Coraggio!

Coraggio!

Michele Abiusi – Un episodio dei Vangeli che mi è sempre piaciuto leggere è quello riportato in Matteo 14:22-27, dove si racconta di Gesù che cammina sulle acque, mentre i discepoli combattono con il mare in tempesta. Nel vederlo gridano pensando che sia un fantasma, ma Gesù dice loro: “Coraggio, sono io!”.

Facciamo un passo indietro e ricordiamo insieme il contesto in cui si inserisce questo versetto. Gesù aveva appena parlato di fronte a cinquemila persone intervenute per ascoltarlo. I suoi discepoli lo avevano avvicinato dicendogli di congedare la folla affinché le persone potessero rifocillarsi nei villaggi vicini.

Gesù invece ribadisce: “Non hanno bisogno di andarsene. Date loro voi da mangiare”. Benedice cinque pani e i due pesci, vengono distribuiti e la folla viene saziata con questo cibo, tanto da consentire la raccolta di circa dodici ceste piene di pezzi avanzati del pranzo. Poi obbliga i discepoli a salire sulla barca e si allontana verso il monte per pregare.

Trasferiamoci per un attimo, con la nostra mente, a quel momento così ben descritto dal Vangelo di Matteo. Ci siamo anche noi con i discepoli, quella notte, su quella barca lontana dalla terra ferma, sbattuta dalle onde, perché il vento era contrario. È buio, vi è una tempesta in atto. Fa freddo, i discepoli si sentono soli, persi.

Il paragone suscitato da queste parole con la nostra vita e il mondo che ci circonda è immediato. Quante volte ci siamo trovati nel mezzo di una tempesta di situazioni, che sono poi gli episodi della vita. Malattie nostre, di persone a noi care, disperazione per incomprensioni con i propri fratelli, con la propria moglie o marito, o padre o madre, offese, mancanza di lavoro, invidie, gelosie, derisioni… La barca, immagine della nostra vita, è sbattuta tra le onde. Abbiamo perso il senso dell’orientamento. Siamo disperati.

Ormai il miracolo avvenuto quella mattina con la distribuzione di cinque pani e due pesci a cinquemila persone è solo un ricordo. In un attimo abbiamo quasi perso tutto e la nostra vita stessa è in pericolo. Sicuramente qualcuno invoca il Signore Gesù…

Siamo alla quarta vigilia, dalle 3 alle 6 del mattino, stanchi, deboli, sfiniti. Nell’ora della giornata in cui si dovrebbe riposare, i discepoli sono ancora lì, e noi con loro, sul mare. Sono nel frangente della vita in cui si è più vulnerabili. Nell’ora tremenda, nel momento massimo della nostra disperazione, il Signore viene verso di noi, con forza, con potenza.

Gesù appare ai discepoli in modo insolito. Cammina sul mare. Egli trascende i limiti umani, ha autorità sul creato. Si comporta come solo Dio può fare:
– “Da solo spiega i cieli, cammina sulle più alte onde del mare” (Giobbe 9:8);
– “Sei tu penetrato fino alle sorgenti del mare? Hai tu passeggiato in  fondo all’abisso?” (Giobbe 38:16).

La reazione dei discepoli è devastante: sono turbati, non riescono a riconoscerlo. Questo capita anche a noi. Quante volte nel momento della disperazione non riusciamo a riconoscere la presenza di Dio in quello che ci succede? Ci lasciamo prendere dalla paura. Abbandoniamo le nostre convinzioni, abbandoniamo anche la nostra fede, nel momento della prova…

Ma subito Gesù parla e dice: “Coraggio, sono io; non abbiate paura!” (Matteo 14:27). Avrebbe potuto comparire direttamente sull’altra riva e attendere i discepoli al loro arrivo. Ciò non avrebbe modificato in alcun modo l’evento miracoloso, potendo essere lì prima dell’arrivo dei discepoli con la barca. Ma il Maestro, invece, sceglie di apparire all’improvviso, durante la tempesta, e le prime parole che pronuncia sono per calmarli ed esortarli. “Coraggio, sono io, non abbiate paura”.

Cosa significa coraggio? Dal latino coraticum o anche cor habeo, è un sostantivo che deriva dalla parola composta cor-cordis, cuore, e dal verbo habere, avere: ho cuore; è la virtù umana, spesso indicata anche come fortitudo o fortezza, che rende capace, chi ne è dotato, di non sbigottire di fronte ai pericoli, di affrontare con serenità i rischi, di non abbattersi per i dolori fisici o morali e, più in generale, di affrontare a viso aperto la sofferenza, il pericolo, l’incertezza e l’intimidazione.

Allora, qui il termine coraggio, posto accanto alle parole “sono io”, assume un significato diverso, forte. Quasi a voler scuotere il nostro animo, assopito, addormentato, smarrito e far sì che possiamo riconoscerlo.

“Coraggio, sono io, non abbiate paura”. Il messaggio contenuto in queste parole afferma che, anche nella situazione più disperata della nostra vita, il Signore è pronto a sostenerci, è pronto a salire sulla barca della nostra esistenza e, con lui, possiamo realizzare ogni cosa. “Io posso ogni cosa in colui che mi fortifica” leggiamo in Filippesi 4:13.

Coraggio, dice Gesù, ci sono io. Non abbiate più paura di affrontare la vita. Esiste la maniera, quotidiana, per non avere paura? Sì, esiste. Vi è una rotta che possiamo seguire ed è l’insegnamento di Gesù, presentato nella Scrittura. Così, anche quando “camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei alcun male, perché tu [Dio] sei con me, il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza” (Salmo 23:4).

Come leggere la Bibbia. Lettura pregata della Scrittura

Come leggere la Bibbia. Lettura pregata della Scrittura

Michele Abiusi – Quando leggiamo la Bibbia, nella nostra quotidianità, consapevoli di non essere davanti a un libro qualunque, ma alla parola ispirata da Dio, dobbiamo leggere in maniera diversa: una lettura pregata, che sicuramente ci farà crescere spiritualmente e nella nostra personale comunione con Dio. Essa è un cammino con determinate tappe in cui il credente è invitato a sostare. Queste tappe si susseguono secondo un ordine logico. Ci sono otto tappe progressive:
Lettura. Nella lettura si cerca di capire il brano nel suo contesto originale storico, geografico, culturale. Qual era lo scopo spirituale che l’autore aveva in mente? Quando lo scrisse? Dove? In quali circostanze? Come è stato ricevuto quel messaggio dai destinatari originali? Per giungere all’intimità con la Scrittura è necessaria una lettura continua e organica. Bisogna applicarsi sul testo con attenzione, con calma, e soprattutto accostarsi “in spirito”. Prima di iniziare la lettura occorre mettersi in una disposizione particolare e invocare Dio chiedendogli l’aiuto dello Spirito Santo affinché venga a alluminarci. Per ricevere gli insegnamenti dell’Altissimo, occorre un tempo adatto, non i ritagli di tempo nella fretta e nella distrazione. Il risultato di questo contatto continuo con la parola di Dio, è una sorta di condizionamento psicologico positivo; l’acquisizione di ciò che potremmo chiamare “mentalità biblica”, che ci condizionerà nelle nostre scelte di vita.

Meditazione. Non la si può distinguere nettamente dalla prima tappa; si passa dalla lettura all’approfondimento. Anticamente la meditazione era un esercizio di lettura e di ripetizione delle parole, anche pronunciandole, fino ad imparare il testo a memoria. Si tratta di un ritornare sul testo, richiamandone le parole, per ritrovare il tema centrale e imprimerlo nel cuore. È un cercare la  conoscenza, non in senso occidentale (quella intellettuale), ma la conoscenza in senso biblico, ovvero l’esperienza che ne facciamo. Riflettere lo scopo ultimo del  testo. Qual è la rilevanza per l’oggi dell’elemento spirituale che l’autore (umano e divino) esprime nel testo? In che modo veniamo provocati dal testo? Si tratta di un lavoro paziente di approfondimento, ma è un gustare la parola di Dio.

