Onora tuo padre e tua madre. Il quinto comandamento

Onora tuo padre e tua madre. Il quinto comandamento

Michele Abiusi – Abbiamo visto che i primi quattro comandamenti vogliono aiutarci nella nostra relazione con Dio: siamo figli di un Padre Creatore che ci ha dato la vita, ci capisce e ci libera dal peccato. Avendo un Padre buono, siamo stimolati a rispettarlo, amarlo e ubbidirgli. Non potremo sostituirlo con persone e con immagini. Infine, ricordati, dice il Signore, del giorno che ho scelto come memoriale della nostra amicizia: il sabato.

Il quinto comandamento segna il passaggio dai principi che gettano le basi della relazione con Dio alle leggi che regolano i rapporti tra gli esseri umani.

“Onora tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà” (Esodo 20:12).

La gestione dei rapporti umani non poteva non iniziare dalla famiglia. È da notare che altri due comandamenti fanno riferimento alla famiglia: il settimo che proibisce l’adulterio e il decimo che comanda di non desiderare la moglie altrui.

Tre comandamenti che rivelano quanto Dio valorizzi la famiglia. E non potrebbe essere altrimenti perché la famiglia è stata voluta e creata all’inizio del mondo. Infatti, dopo aver dato la vita a Adamo e Eva, la Genesi dichiara: “Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne” (Genesi 2:24). Potremmo dire che Dio ha celebrato il primo matrimonio nel giardino dell’Eden.

L’importanza della famiglia è legata anche al fatto che al suo interno i figli imparano a vivere costruendo quei legami che si svilupperanno in seguito nella società. È nella famiglia che si assimilano i principi etici e spirituali che diventeranno parte della persona e di tutta la vita. L’equilibrio o gli squilibri che si vivono all’interno della famiglia si ripercuoteranno nella società. Ecco perché la famiglia deve ricevere tutte le cure e le attenzioni possibili.

Il comandamento di cui stiamo parlando incoraggia i figli a onorare, a rispettare i genitori senza limiti di tempo e di età. Sicuramente Dio voleva che i figli si ricordassero dei genitori soprattutto nella fase finale della loro vita, quando diventano più vulnerabili e meno autosufficienti. In diverse società, ancora oggi, l’anziano è un peso ed è abbandonato a se stesso se non addirittura aiutato a trapassare.

Con questa legge Dio non voleva soltanto proteggere i genitori divenuti anziani ma voleva anche che i nonni avessero un ruolo importante nella famiglia. La loro presenza può essere il legame tra passato e futuro, tra i valori antichi e la realtà attuale. Con i nonni vicini, i nipoti crescono sapendo che esiste un passato a cui far riferimento e gli anziani si avvicinano al tramonto della vita sperando ancora e guardando il futuro tramite i nipoti. Inoltre, nell’onorare mio padre e mia madre onoro anche me stesso, visto che anch’io un giorno diventerò genitore e nonno.

Si tratta quindi di un comandamento che, nel salvaguardare un rapporto, protegge l’intera società. Ecco perché include una promessa: “affinché i tuoi giorni siano prolungati sulla terra che il Signore, il tuo Dio, ti dà”. Questa è l’unica, tra le “dieci parole”, che include la promessa di una vita lunga. In effetti dove c’è rispetto e amore verso i più fragili, dove esiste una famiglia unita e disposta al servizio, l’esistenza è più tranquilla, si è in pace, la vita ha un senso e si è più felici. Ecco lo scopo finale del decalogo: la felicità e la vita.

Oggi sappiamo che l’immagine di Dio si forma nel bambino a stretto contatto con i genitori. Se i figli sentiranno affetto, accettazione, amore e se saranno stimati, svilupperanno l’idea che Dio esiste, che si preoccupa e si occupa di loro, che li ama, li perdona. Così il ragazzo sarà attratto da Dio e anche da adulto avrà un’idea tendenzialmente più positiva del Creatore.

