritto all’adozione non in virtù del «male minore» quanto quale conseguenza di una richiesta di legittimazione sociale e normalizzazione della diversità. Questo movimento culturale sta facendo pressione legislativa anche tramite ricerche sociologiche nel campo educativo che intendono dimostrare che i figli che crescono in una famiglia omosessuale mostrano un normale sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo, al pari di quelli cresciuti in famiglie eterosessuali.

Non è detto, però, che i risultati di queste ricerche siano indiscutibilmente accettati nel panorama scientifico. Rekers, ad esempio, afferma che gli studi sociali sulle adozioni gay non rispondono ancora ai criteri metodologici propri delle scienze sociali: i campioni intervistati sono ancora troppo limitati; i gruppi di controllo non sempre sono omogenei (ad es. si confrontano coppie omosessuali con genitori singoli); nel caso in cui vengano usati questionari self-report, non si può eliminare la tendenza delle coppie omosessuali a sovra-stimare le caratteristiche dei propri «figli»; ecc.1 Anche Fond e colleghi2, in una recente revisione della letteratura sull’argomento delle adozioni gay, rilevano gli stessi problemi metodologi. Inoltre, e qui è un punto importante, le ricerche attuali si sono concentrate poco sugli effetti a lungo termine del crescere in una famiglia omosessuale. A riguardo, citano il primo studio sulla qualità relazionale («stile di attaccamento») di donne che avevano avuto padri gay o bisessuali3, il cui risultato metteva in evidenza che, rispetto a quelle cresciute da padri eterosessuali, queste donne si sentivano a disagio in situazioni di vicinanza o intimità, erano meno capaci di fidarsi di qualcuno o di fare affidamento sugli altri, e sperimentavano più ansietà nelle loro relazioni.

Ma il problema non può essere circoscritto soltanto agli aspetti evolutivi della personalità, in quanto potremmo anche trovare una coppia gay potenzialmente capace a educare un bambino. Ciò che è in questione, qui, non sono le sole competenze educative quanto un fattore naturale che oggi, sempre più, viene compreso come fattore culturale, cioè: la comprensione della sessualità e lo sviluppo dell’identità di genere. È ovvio che un bambino che crescerà in una coppia gay, inevitabilmente, comprenderà lo sviluppo della sua identità sessuale-biologia non necessariamente dipendente da quella di genere. È questo quello che afferma il movimento Glbt: si può nascere con degli attributi esterni ma sentirsi totalmente altro. Riconoscere questa «libertà laica» all’adulto è una cosa. Proporla – imporla – a un bambino è altra cosa. La genitorialità è un fatto che la natura ha inscritto in un atto d’amore tra un uomo e una donna e ascritto alla medesima diade uomo-donna. Questo valore aggiunto porterà nel bambino la consapevolezza che il dono della procreazione sussiste in lui e grazie a lui. Le adozioni gay, mentre tentano di offrire un apparente vantaggio (a chi, poi, al bambino adottato o ai genitori gay?), minano il fondamento stesso della natura. E visto che sono anche uomo di fede, sono chiamato a valutare la mia idea del mondo – della polis – anche alla luce della rivelazione. Il mio ruolo nella società non è anche questo? Cioè quello di testimoniare quei valori cristiani che sono valori anche in quanto «naturali»?
Roberto Iannò, direttore nazionale del dipartimento Educazione

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Note

1 Rekers, G., & Kilgus, M. (2001-2002). Studies of Homosexual Parenting: A Critical Review. Regent University Law Review, 14 (2), 343-382.
2 Fond, G., Franc, N. & Purper-Ouakil, D. (2012). Homoparentalité et développement de l’enfant: données actuelles. Encephale, 38 (1), 10-15.
3 Sirota, T. (2009). Adult Attachment Style Dimensions in Women Who Have Gay or Bisexual Fathers. Arch Psychiatr Nurs; 23 (4), 289-97.

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