Preghiera. Dalla meditazione non può che scaturire la preghiera. In realtà, già quanto fatto finora è una  forma di preghiera. Si tratta ora di prenderne  coscienza: è la nostra  risposta alla lettura. La parola è venuta in noi e ora torna a Dio, sotto forma di preghiera, la vera preghiera: quella che sgorga dal cuore al tocco della parola divina. È un pregare con la parola di Dio.

Contemplazione. “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28:20, Cei). La contemplazione avviene quando la molteplicità dei sentimenti, delle riflessioni e della preghiera si concentra su Gesù che è presente. Contemplare è entrare in un rapporto di fede e di amore con il Dio vivente che in Gesù si è rivelato. La contemplazione è facilitata se scegliamo una parola, una frase, un’immagine dal testo biblico. La contemplazione diventa adorazione nella lode e nel silenzio davanti a Dio. La vera contemplazione ci aiuterà a vedere chi siamo veramente e ciò che dovremmo essere, secondo il punto di vista di Dio. Ci libera dal pericolo d’imporre al testo un’interpretazione ristretta, religiosa o confessionale, che sarebbe lontana dai perenni scopi di Dio. La contemplazione non è qualcosa cui arriviamo noi, con sforzi personali. È un dono dello Spirito Santo che germoglia nella nostra lettura pregata della Scrittura.

Gioia. È un dono dello Spirito: “Il frutto dello Spirito è… gioia” (Galati 5:22). Gustare le cose di Dio ci dà quella gioia da cui scaturiscono le scelte coraggiose e i propositi della fede, quali il perdono, l’umiltà, l’obbedienza.

Discernimento. “Sia questo dunque il sentimento di quanti siamo maturi; se in qualche cosa voi pensate altrimenti, Dio vi rivelerà anche quella. Soltanto, dal punto a cui siamo arrivati, continuiamo a camminare per la stessa via” (Filippesi 3:15,16). Con il discernimento diveniamo sensibili a tutto quello che è spirituale e riusciamo a seguire Gesù, a entrare nella mente di Gesù. “Ora noi abbiamo la mente di Cristo” (1 Corinzi 2:16).

Decisione. Dio comunica con noi individualmente e noi gli rispondiamo in base a questo percepire la sua  volontà, facendo scelte che cambiano radicalmente la nostra vita.

Azione. È la sintesi delle tappe fin qui descritte. L’azione riguarda soprattutto le scelte di vita che possono avere conseguenze su altri. Leggiamo e meditiamo la Scrittura affinché lo Spirito Santo ci aiuti a mettere in pratica le scelte fatte.

Per praticare queste otto tappe che conducono alla comprensione del pensiero divino, dobbiamo tenere presente che ci deve essere una lenta assimilazione del testo biblico, disinteressata. Una lettura impegnata, in cui ci si sente direttamente coinvolti, e solitaria; un rapporto personalissimo tra la sacra pagina e noi. Naturalmente questa deve essere una pratica quotidiana.

Si tratta di imparare ad ascoltare Dio nelle pagine della Sacra Scrittura. Dio parla ancor oggi alle persone!

 

Come leggere la Bibbia. Lectio divina 2

Come leggere la Bibbia. Lectio divina 2

Michele Abiusi – La scorsa settimana abbiamo parlato della lectio divina, definita anche la lettura pregata della Bibbia. Come possiamo far nostra una preghiera letta, così che diventi anche preghiera personale? Suggeriamo di leggere con sentimento e partecipazione il testo scritto; di soffermarsi sulle parole che si adattano alla nostra situazione e al nostro stato d’animo, meditandoci sopra; di provare a rivivere le esperienze del servitore di Dio e accodarsi a lui nelle richieste; di pronunciare un amen sentito per ogni richiesta che condividiamo con lo scrittore e che sentiamo particolarmente nostra.

La lectio divina non è quindi una lettura che procede solo dalla Bibbia al credente, ma anche al contrario, perché influisce nel trasformare la vita di coloro che vengono toccati da quanto leggono. La meditazione e la contemplazione del testo biblico, unito alla preghiera, fa sì che l’attenzione, l’intelligenza e la sensibilità vengano sollecitate in modo che anche un brano noto diventi come nuovo, trovando altri significati. Dobbiamo adattare a noi stessi ciò che leggiamo nella Bibbia, cercando di riviverne gli episodi e chiedendoci come avremmo risposto se ci fossimo trovati nelle medesime situazioni. Tutto questo processo di lettura-preghiera-meditazione porta alla trasformazione della personalità del credente secondo il modello scritturale, perché lo Spirito Santo opera nel cuore indirizzandolo verso i cambiamenti da adottare.

I quattro sensi della Bibbia
Nel leggere la Bibbia dobbiamo ricercare il significato originale del testo, così come veniva compreso dai destinatari primigeni del messaggio ispirato. Luoghi, personaggi, usi e i costumi dell’epoca, la mentalità semita, il contesto storico-culturale devono essere presi in considerazione e attentamente valutati. Vanno distinti quattro sensi biblici che danno significato al testo ispirato.
Il senso letterale. Quando leggiamo un testo della Scrittura, cogliamo lo svolgersi dei fatti trovando risposta alle domande fondamentali per capire le vicende: Chi? Cosa? Dove? Quando? Perché? Come? Il senso letterale è la base per la comprensione del testo biblico, poi seguono gli altri che approfondiscono lo studio.

Il senso allegorico. Ha attinenza con la fede per scoprire il mistero dell’agire di Dio che è nascosto a una lettura superficiale della Bibbia. Insegna ciò che si deve credere guardando con gli occhi della fede. Per non incorrere in errori di interpretazione, facili quando si va oltre il senso letterale delle cose, si deve prestare attenzione all’unità di insegnamento di tutta la Scrittura. Il senso allegorico va interpretato quando è presente nel testo, senza inventarselo.

Il senso morale. Ci insegna come comportarci ed è presente in tutte quelle indicazioni o esortazioni bibliche che incoraggiano il vivere retto come servitori di Dio. Lo possiamo cogliere ovunque nella Scrittura, ma trova la sua più alta espressione nei 10 comandamenti e nell’insegnamento di Cristo. L’apostolo Paolo lo sintetizzò così, identificandolo con la Bibbia stessa: “Tutta la Scrittura è divinamente ispirata e utile a insegnare, a convincere, a correggere e a istruire nella giustizia, affinché l’uomo di Dio sia completo, pienamente fornito per ogni buona opera” (2 Timoteo 3:16, 17, ND). Parola viva quindi, operante nelle nostre vite, che ci dà sempre la giusta direzione da seguire.

Il senso anagogico. Rappresenta il significato più profondo e nascosto delle Sacre Scritture. Ha attinenza con la nostra speranza, il significato della nostra vita e del nostro futuro. Anagogico è quindi pertinente a escatologico, cioè alla ricerca delle “ultime cose” o, per dirla biblicamente, degli “ultimi giorni”, che per il discepolo di Gesù coincide con la parusia del Signore (il ritorno di Gesù). Il senso anagogico del testo biblico ci fa chiedere: “Quale speranza posso nutrire oggi e in vista del futuro?”.

Il senso letterale è quello basilare da cui partire, non è mai la meta della lettura. Il fondamentalismo biblico ha le sue radici nella comprensione della Bibbia solo in senso letterale ma, come sa bene ogni serio studioso della Scrittura, si prendono colossali cantonate quando si limita l’intendimento della parola alla sola dimensione letterale. Perciò gli altri sensi permettono di approfondire, danno il senso spirituale, il vero significato di cui ha bisogno il lettore moderno così distante dai tempi in cui fu redatta la Bibbia.