Se invece il bambino riceve maltrattamenti fisici e psicologici, se vive il sentimento di abbandono, di incomprensione, se è schiacciato sistematicamente o protetto in modo ossessivo, allora con gli anni, svilupperà più facilmente la paura di Dio che vedrà come un dittatore o un paternalista, che non lascia libero l’individuo.

Molti si dicono atei o rifiutano la religione perché i genitori, gli educatori o i responsabili spirituali hanno distrutto in loro, quando erano giovani, l’amore per il Padre eterno.

Il fatto che dopo i primi quattro comandamenti, che insistono nel rispetto di Dio, sia menzionato il rispetto dei genitori, può voler indicare una relazione tra le due realtà. È come se, imparando a rispettare i genitori, si potesse rispettare meglio Dio; come se amando e onorando chi ci ha generato, si gettassero basi più solide per accettare, amare e onorare il Padre infinito.

Ricordati del sabato. Il quarto comandamento

Ricordati del sabato. Il quarto comandamento

Michele Abiusi – Due istituzioni risalgono alla creazione e sono anteriori all’ingresso del peccato nel mondo: il matrimonio e il sabato. Soffermiamoci sul sabato che Dio ha inserito nella prima tavola della legge, il quarto comandamento: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro” (Esodo 20:8-11 Cei).

Il sabato viene presentato come memoriale della creazione. La benedizione di Dio cade su quel giorno, non su un altro, “messo da parte per un uso sacro”. Inoltre, è l’unico comandamento che incomincia con il verbo “ricordati”. Sembra che Dio prevedesse che l’umanità avrebbe abbandonato l’osservanza di questo comandamento. Il sabato è la festa della creazione.

Ci si può chiedere: “Cosa ha aggiunto Dio al creato visto che tutto era molto buono?”. La creazione termina nel riposo del suo Creatore: “Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto l'esercito loro. Il settimo giorno, Dio compì l'opera che aveva fatta, e si riposò il settimo giorno da tutta l'opera che aveva fatta. Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, perché in esso Dio si riposò da tutta l'opera che aveva creata e fatta” (Genesi 2:1-3).

Il sabato è l’unico giorno che non ha sera (nel racconto della Genesi, ndr)… Dio gode della visione dell’intero creato. Il sabato è rappresentativo di tutta l’opera di Dio, è il fondamento della creazione, è il primo giorno pieno vissuto dai nostri progenitori in Eden. Tutti gli esseri creati sono invitati a celebrare il sabato di Dio. Tutti sono compagni nella celebrazione di Dio. Tutto ciò che esiste viene da Dio e dal suo amore. Quando l’amore pervade la vita, troviamo tutto buono, tutto bello.

Dio vede la creazione molto buona. Benedice nel sabato il tutto e rimane sempre, completamente aperto alle sue creature. Il sabato è il giorno in cui possiamo sperimentare la presenza di Dio. Quello che ora è benedetto non è una creatura vivente, come nei giorni creativi precedenti lo erano stati gli animali marini o la coppia, bensì un tempo: il settimo giorno. Dio lo benedice non operando, ma il suo riposo equivale alla sua presenza. Non è limitato solo al genere umano, questo posto è nel tempo; in questo giorno Dio semplicemente è!

Non si tratta di una benedizione particolare, ma universale. Il sabato è “la cattedrale del tempo, la religione del tempo” (come lo definisce il rabbino Abraham Joshua). Il sabato è il memoriale della creazione, ma anche il giorno della speranza per la nostra salvezza finale. La disposizione di Dio, in questo comandamento, è che ci prendiamo una pausa dalle cose del tempo e dello spazio e curiamo l’amicizia con il nostro Creatore e Redentore.

