Il racconto di un’esperienza missionaria dalle tinte forti e sorprendenti, inseguendo un sogno nel cuore profondo dell’Ecuador: testimoniare con la propria vita la Parola d’amore del vangelo

Eliza Vlădescu – Jim Elliot aveva 25 anni quando andò in Ecuador in seguito a una risposta che cercava da Dio sul suo futuro. Da bambino sognava di fare il marinaio e aveva imparato il gergo delle navi e della navigazione dal dizionario Webster. Era portato anche per il disegno e si interessò all’architettura durante le scuole superiori. Il viaggio in Ecuador significava abbandonare i suoi sogni d’infanzia, lasciare i genitori, separarsi dalla donna che avrebbe dovuto essere sua moglie e rinunciare al successo che tutti si aspettavano da lui in veste di professore universitario di letteratura.

Tutto questo fu accantonato per vivere in mezzo alle tribù della giungla. Secondo la moglie, Jim non era il tipico missionario cristiano. Era stato suo padre a insegnargli fin da piccolo che la Bibbia è un libro da vivere e che questa esistenza non è austera, noiosa o isolata dalla società.

Quando prese la decisione di dedicare la sua vita a Gesù, Jim volle essere fiero della sua fede e la Bibbia regnava sempre sovrana tra tutti i libri di testo che portava in classe. Tuttavia, la sua fidanzata, prima abbandonata e poi divenuta sua moglie, seguendolo in Ecuador, scrive che per quanto Jim fosse devoto alla Bibbia e a Dio, era altrettanto felice di stare accanto al prossimo. Considerato non solo un uomo straordinario, ma anche un amico spiritoso, Elliot era ammirato dai suoi colleghi.

Conforme al cuore di Dio 
Jim dedicò giorni alla preghiera per comprendere il piano di Dio. E come trovò la risposta? 
"Nessuna visione, nessuna voce, ma il consiglio di un cuore che guarda a Dio".[1] Così, verso la fine dei suoi studi, seguì il suo cuore colmo di desiderio per il Signore e divenne un missionario in un Paese del Sudamerica. Nella lettera con cui informava i genitori della sua decisione, racconta di essersi sentito strattonato via dalla tentazione della fama, di una posizione importante e del successo accademico. "Di certo non possono significare nulla per l’anima che ha visto la bellezza di Gesù Cristo" conclude.[2]

I suoi genitori gli dissero che avrebbe potuto essere altrettanto utile negli Stati Uniti, ma Jim fu irremovibile. "Non oso restare a casa mentre i Quichuas muoiono. E se la chiesa ben strutturata in patria avesse bisogno di essere stimolata? Ha le Scritture, Mosè, i profeti e molto altro".[3] Al contrario, i nativi avevano una vita difficile e violenta, dominata da sciamani, rabbia e sangue. Tra tutte le tribù che abitavano l’Ecuador, una resistette ai tentativi occidentali di colmare il divario tra modernità e barbarie.

Con il vangelo in mano, i missionari operavano sul territorio già da 25 anni e avevano raggiunto molte tribù, ma quella Auca respingeva regolarmente tutte le loro iniziative. Il destino di coloro che tentavano di avvicinarsi a questa tribù seminomade era tragico, con poche eccezioni. Le possibilità di contatto con la tribù non erano state né poche né minime. Dai missionari gesuiti ai conquistadores, dai coloni della zona ai lavoratori della stazione della compagnia petrolifera Shell, quasi nessuno ne uscì vivo.

In ogni modo, anche gli indigeni sarebbero stati probabilmente decimati se Elliot e la sua squadra non li avessero trovati in tempo, poiché il tasso di uccisioni tra le tribù e all’interno di esse era estremamente alto. Era evidente per i missionari che queste persone avrebbero tratto beneficio dal conoscere Dio. Con una forte convinzione nella loro missione di predicare il vangelo fino agli estremi confini della terra, i giovani Jim Elliot, Pete Fleming, Ed McCully, Nate Saint e Roger Youderian si trasferirono in Ecuador insieme alle loro mogli e ai figli.

Cinque uomini e un aereo giallo 
La missione iniziò con un anno di preparazione in un campo in cui vivevano alcune persone salvate da altre tribù, tra queste Dayuma, una ragazza fuggita dagli Auca per paura di essere uccisa. Dopo aver appreso alcuni messaggi di amicizia, gli uomini sorvolarono gli accampamenti delle tribù con un piccolo aereo giallo, gridando le loro parole e lanciando dei doni legati a una corda. Trascorsero molte settimane e furono lasciati cadere 15 doni finché la gente della tribù cominciò a rispondere con un segno di amicizia, ricambiando con dei doni anche per i missionari.

Incoraggiati dalla relazione che si era instaurata, il 3 gennaio 1956 i cinque uomini atterrarono sulla spiaggia del fiume Curaray, vicino alla tribù, e vi installarono il loro campo. Tre giorni dopo arrivarono i primi visitatori che mostrarono entusiasmo verso l’aereo. Invitati dalla riuscita del primo incontro, i missionari erano convinti che l’occasione successiva sarebbe stata quella che stavano aspettando, scelta da Dio stesso per far conoscere la sua Parola alla gente locale.