I benefici della lectio divina
A livello personale e comunitario la lectio divina rappresenta il solo modo di accostarsi al testo scritturale perché risponde in pieno allo scopo per cui fu scritta la Bibbia: “perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Timoteo 3:17). Nella lettura pregata della Bibbia adattiamo noi stessi al testo, riviviamo con partecipazione le vicende del popolo ebraico, la vita di Gesù e della neonata chiesa cristiana. Con l’apostolo Paolo siamo fulminati dalla luce accecante sulla strada per Damasco, partecipiamo con lui alla fondazione di intere comunità di discepoli e alle numerose avventure che visse insieme ai suoi collaboratori.

La molteplicità di esperienze di vita vissuta, narrate nella Scrittura, fa sì che ognuno di noi possa trovare aiuto nelle proprie necessità spirituali. In altre parole, si tratta di sviluppare un’intimità con la Scrittura che porta a rivivere e a partecipare con sentimento a ciò che si legge. Raggiungendo questa affinità, quando si legge un salmo, che sovente è una preghiera, le parole non sono più quelle del salmista, ma diventano le nostre, a tal punto ci immedesimiamo nei sentimenti dello scrittore.

La lettura pregata della Bibbia non è quindi importante per quanto ci fa avere, ma nella misura in cui ci trasforma in quell’uomo spirituale di cui tanto scrisse l’apostolo Paolo: “Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere le cose che Dio ci ha donate … L’uomo spirituale, invece, giudica ogni cosa ed egli stesso non è giudicato da nessuno” (1 Corinzi 2:12, 15).

Dio e la sofferenza

Dio e la sofferenza

Glenn Townend – Migliaia di persone hanno perso il lavoro, i fondi pensionistici hanno un valore sostanzialmente inferiore e l’accento su come relazionarsi diventa sempre più evidente: queste sono solo alcune delle conseguenze della pandemia di Covid-19. Le persone sono contagiate o temono l’infezione, gli operatori sanitari sono stressati e le famiglie sono in lutto. Tutti vivono in uno stato di sofferenza.

Dio non è sorpreso dagli effetti del virus, ma che cosa fa al riguardo? Questa domanda presume due caratteristiche divine. Innanzitutto che Dio è amore e vuole aiutare le persone. La Bibbia lo afferma più volte. “Il Signore passò davanti a lui, e gridò: ‘Il Signore! Il Signore! Il Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, ricco in bontà e fedeltà’” (Esodo 34:6). “Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Giovanni 4:8).

In secondo luogo, Dio ha il potere di intervenire nella sofferenza. “Vi è forse qualcosa che sia troppo difficile per il Signore?” (Genesi 18:14). “Gesù fissò lo sguardo su di loro e disse: ‘Agli uomini questo è impossibile; ma a Dio ogni cosa è possibile’” (Matteo 19:26).

Dio accetta persino le nostre domande sulla sofferenza (cfr. Salmo 13:1-4; Apocalisse 6:10).

Da quanto leggo nella Scrittura, il Signore si riferisce alla sofferenza in tre modi.
Dio soffre nel vedere come le persone si trattano reciprocamente. “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra… e se ne addolorò in cuor suo” (Genesi 6:5, 6). Pensiamo ai conflitti, agli omicidi, agli abusi sessuali, allo sfruttamento, all’avidità e ai furti che si verificano ogni minuto di ogni giorno. Dio vede tutto questo e gli si spezza il cuore. Soffre per ciò che facciamo l’un verso l’altro (cfr. Esodo 3:7-10; Osea 11:3-9).

Dio soffre con le persone. Quando Adamo ed Eva peccarono, Dio andò nel giardino per parlare con loro (cfr. Genesi 3:8-10). Gesù, il Figlio di Dio, venne e visse come un essere umano proprio come noi (cfr. Giovanni 1:14; Matteo 1:23). Dio non è distante nella sofferenza: è lì con noi per capire e confortare.

Dio soffre per le persone… Parlando di Gesù, il testo di Isaia dice: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Isaia 53:5 e seguenti, Cei). E poi i versetti di Ebrei 2:9-18; 1 Pietro 2:21-24.

Qualunque afflizione possiamo subire, ricordiamoci che Dio soffre perché soffriamo; soffre con noi; e soffre per noi. E sappiamo che arriverà il momento in cui porrà fine alla sofferenza una volta per tutte: “Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate” (Apocalisse 21:4).

[Fonte: Adventist Record]

Come leggere la Bibbia. Lectio divina

Come leggere la Bibbia. Lectio divina

Michele Abiusi – “Qual è il senso della vita? Ci sono tante risposte a questo interrogativo quanti sono gli uomini sulla terra. Eppure una sola risposta è valida per tutti: chi ha veramente assaporato l’Essere sa, una volta per tutte, che il senso della vita umana non è altro che il divenire testimone del divino, dell’esistenza” – K.G. Duckheim.

Cosa corrisponde a verità? Come posso migliorare la mia vita? Qual è la speranza che non verrà mai delusa? Sì, qual è il senso della vita?

Chi non si è mai posto domande del genere? Per i cristiani la Sacra Bibbia è parola di Dio. Pertanto è la fonte primaria per trovare le risposte ai quesiti fondamentali della vita, soprattutto al senso della vita. Per Duckheim si tratta di “assaporare” l’Essere che noi seguaci di Gesù riteniamo rivelarsi nelle pagine della Scrittura. Uno strumento o, per meglio dire, un metodo efficace per permettere alla parola di dischiudersi alla nostra mente e di esercitare la sua positiva influenza è la lectio divina.

Lo scopo della lectio divina è ricercare Dio nella sua parola, la Bibbia, attraverso una lettura meditata e partecipativa del testo ispirato. La possiamo chiamare anche “lettura pregata della Bibbia”, dato che la preghiera entra naturalmente, come vedremo in seguito, in questo processo di lettura.

Gesù menzionò l’aiuto di cui abbiamo bisogno per capire il senso dei testi biblici quando disse: “il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto” (Giovanni 14:26). Fu lo Spirito Santo di Dio a spingere i profeti a portare il suo messaggio e a metterlo per iscritto: “degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo” (2 Pietro 1:21). “Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio” 2 Timoteo 3:16. Lo stesso Spirito agisce in noi sollecitando le nostre facoltà mentali e spirituali quando meditiamo la Scrittura.

Che cos’è la lectio divina? È un modo di accostarsi alla parola, che implica la partecipazione totale delle nostre facoltà intellettuali e spirituali alla rivelazione divina. Il primo termine lectio, in latino, significa lettura. Si tratta di un modo particolare di leggere le Scritture:
– è ascolto di Dio che ci parla attraverso le Scritture;
– è anche una lettura profonda e meditata delle Scritture;
– è una lettura sapienziale non tanto per quanto ci dà, ma perché ci fa essere discepoli migliori.

La sapienza in senso biblico infatti non deriva solo dai nostri sforzi per comprendere la Bibbia, ma soprattutto dall’applicare quanto già preparato per noi. In questo processo di crescita spirituale possiamo e dobbiamo avvalerci di tutti gli strumenti che i moderni studi biblici mettono a nostra disposizione, ma non possiamo fermarci qui. Infatti la seconda parola, divina, implica la sfera spirituale e ciò significa che dobbiamo rispondere a quanto leggiamo nel testo sacro cercando i modi per applicare nella nostra vita le lezioni che ci vengono impartite dalla parola.

In questo senso la lectio divina è un ascolto della parola implicante una risposta da parte del lettore che può chiedersi: che cosa mi vuol dire questo passo? Quale significato può avere nel mondo d’oggi? Come posso adempiere l’insegnamento implicito nel testo? Cosa mi rivela della personalità di Dio? In tale risposta è fondamentale la preghiera.

Nella lectio divina confluiscono anche la meditazione, la contemplazione e ovviamente la lettura.

In questo senso la lectio divina è una ricerca del divino. Non è una lettura veloce, quindi, né per immagazzinare informazioni, ma una lettura contemplativa in vista della preghiera, rafforzando il rapporto con il nostro meraviglioso Dio.

Lectio divina significa perciò “lettura pregata della Parola”. Si può pregare anche usando le parole di alcuni salmi o di altre preghiere bibliche, meditando ogni parola quasi fosse nostra e attuando un processo di adattamento-assimilazione delle parole ispirate con il nostro sentire.  Questo tipo di analisi biblica implica quindi una risposta da parte del lettore che troverà nei vari libri delle Scritture uno spunto per un dialogo spirituale con Dio, avendo interiorizzato il messaggio biblico.

La lectio divina quando non sappiamo come pregare
Il testo di Romani 8:26 dice: “lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché non sappiamo pregare come si conviene; ma lo Spirito intercede egli stesso per noi con sospiri ineffabili”. Nella vita capitano momenti difficili e dolorosi in cui siamo talmente provati che non troviamo le parole per esprimerci in preghiera. In questi casi la Bibbia ci viene in aiuto perché possiamo leggere dei versetti appropriati, come i salmi, a mo’ di preghiera. Essendo la Bibbia il prodotto dello Spirito Santo di Dio, leggendola con devozione e raccoglimento, possiamo immedesimarci nelle sue parole, vivendole intensamente come se fossero nostre.

In questo tipo di lectio divina è come se nel testo della Scrittura si innestassero le parole che escono dal nostro cuore dando nuova vita al testo stampato. Si crea come una nuova concatenazione di eventi: Dio ha ispirato gli uomini che scrissero il testo biblico; lo stesso Spirito agisce in noi per rendere nostre le parole ispirate.

 

L’incontro con Dio. Terza parte

L’incontro con Dio. Terza parte

Michele Abiusi – Dio desidera le nostre preghiere? Certamente, Dio desidera che lo preghiamo. Citiamo solo alcuni testi biblici:
– “O Signore, al mattino tu ascolti la mia voce; al mattino ti offro la mia preghiera e attendo un tuo cenno” (Salmo 5:3);
– “Cercate il Signore, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino” (Isaia 55:6);
– “Eleviamo le mani e i nostri cuori a Dio nei cieli!” (Lamentazioni 3:41);
– “Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome…” (Matteo 6:9-14);
– “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve; chi cerca trova, e sarà aperto a chi bussa” (Matteo 7:7-11);
– “Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano pregare sempre e non stancarsi” (Luca 18:1);
– “Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio” (1 Corinzi 10:31);
– “Perseverate nella preghiera, vegliando in essa con rendimento di grazie” (Colossesi 4:2);
– “Io voglio dunque che gli uomini preghino in ogni luogo, alzando mani pure, senza ira e senza dispute” (1 Timoteo 2:8);
– “non cessate mai di pregare; in ogni cosa rendete grazie, perché questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1 Tessalonicesi 5:17,18).

Dio desidera le preghiere quando scaturiscono da un cuore sincero, pieno di apprezzamento nei suoi confronti. Se la nostra preghiera non è lo specchio della nostra anima, allora pregare non serve a nulla e Dio non la gradisce: “ti sei avvolto in una nuvola, perché la preghiera non potesse raggiungerti” (Lamentazioni 3:44).

La preghiera è un dialogo con Dio?
Non lo è propriamente. Mentre è corretto dire che due o più persone dialogano tra loro, perché questo è l’unico modo per scambiare opinioni e punti di vista diversi tra esseri umani, con Dio le cose si fanno più complicate a motivo del fatto che lui è… Dio. Non possiamo parlare a Dio come si fa con un uomo. Mosè quando udì la voce di Dio al pruno ardente, “tutto tremante, non osava guardare” (Atti 7:32) perché la maestà di Dio gli incuteva timore e riverenza.

Quando Giobbe si fece un po’ ardito nel parlare con Dio per perorare la propria causa, la Bibbia dice: “Allora il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse: Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?” (Giobbe 38:1,2). Ricordandogli così che era solo un uomo. Gesù illustrò l’atteggiamento sfrontato e presuntuoso del fariseo che si accosta a Dio in preghiera dicendo: “O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo” (Luca 18:11,12). Nelle parole del religioso c’è sì una invocazione, “o Dio”, ma dall’arroganza mostrata sembra che si rivolgesse a un suo simile e non al maestoso Dio che conosce i segreti del cuore. All’israelita che va al tempio per adorare, Ecclesiaste 5:1 consiglia: “Bada ai tuoi passi quando vai alla casa di Dio e avvicìnati per ascoltare”. Anche oggi il principio è lo stesso: anziché avvicinarci a Dio con superficialità, come se fosse un essere umano come noi, dobbiamo essere consapevoli del grande privilegio che abbiamo e dimostrarlo con un atteggiamento riverente e umile. Nella preghiera noi ci avviciniamo a Dio e Dio si abbassa fino a noi.

Che cos’è la preghiera?
La preghiera è come un filo invisibile che ci lega al nostro Padre in cielo. È il nostro pensiero che cerca una risposta da Dio nella completa disponibilità di accettare la volontà divina. Quindi la preghiera è un modo per arrenderci a Dio e mettere da parte noi stessi. In quest’ottica essa è un atto di amore verso Dio, grati della sua bontà e misericordia. La preghiera si realizza pienamente quando ci stacchiamo dai nostri problemi e assaporiamo la misericordia divina. È un momento di intimità con il nostro Dio. Cerchiamo la sua compagnia per provare la vera pace interiore.

Dio potrebbe abbandonarci?
Davide disse a suo figlio Salomone: “Se tu lo cerchi, egli si lascerà trovare da te; ma, se lo abbandoni, egli ti respingerà per sempre” (1 Cronache 28:9).

Se rifiutiamo l’amore di Dio, “Di quale peggior castigo, a vostro parere, sarà giudicato degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e avrà considerato profano il sangue del patto con il quale è stato santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia? È terribile cadere nelle mani del Dio vivente” (Ebrei 10:29,31).

Da questi testi emerge che l’abbandono di Dio è conseguenza del nostro abbandono, di un nostro atteggiamento repulsivo nei suoi confronti. L’atto estremo di questo disprezzo verso la bontà divina è il peccato contro lo Spirito Santo del quale parlò nostro Signore: “ma chiunque avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non ha perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno” (Marco 3:29).

Siccome Dio sa già ogni cosa, è corretto voler essere conosciuti da Dio?
Sì, è corretto perché essere conosciuti da Dio significa che egli rivolge a noi la sua attenzione e la sua approvazione. L’apostolo precisò “ma ora che avete conosciuto Dio, o piuttosto che siete stati conosciuti da Dio” (Galati 4:9), e intendeva dire che i discepoli della Galazia, dopo aver accettato Cristo, erano stati riconosciuti da Dio come pienamente approvati. Di Abraamo Dio disse: “Io infatti l’ho scelto [yedatin], perché ordini ai suoi figli e alla sua casa dopo di lui di seguire la via dell’Eterno…” (Genesi 18:19 ND). Questo conoscere da parte di Dio implica la sua approvazione. In fondo a che servirebbe conoscere perfettamente la Bibbia se poi Dio non ci riconosce come parte del suo popolo? Questo fatto è un incentivo per rendere la nostra vita tale da ricevere l’approvazione divina, sapendo che laddove noi manchiamo il sangue versato da Cristo compensa.

Il beneficio di essere a disagio nella preghiera
Noi proviamo una grande pace quando ci rifugiamo nella preghiera e ci concentriamo sul nostro meraviglioso Padre. Tuttavia, come tutti gli uomini di Dio descritti nella Bibbia, quando ci accostiamo a Dio è naturale provare il disagio della nostra inadeguatezza, delle nostre debolezze, della nostra natura peccaminosa. Con l’apostolo diciamo “compite la vostra salvezza con timore e tremore” (Filippesi 2:12).