Quell’opportunità si sarebbe presentata la domenica successiva. I missionari incaricarono le loro mogli di pregare e aspettare, alle 16.40, il loro segnale. Quando scoccarono le lancette dell’orologio all’ora stabilita, tutto si bloccò. Nessun crepitio della radio, nessun segnale. Cinque minuti, dieci minuti… niente. Possibile che le cose fossero andate così bene e gli uomini fossero ancora impegnati con i nativi? Alle 7 del mattino di lunedì 9 gennaio 1956, Johnny Keenan, che era partito alla ricerca dei missionari a bordo di un piccolo aereo, inviò il primo messaggio: il velivolo giallo era stato rinvenuto completamente distrutto, aveva anche il foro di un proiettile.

"Il frutto del giusto è un albero di vita, il saggio conquista gli animi" (Proverbi 11:30).

Dei missionari non vi era alcuna traccia. La notizia della loro scomparsa finì sulle prime pagine dei giornali statunitensi e fu inviata una squadra di ricerca. Tre giorni dopo la perdita di contatto, fu trovato il primo corpo e in seguito gli altri tre. Erano stati gettati nel fiume; alcuni aveva ancora le lance conficcate e tracce di ferite da machete. Il corpo di Ed McCully non fu rinvenuto, ma un nativo che si era recentemente convertito grazie all’impegno di Ed trovò il suo orologio e una scarpa.

La fiducia incrollabile in Dio delle mogli di questi martiri ha aiutato i loro figli a comprendere che quanto era accaduto non era una tragedia, ma parte del piano del Signore, per il quale tutti si erano preparati. Mentre gli adulti avevano accettato il disegno di Dio, non fu altrettanto facile per i più piccoli. La figlia di Ed all’epoca aveva solo tre anni e spesso esprimeva quanto le mancasse il papà, dicendo: "Vorrei solo… che potesse giocare con me di tanto in tanto".

Poche settimane dopo la morte del padre, la sua nostalgia fu parzialmente addolcita dall’arrivo di un fratellino. Il prezzo non era troppo alto? Cinque giovani vite perse senza nemmeno aver raggiunto il loro proposito? La moglie di Jim Elliot era certa che non fosse così. Le vedove ricevettero delle lettere dai missionari di tutto il mondo, dall’Europa all’Africa, dal Giappone all’America, e sembrava che l’intero movimento missionario si fosse rivitalizzato, affidandosi nelle mani di Dio con ancora maggiore dedizione.

Lontano dalle coste italiane, un ufficiale della Marina americana, vittima di un naufragio, ricordò le parole di Jim che aveva letto su un giornale: "Quando arriva il momento di morire, assicuratevi che l’unica cosa da fare sia morire!". Pregò di essere salvato, riconoscendo che aveva ancora molto altro da fare. Dio rispose alla sua preghiera.

Anche le mogli dei cinque missionari tornarono in missione subito dopo la tragedia. In seguito si sarebbe scoperto che il loro sogno si era realizzato proprio nel momento del loro ultimo sacrificio.

Battezzato dagli assassini 
"Oggi sono seduto all’interno di una minuscola capanna di foglie sul fiume Tiwanu, non molti chilometri a sud-ovest di ‘Palm Beach’ (il posto in cui morirono i cinque uomini). In un’altra capanna di foglie, a soli tre metri di distanza, ci sono due dei sette uomini che uccisero mio marito", scrive la vedova di Jim, Elisabeth, tre anni dopo l’assassinio del suo sposo. Come è possibile? Rachel Saint, la sorella del pilota assassinato, ha continuato a vivere vicino alla tribù e a studiare il dialetto Auca con l’aiuto di Dayuma. Nel frattempo, altre due donne della tribù erano fuggite e avevano raggiunto il campo dei "rifugiati".

Quando le tre donne Auca, ora tutte cristiane, si incontrarono dopo 12 anni, iniziarono a discutere della possibilità di tornare nella tribù. E lo fecero il 3 settembre 1958. Rimasero lì per tre settimane, condividendo storie sulla gente bianca che avevano imparato ad amare. Alla fine, rientrarono all’accampamento con un invito per Rachel ed Elisabeth, insieme ai loro figli, ad andare a vivere nella tribù Auca. Così, l’8 ottobre 1958, avvenne il miracolo tanto atteso dai missionari.

"Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà" (Marco 8:35).

La tribù accolse il gruppo in amicizia, costruì per loro delle case e il figlio di Nate, Stephen, fu battezzato da coloro che avevano ucciso suo padre; ora erano suoi amici. Gli uomini spiegarono che avevano assassinato i missionari perché li credevano cannibali. La paura li aveva spinti ad agire in un modo che ora consideravano sbagliato. Conoscendo Dio, compresero che quel giorno, quando i missionari non usarono le loro armi per sparare contro di loro, furono salvati dal loro stesso odio, dalla rabbia e dalla ferocia che fino a quel momento avevano spezzato delle vite in un istante.

Sulla riva di un fiume straniero, cinque missionari si trovarono in un luogo dove nessun altro era stato e dove nessuno sarebbe potuto arrivare, affrontando un bivio tanto personale e unico per ciascuno di loro: la propria vita o quella dei nativi. Dinanzi alla morte imminente, ebbero il tempo di capire le conseguenze delle loro decisioni e di compiere comunque l’estremo sacrificio.

Tutti abbiamo un debito con la morte, ma che impatto avrà sul mondo che ci lasciamo alle spalle?

Note 
[1] Elisabeth Elliot, Through Gates of Splendor (Attraverso le porte dello splendore), Tyndale Momentum, 1981. 
[2] Ivi. 
[3] Ivi.

[Fonte: st.network. Traduzione: V. Addazio]

 

 

 

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