Pregare con umiltà
Con la preghiera entriamo in contatto che l’essere assoluto, l’unico vero Dio. Un qualsiasi altro atteggiamento diverso dall’umiltà suonerebbe irriverente…

Il testo di Luca 18:11,12 è un esempio di atteggiamento presuntuoso che un adoratore può manifestare nella preghiera.

Le prime cose da dire nella preghiera
La preghiera dovrebbe iniziare con la lode, come insegnò il Maestro: “Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Matteo 6:9). In questo modo fece anche Salomone nella sua preghiera alla dedicazione del Tempio: “O Signore, Dio d’Israele! Non c’è nessun dio che sia simile a te, né lassù in cielo, né quaggiù in terra! Tu mantieni il patto e la misericordia verso i tuoi servi che camminano in tua presenza con tutto il cuore” (1 Re 8:23).

Pregare spesso per noi stessi è un atto egoistico?
Se la nostra preghiera non è incentrata su noi stessi, allora comunicare a Dio i nostri problemi e bisogni non è atto egoistico. Nel “Padre nostro” Gesù incluse: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Matteo 6:11). Il “pane quotidiano” rappresenta i nostri bisogni attuali, le necessità materiali, le ansietà della vita. Gesù lo esemplificò quando parlò delle preoccupazioni che ci attanagliano quotidianamente: “il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutte queste cose” (v.32). Sicuramente se la nostra ansietà è vincere una grossa somma al gioco d’azzardo, allora sì che sarebbe puro egoismo chiedere a Dio di soddisfarci. Le nostre richieste a Dio sono un indice della nostra debolezza, della nostra incapacità di sovvenire a una necessità o a una mancanza. Per questo Gesù insegnò a chiamare Dio “Padre nostro”. Siamo come bambini che chiedono al padre di sovvenire alla propria debolezza.

Entro quali limiti furono sempre fatte le richieste personali nelle preghiere bibliche?
Non possiamo forzare la mano a Dio per ricevere una qualche grazia. L’apostolo Paolo richiese tre volte che la sua “spina nella carne”, probabilmente un problema di salute, fosse tolta, ma ottenne come risposta: “La mia grazia ti basta” (2 Corinzi 12:9). Gesù pregò più volte che “se è possibile, passi oltre da me questo calice!” (Matteo 26:39), ma non ottenne alcuna risposta da parte di Dio. In queste richieste personali il focus non è rivolto unicamente a se stessi, ma viene sempre contemplata la volontà di Dio come fine ultimo.

La Bibbia incoraggia a pregare “incessantemente” (1 Tessalonicesi 5:17 Cei). Com’è possibile farlo?
Pregare incessantemente non significa rivolgere a Dio, 24 ore al giorno, le nostre preghiere perché cosa umanamente impossibile. D’altro canto l’attitudine gioiosa del discepolo è intimamente legata alla preghiera incessante, l’unico modo per coltivare un atteggiamento positivo nei momenti della prova. Comunicare senza interruzioni con Dio, mantiene i valori secolari e spirituali in equilibrio. Il termine greco per “incessantemente” (Adialeiptos) non significa una sorta di preghiera senza sosta. Implica, piuttosto, una preghiera costante, ricorrente, un atteggiamento assiduo di dipendenza da Dio. Che pronunciamo o meno le parole, la cosa fondamentale è sollevare il nostro cuore a Dio mentre siamo occupati in compiti diversi. L’apostolo Paolo lo disse in altri termini: “Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio” (1 Corinzi 10:31). In altre parole, se Dio è sempre presente nei nostri pensieri, viviamo in una condizione di preghiera assidua.

Quali preghiere dovremmo apprezzare più di tutte?
Le preghiere in favore dei nostri cari ci riscaldano il cuore, ma le preghiere più importanti sono quelle che Gesù rivolge al Padre a nostro favore, dato che lui soltanto è responsabile della nostra salvezza. Egli agisce come nostro sommo sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec (cfr. Ebrei 6:20). In quella che viene considerata la preghiera sacerdotale, Gesù chiede al Padre: “Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dati, perché sono tuoi […] Non prego soltanto per questi, ma anche per quelli che credono in me per mezzo della loro parola” (Giovanni 17:9,20).

Gesù agisce come nostro mediatore e, dato che cadiamo molte volte nel peccato, “può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio, dal momento che vive sempre per intercedere per loro” (Ebrei 7:25).

L’incontro con Dio. Seconda parte

L’incontro con Dio. Seconda parte

Michele Abiusi – “Fermatevi… e riconoscete che io sono Dio. Io sarò glorificato tra le nazioni, sarò glorificato sulla terra” (Salmo 46:10).
Il salmista incoraggia il credente a riconoscere che il Signore è Dio. Poco prima aveva detto: “Venite, guardate le opere del Signore, egli fa sulla terra cose stupende” (v. 8 ). La “conoscenza” di Dio comprende: i suoi atti passati, le sue promesse, una conoscenza esperienziale con lui. Nel contesto, il salmista invita a impegnarsi per il Signore e fare di lui il “rifugio” e la “forza” (vv. 1, 7, 11). Questa esortazione rivolta ai credenti è più pertinente che mai, oggi. Viviamo in un mondo sempre più alienato da Dio, in cui cadere nello scoraggiamento o nella perdita della fede è cosa relativamente facile. Pertanto il versetto  2 esorta: “Perciò non temiamo se la terra è sconvolta …”.

Se guardiamo lo svolgersi degli eventi in campo mondiale non possiamo non condividere l’espressione del salmista. Tutto nella nostra società è sconvolto: nelle scelte etiche, nei principi morali da seguire, nel concetto di esempio, onestà e così via. Se ci sentiamo frastornati da questo andazzo è imperativo fare un primo passo nella giusta direzione, come sottolinea la prima parola del nostro testo: “Fermatevi”.

Fermarsi implica svuotare la mente dagli assilli giornalieri, allontanare da noi tutto ciò che può distrarre: il mondo con tutti i suoi rumori di fondo… e raccoglierci in meditazione. Questo vuol dire trovare un angolo di tempo, nell’arco della giornata, riservato alla meditazione, in cui possiamo “ascoltare” Dio. La professione di fede ebraica, lo Shema, infatti recita: “Ascolta, Israele: Il Signore, il nostro Dio, è l’unico Signore” (Deuteronomio 6:4). Porsi all’ascolto di Dio non vuol dire necessariamente aprire la Bibbia.

La creazione è una testimonianza silenziosa della saggezza e della sapienza di Dio: “I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l’opera delle sue mani” (Salmo 19:1). E ancora: “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai disposte, che cos’è l’uomo perché tu lo ricordi? Il figlio dell’uomo perché te ne prenda cura?” (Salmo 8:3, 4). Sì, un tempo gli uomini sapevano “fermarsi” e vedere oltre ciò che gli occhi permettevano loro di guardare.

Oggi non si ha più tempo per pensare a cosa si fa della propria vita nella prospettiva di Dio. Si corre, ci si affanna per risolvere problemi, e così passano i giorni, gli anni, i lustri, i decenni ed infine arriva l’ultimo traguardo. Non abbiamo fatto nulla per conoscere il nostro Dio! è quanto mai importante prendere coscienza di questo nostro bisogno, cominciando con un semplice “fermatevi” e ascoltando il “sussurro di Dio”.

Come e dove possiamo incontrare Dio?
Dio non sta in un posto specifico da raggiungere, però possiamo incontrarlo tutte le volte che vogliamo, in qualsiasi luogo ci troviamo. Ecco quanto scrive il salmista : “Dove potrei andarmene lontano dal tuo Spirito, dove fuggirò dalla tua presenza? Se salgo in cielo tu vi sei; se scendo nel soggiorno dei morti, eccoti là” (Salmo 139:7, 8). E anche: “Il Signore è vicino a tutti quelli che lo invocano, a tutti quelli che lo invocano in verità” (Salmo 145:18).

Gesù affermò: “Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, rivolgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa” (Matteo 6:6).

Non solo, Dio non ci fa aspettare in anticamera, come avviene spesso con i cosiddetti “altolocati”: “Il Signore è vicino a tutti quelli che lo invocano, a tutti quelli che lo invocano in verità.  Egli adempie il desiderio di quelli che lo temono, ode il loro grido, e li salva” (Salmo 145:18,19).

Questi testi dimostrano che possiamo incontrare Dio praticamente ovunque.

Lo consideriamo un privilegio? “Parlare” con Dio vuol dire aver stabilito una relazione con lui di tipo amicale. Due amici, non importa il luogo in cui si incontrano, si fermano a parlare e condividono le loro esperienze. Così è con Dio. È nostro amico quindi ci sentiamo liberi di parlargli con franchezza. Ma è anche nostro Padre e in lui troviamo l’aiuto e la comprensione che solo un genitore sa dare al proprio figlio. Sì, perché Dio è anche, e soprattutto, amore! (cfr. 1 Giovanni 4:8). Sempre Giovanni aggiunge: “Nell’amore non c’è paura; anzi, l’amore perfetto caccia via la paura” (v. 18). Come un figlio non ha paura di un padre amorevole così anche noi dobbiamo sentirci liberi di parlare con il nostro Padre in cielo tutte le volte che vogliamo e in qualsiasi posto noi siamo, e di unirci all’apostolo nel dire “che né morte, né vita, né angeli, né principati, né cose presenti, né cose future, né potenze, né altezza, né profondità, né alcun’altra creatura potranno separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8:38, 39).

Per quale motivo Dio rimane spesso in silenzio?
A volte, il problema non sta tanto nel fatto che Dio non risponde alle nostre suppliche, ma nel nostro udito spirituale che non è in grado di percepire il “sussurro di Dio”. Allora il “fermarsi” nella meditazione e nella riflessione aiuta a curare la nostra “otite” spirituale.

Sovente però sono i nostri peccati ad impedire la risposta di Dio.

Il profeta così si espresse: “Ecco, la mano del Signore non è troppo corta per salvare, né il suo orecchio troppo duro per udire; ma le vostre iniquità vi hanno separato dal vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere la faccia da voi, per non darvi più ascolto” (Isaia 59:1, 2). Gli Israeliti erano diventati apostati ai giorni di Isaia, tanto che, alla fine, Dio usò la scure babilonese per disciplinarli.

Anche noi veniamo meno, e sempre accadrà finché non ritornerà il Signore, a causa della nostra debolezza, ma ciò non deve servire da scusa per una condotta dissoluta. Il Signore è buono e pronto a perdonarci infinite volte, ma dobbiamo stare attenti al nostro atteggiamento nei confronti del peccato perché “il timore del Signore è odiare il male” (Proverbi 8:13), e non fargli l’occhiolino quando il peccato diventa seducente ai nostri occhi.

Come Elia [leggi qui la prima parte] dovremo uscire dalla nostra grotta, dalla nostra visione egoistica della vita, e incontrare Dio nel sussurro di un dolce alito di vento. Ci è sempre piaciuta l’immagine di Gesù che sta “alla porta e bussa” (Apocalisse 3:20).

Il testo non dice che picchia con violenza alla porta per farsi sentire.

Il testo non dice neanche che  bussa alla porta di una chiesa, bensì “se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me”.

Siamo noi che permettiamo a Dio e a Cristo di venire, per accoglierli nel nostro cuore.

L’incontro con Dio. Prima parte

L’incontro con Dio. Prima parte

Michele Abiusi – Dove trovare Dio quando siamo esausti dentro? Dove poterlo incontrare quando ne abbiamo bisogno? Per rispondere a queste domande, riflettiamo su un interessantissimo episodio della Sacra Scrittura.

Il profeta Elia
Durante il regno di Acab, Israele sprofonda nell’idolatria. Elia sostiene l’adorazione pura e affronta i profeti di Baal in una sfida. Sul Monte Carmelo si allestisce un altare su cui immolare la vittima sacrificale, invocando fuoco dal cielo. Ovviamente, solo il sacrificio di Elia viene bruciato dal fuoco divino e tutti i profeti di Baal vengono giustiziati su ordine del profeta.  Izebel, moglie di Acab, infuriata per il trattamento riservato ai profeti di Baal, manda un messaggio a Elia, in cui promette di ucciderlo, legandosi con una maledizione: “Gli dèi mi trattino con tutto il loro rigore, se domani a quest’ora non farò della vita tua quel che tu hai fatto della vita di ognuno di quelli” (1 Re 19:2).

Tale minaccia  terrorizza Elia che prontamente fugge lontano.

Che ironia! Poco prima aveva dimostrato l’inconsistenza dei falsi dèi che Izebel aveva chiamato in causa nella maledizione, aveva dimostrato grande coraggio e fede nell’intervento del vero Dio ed ora, invece, cedendo alla paura “se ne andò per salvarsi la vita” (19:3). Raggiunge una delle montagne della catena montuosa del Sinai e trova rifugio in una caverna.

Fin qui l’antefatto.

Ora il profeta riceve una rivelazione di Dio che incomincia con una domanda: “Che fai qui, Elia?” (v.9). Dio non l’aveva mandato in questo luogo! Elia vi era scappato per la paura. È chiaro che il profeta si sentiva scoraggiato perché si riteneva l’unico rimasto a servire Dio: “sono rimasto io solo” (v.10).

Una prima considerazione che viene da fare è l’aspetto contraddittorio di Elia: fede con ii profeti di Baal e paura di fronte alla regina. Questa contraddizione, tra un atteggiamento forte e determinato nel servizio di Dio e la viltà nell’affrontare certe sfide della vita, vive in tutti noi. La presa di coscienza di questo atteggiamento contraddittorio, che può manifestarsi in ogni momento della nostra vita, è il primo passo per non esserne sopraffatti.

Un’altra considerazione a cui ci induce questo episodio è il “vedere nero”, il pessimismo.

Al versetto 10, Elia dice a Dio: “hanno ucciso con la spada i tuoi profeti”.

Elia menziona solo i profeti del Signore e non dice nulla della fine dei quattrocentocinquanta profeti di Baal. La paura e lo scoraggiamento facevano vedere ad Elia solo il lato oscuro, si sentiva un fallito.

Dio non rimprovera Elia per aver ceduto al pessimismo, ma gli dà una lezione da cui avrebbe tratto ispirazione. Così lo invita a uscire dalla caverna, simbolo del suo egoismo, per presentarsi davanti a lui. Elia assiste a tre grandi manifestazioni della potenza di Dio: vento, terremoto e fuoco. Molti secoli prima anche Mosè fu testimone di questi portenti, quando ricevette i dieci comandamenti, su quello stesso monte. Tuttavia, il Signore non è in nessuna delle tre manifestazioni, in nessuno di quegli elementi. Non sceglie un modo eclatante di rivelarsi.

Elia è consapevole di questo, ma non ha dubbi quando avverte “un mormorio di vento leggero” (v. 12). “Quando Elia lo udì, si coprì la faccia con il mantello” (v.13). Percepisce che il Signore si manifesta in quel lieve sussurro.

Quante volte abbiamo desiderato che Dio intervenisse nella nostra vita in maniera portentosa, venendo in nostro soccorso? Una malattia, una disgrazia, un tracollo economico sono per noi motivo di richiesta di aiuto, e ci aspettiamo una liberazione immediata dal problema.

Dimentichiamo che Dio si rivela in “un breve sussurro” venendo incontro alle nostre richieste, a volte, senza che ce ne rendiamo conto.

Dio interviene nella nostra vita in maniera dolce. Certo, è giusto chiedere a Dio di aiutarci, ma l’esperienza di Elia dovrebbe insegnarci che Il Signore agisce nella nostra vita non con i nostri metodi, spesso troppo drastici, ma con la sua dolcezza.

Allo stesso tempo, impariamo che vivere sempre alla ricerca di una grande esperienza significa avere uno zelo mal diretto. La maggior parte della nostra vita di servizio è tranquilla, a volte di routine, in umile obbedienza alla volontà di Dio. L’esperienza di Elia è particolarmente significativa quando veniamo disciplinati da Dio.

Ebrei 12:6 recita: “il Signore corregge quelli che egli ama”. Dio porta alla luce i nostri problemi spirituali in maniera delicata. Elia, forse reso troppo orgoglioso dei successi ricevuti (vv. 4, 10, 14) aveva bisogno di ricevere correzione, il suo problema spirituale doveva essere portato alla luce. Quante volte anche noi, come Elia, ci prendiamo troppo sul serio, ci sentiamo offesi da comportamenti di altri verso di noi, perché come questo profeta biblico ci sentiamo pieni “di zelo per il Signore degli eserciti” (v. 10, Cei). Elia può essersi cullato nel bagliore dello spettacolare (il fuoco che scende dal cielo!), aveva bisogno che Dio lo riconducesse sul binario giusto, manifestandosi in un tenue mormorio di vento.

Forse Elia può aver pensato che il potere della regina Izebel, dopo il fallimento della prova al Carmelo, sarebbe giunto rapidamente alla fine. Non avvenne, si sentì scoraggiato. Attenti quindi a non andare avanti a Dio! Lasciamo che sia lui ad agire secondo i suoi tempi e modi.

Affiniamo le nostre facoltà spirituali e … ascoltiamo il lieve sussurro di Dio!

Guardare e ascoltare Cristo per guarire

Guardare e ascoltare Cristo per guarire

Michele Abiusi – Come credenti ci siamo un po’ abituati ai racconti di guarigioni compiute da Gesù. Sono dei miracoli! Ne voglio citare uno: un uomo malato da ben 38 anni, alla piscina di Betsaida, che all’improvviso può alzarsi e camminare (cfr. Giovanni 5:2-9)!

Ma siamo capaci di crederlo davvero? In altre parole, queste guarigioni hanno qualcosa a che fare con la nostra vita reale?

La psicosomatica, nome che la scienza moderna ha dato al legame fra corpo e psiche, ci dice che la maniera con cui viviamo psichicamente influenza fortemente la nostra salute corporale. Per esempio: gli spaventi si possono difficilmente digerire. Infatti, se si prende uno spavento, lo stomaco si irrigidisce, produce dell’acido gastrico in più e allora si soffre di mal di pancia. Del ridere, invece, si sa ormai che rafforza le difese immunitarie! Corpo, spirito e anima sono un’unità.  “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2:7).

Dio ci ha creato con un corpo terreno e viviamo per mezzo del suo soffio vitale che rappresenta non solo la capacità respiratoria, ma anche la nostra psiche. Significa che può darci forza per vivere, che può darci il soffio dello spirito suo di speranza e di coraggio!

Anche il malato di Betsaida lo credette? Non lo sappiamo. Sappiamo che quell’uomo si era rassegnato. Non aveva nemmeno la speranza sufficiente per rispondere: “Sì, voglio guarire!”.
Conoscete questi sentimenti? Il sentirsi deboli, rassegnati riguardo alla vita? L’essere paralizzati dalle preoccupazioni? Purtroppo ne abbiamo un esempio molto attuale: tutto il nostro Paese è paralizzato dalla paura del coronavirus. E la paura nuoce alla salute! Però grazie a Dio siamo in mezzo a una storia d’amore! Una storia d’amore fra Dio e la sua creazione che egli vorrebbe salvare.
Deuteronomio 31:8 dice: “Il Signore stesso cammina davanti a te. Egli sarà con te, non ti lascerà e non ti abbandonerà. Non temere e non perderti d’animo!”.

Benché il malato di Betsaida non sia capace di far altro che lamentarsi perché gli manca l’aiuto, e non proclami nemmeno la sua fede, Dio, attraverso Gesù, si prende cura di lui. E il soffio, lo spirito divino, buono e forte, arriva al malato: risveglia in lui il coraggio che da solo non riesce a darsi. Malgrado l’esperienza vissuta da 38 anni, l’uomo si alza! Sta in piedi e cammina. È un bene che abbia guardato e ascoltato Gesù!

E la storia d’amore continua. Lo dice Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Giovanni 15:13). Donandosi per noi, Cristo ci ha dato l’esempio della forza divina, così grande che supera perfino la paralisi totale, la morte!

Alzati!
Nel testo originale greco la stessa parola “alzati”, egeíro, viene anche usata quando si parla di Dio che fa rialzare, risorgere Gesù! Così oggi, per la forza di Dio, Gesù è vivo in mezzo a noi e ci chiama: Alzatevi! Non importa se siamo depressi, Dio con la sua forza creatrice ci ama e offre di guarirci con il suo spirito salvifico.

Alla fine ne risulta la saggezza dei comandamenti più grandi! “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” (Matteo 22:37, Cei). Guardiamo a Dio invece che a un idolo, affinché ci comunichi il suo Spirito vitale! E il testo continua: “Amerai il tuo prossimo…” (v. 39), oppresso da una qualsiasi malattia. Perché sentire il tuo amore gli darà forza per guarire. Lo amerai “come te stesso”!

Allora, guidati dallo Spirito amorevole di Dio, facciamo qualcosa di bello. Andiamo all’acqua viva, a colui che non è troppo lontano per poterci arrivare, a Cristo Gesù. Lui ci aiuterà sempre ad alzarci e a camminare!

Occorre domandarci:
– Quando e come mi concedo la possibilità di percepire lo Spirito divino di salvezza?
– Come posso incoraggiare il mio prossimo a venire all’acqua viva?

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Michele Abiusi – L’apostolo Paolo, scrivendo ai Romani, evoca le sofferenze della creazione in attesa di salvezza, paragonandole a una donna che soffre le doglie del parto in attesa della gioia di una nuova vita. Poi continua: “Anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente» (Romani 8:18-23, Cei).

Chi guarda il nostro pianeta con uno sguardo sensibile al dolore dell’umanità lo vede costellato di ferite sanguinanti: dagli abitanti di quelle bidonville così somiglianti a discariche umane – sempre simili a se stesse sia che si trovino a Nairobi, al Cairo o a Manila – alla gente dello Zambia martoriata dall’aids; dai bambini di strada in America Latina, ai malati senza assistenza a Calcutta e ai due popoli ostaggi dell’odio in Palestina. Per non parlare dell’emigrazione clandestina, i cosiddetti “viaggi della speranza” che spesso si trasformano in disperazione e tragedia…

La nostra fede non fa di noi dei privilegiati fuori dal mondo, noi “gemiamo” con il mondo, condividendo il suo dolore, ma viviamo questa situazione nella speranza, sapendo che, nel Cristo, “le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende” (1 Giovanni 2:8, Cei).

Sperare, è dunque scoprire dapprima nelle profondità del nostro oggi una Vita che va oltre e che niente può fermare. Ancora, è accogliere questa Vita con un sì di tutto il nostro essere. Gettandoci in questa Vita, siamo portati a porre, qui e ora, in mezzo ai rischi del nostro stare nella società, dei segni di un altro avvenire, dei semi di un mondo rinnovato che, al momento opportuno, porteranno il loro frutto.

La nostra speranza si esprime nel nostro stile di vita
Per i primi cristiani, il segno più chiaro di questo mondo rinnovato era l’esistenza di comunità composte da persone di provenienze e lingue diverse. Grazie a Cristo, quelle piccole comunità sorgevano ovunque nel mondo mediterraneo, superando divisioni di ogni tipo. Quegli uomini e quelle donne vivevano come fratelli e sorelle, come famiglia di Dio, pregando insieme e condividendo i loro beni secondo il bisogno di ciascuno (cfr. Atti 2:42-47). Si sforzavano di avere “un medesimo pensare, un medesimo amore, essendo di un animo solo e di un unico sentimento” (Filippesi 2:2). Così brillavano nel mondo come dei punti di luce (cfr. Filippesi 2:15).

Sin dagli inizi, la speranza cristiana ha acceso un fuoco sulla terra. “Maranathà!” era il motto dei primi credenti: il Signore viene!

Abbiamo nel cuore tante speranze. A volte sono positive, elevate, belle e giuste. Rischiano però, in alcuni casi, di essere egoistiche e basse se non anche malvagie e discriminanti. Abbiamo allora bisogno di guardare alle speranze di Dio, il nostro punto di riferimento. Quali sono?

Cercando testimonianze bibliche a questo riguardo, si ha solo l’imbarazzo della scelta. Ne cito quindi solo alcuni che, a mio avviso, rendono un’idea abbastanza completa.
Di fronte alla morte e al male, Dio ha sempre invitato gli uomini a stare con lui, scegliendo il bene e la vita (Deuteronomio 30:15-20).
Ha sempre invitato, particolarmente il suo popolo, alla rettitudine e alla giustizia, rifiutando lo spargimento di sangue (Isaia 5:7).
Dio spera che gli uomini per trovare soluzioni ai loro problemi, cerchino innanzitutto lui: “È tempo di cercare l’Eterno, finch’egli non venga” (Osea 10:12, Luzzi).
E l’invito diventa sempre più pressante ed amorevole: “Israele…, torna al tuo Dio!” (Osea 14:1).
Perfino per l’evento che chiuderà la storia dell’umanità, il glorioso ritorno di Cristo, Dio attende pazientemente; forse “tarda” a tornare perché desidera che nessuno “perisca ma che tutti giungano al ravvedimento” (2 Pietro 3:9).
Dio spera che in questo periodo di crisi mondiale, l’uomo torni ad alzare lo sguardo al cielo e a cercarlo per soddisfare tutti i suoi bisogni, e possa dire: “abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivente” (1Timoteo 4:10).

 

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Seconda parte

La speranza di Israele realizzata da Gesù.

Michele Abiusi – Gesù inizia il suo ministero pubblico annunciando il “regno” (Marco 1:15) e lo indica “già presente” e nondimeno ancora futuro. Promette di ritornare per venire a prendere i suoi e condurli in quel luogo che sta preparando per loro (Giovanni 14:1-3). In attesa di quel giorno, il credente deve annunciare alle nazioni quel regno, forte della presenza di Gesù (Matteo 28:20 u.p.); questo diventa annuncio di speranza.

È interessante sottolineare gli attributi che gli apostoli danno alla speranza del credente:
viva – 1 Pietro 1:3-4;
sicura e ferma – Ebrei 6:18-19;
costante – 1 Tessalonicesi 1:3;
buona – 2 Tessalonicesi 2:16;
gloriosa – Romani 5:2.

Tutta la forza della speranza del credente si concentra quindi nell’attesa del ritorno di Gesù! “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Romani 5:5 Cei).

Lungi dall’essere un semplice augurio per l’avvenire, senza garanzia di realizzazione, la speranza cristiana è la presenza dell’amore divino in persona, lo Spirito Santo, fiume di vita che ci porta verso il mare di una piena comunione.

Mi preme sottolineare che la speranza biblica e cristiana non significa una vita nelle nuvole, il sogno di un mondo migliore. Non è una semplice proiezione di quello che vorremmo essere o fare. Essa ci porta a vedere i semi di questo mondo nuovo già nella realtà attuale, grazie all’identità del nostro Dio che si manifesta nella vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo.

Questa speranza è inoltre una sorgente di forza per vivere in un altro modo, per non seguire i valori di una società fondata sul desiderio di possesso e sulla competizione.

Nella Bibbia, la promessa divina non ci chiede mai di sederci e attendere passivamente che si realizzi, come per magia. Prima di parlare ad Abramo di una vita in pienezza che gli veniva offerta, Dio gli disse: “Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò” (Genesi 12:1 Cei). Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere perennemente un nuovo inizio.

Così pure, la buona novella della risurrezione non è un modo per distoglierci dai compiti di quaggiù, ma una chiamata a metterci in cammino. “Uomini di Galilea, perché state a guardare verso il cielo? … Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura … e mi sarete testimoni … fino agli estremi confini della terra» (Atti 1:11; Marco 16:15; Atti 1:8 Cei).

Questa “testimonianza” è fatta certamente di parole (la predicazione) ma va ben oltre. Sotto l’impulso dello Spirito del Cristo, i credenti vivono una solidarietà profonda con l’umanità priva dalle sue radici in Dio.

 

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Terza parte

Le speranze dell’uomo e le speranze di Dio. Prima parte

Michele Abiusi – Viviamo in un tempo di restrizioni a causa del coronavirus, ed è un tempo in cui desideriamo sperare. “Andrà tutto bene” è lo slogan che ci siamo dati come popolo italiano.

Sperare: in un futuro migliore, nel superamento della crisi, che la vita torni alla normalità… Coloro che pongono la propria fiducia in Dio hanno più che mai il dovere di “rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in loro” (1 Pietro 3:15). Ora, anche se per definizione la speranza guarda al futuro, per la Bibbia essa si radica nell’oggi di Dio. Egli si fa conoscere perché chiama gli esseri umani a entrare in una relazione con lui: stabilisce un’alleanza con loro.

La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed ed emet (Esodo 34:6). Generalmente, si traducono con “amore” e “fedeltà”. Innanzitutto, questi due termini ci dicono che Dio è bontà, è benevolenza senza limiti e si prende cura dei suoi figli; in secondo luogo, assicurano che Dio non abbandonerà mai quelli che ha chiamati ad entrare nella sua comunione.

Ecco la sorgente della speranza biblica. Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà – se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione – per i credenti non è una situazione definitiva. Nella loro fede in Dio, i credenti attingono l’attesa di un mondo secondo la volontà di Dio o, in altre parole, secondo il suo amore.

Nella Bibbia, questa speranza è spesso espressa con la nozione di promessa e alleanza. Quando Dio entra in relazione con gli esseri umani, in generale questo va di pari passo con la promessa di una vita più grande. Lo si vede già nella storia di Abramo: “Ti benedirò, disse Dio ad Abramo, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Genesi 12:2-3).

Al di là delle promesse universali di salvezza date dopo il peccato e dopo il diluvio (Genesi 3:14,15; 9:11), è da qui che comincia veramente la storia della speranza biblica legata alla storia di Israele.

La speranza delle benedizioni di Yahweh
Per secoli l’oggetto della speranza di Israele resterà la terra dove scorre latte e miele; i beni terreni sono doni di Dio (Genesi 13:15) che è fedele alle promesse e all’alleanza. Ma, al di là di questi beni, c’è la speranza di qualcosa di superiore, e Dio vuole condurre il suo popolo a comprenderla ed afferrarla: la salvezza, che è speranza di una terra per tutti, non solo per sé, ed è rinnovamento della vita nella giustizia, nell’armonia, nella pace di una creazione rinnovata per l’eternità.

Non sarà un percorso lineare e facile. La spiritualità altalenante del popolo d’Israele ha condotto talvolta i profeti ad annunciare il castigo di Dio, segno di una speranza distrutta; per poi consolare annunciando il perdono di Dio, cioè il rinnovamento della speranza (Geremia 30-33; Ezechiele 34-48).

Pace, salvezza, luce, guarigione, redenzione, sono i temi annunciati dai profeti che intravedono il rinnovamento del paradiso su questa terra; aspirano anche al giorno in cui Israele sarà ripieno della conoscenza di Dio (Isaia 11:9) perché Dio avrà rinnovato i cuori (Geremia 31:33) e le nazioni si convertiranno per rendere un culto finalmente perfetto (Zaccaria 14).

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