Il sabato è un segno distintivo: “Diedi loro anche i miei sabati come un segno fra me e loro, perché sapessero che sono io, il Signore, che li santifico. Santificate i miei sabati e siano un segno fra me e voi, perché si sappia che sono io, il Signore vostro Dio” (Ezechiele 20:12,20). Infatti, il quarto comandamento è l’unico in cui Dio si proclama Creatore dei cieli e della terra.

Il libro biblico del Levitico, al capitolo 23, descrive le feste solenni del popolo ebraico. Con la parola sabato si indicano festività, ferie, giorno di riposo, che in ebraico è sempre shabbath. Ma il teso sottolinea la distinzione fra queste festività ed il sabato settimo giorno della settimana (Levitico 23:37-38). Il sabato, dunque, non fu designato come lo erano i giorni di festa. È stato creato da un atto di Dio.

Il quarto comandamento è il più importante del decalogo perché ci mette in armonia con Dio. Abbiamo il diritto di chiederci le ragioni per cui Mosè doveva insegnare e praticare il riposo del sabato. Eccone alcune.

1. Dio ha voluto inserire nel ritmo del tempo un giorno che servisse come memoriale, perché non dimenticassimo le nostre origini di figli di Dio. È così importante ricordare che la mia vita non dipende solo dal mio impegno. È così “naturale” illudersi di essere autosufficienti. È così facile dimenticare Dio, immersi e sommersi nel consumismo e nel materialismo. Ogni settimana sono invitato a celebrarlo, a onorarlo, a incontrarlo.

2. Dio sapeva che la sua creatura avrebbe avuto bisogno di una pausa settimanale dai suoi impegni fisici e mentali. Il sabato sarebbe stato il giorno in cui ritrovare se stessi fuori dai ritmi frenetici del lavoro, che ci trasformano spesso in macchine, schiavi dei nostri bisogni materiali. Ritornare alle origini con il sabato, per ritrovare il proprio equilibrio a contatto con la natura in una dimensione più umana.

3. Significato ecologico del sabato in quanto ci permette di contemplare la bellezza della natura. Il sabato è anche per gli animali, per gli stranieri; tutti devono essere liberi in questo giorno. Anche l’anno sabbatico ha un profondo senso ambientale: la terra stessa può riposare (e tutte le strutture agricole hanno capito la saggezza di questa legge). Lo sfruttamento della terra porta alla cattiva sopravvivenza. Dobbiamo permettere alla terra di celebrare il suo sabato!

È interessante che in questo comandamento sia inclusa la propria famiglia e non solo. Gli stranieri, i servi e addirittura gli animali, tutti dovevano godere del privilegio di adorazione e di riposo. Con il sabato si ritorna ancora alle nostre origini per ritrovarci parte di un tutto. Riconosco che gli altri hanno i miei stessi diritti perché sono figli di Dio come lo sono io. Anche se il colore della loro pelle è diverso, anche se la lingua e la cultura cambiano, siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre.

Cosa sarebbe stato della nostra storia se avessimo capito questo messaggio insito nel comandamento del sabato? Forse ci saremmo risparmiati tante guerre; forse non saremmo stati schiavi delle tante forme di discriminazioni razziali, etniche o di genere; forse non avremmo sfruttato la natura, gli animali e neppure gli altri esseri umani, per il nostro tornaconto e piacere. Se avessimo veramente ricordato questa verità forse non ci saremmo persi, lontani da Dio e dalla sua Parola. Se avessimo vissuto il sabato come Dio voleva, probabilmente lo stress e le tante malattie nervose non ci avrebbero vinto, come purtroppo accade. Nei Vangeli, Gesù, non i farisei, ci ha indicato come mantenere “santo” questo giorno.

Ma ha ancora senso parlare del quarto comandamento nel terzo millennio? 
Il sabato diventa un giorno per alimentare una relazione con Dio, un giorno di santa convocazione, in cui prendiamo atto che non siamo soli. Un giorno per fermarci dalla corsa quotidiana. Serbare il sabato è uno dei cardini della fede in Gesù stesso.

Erich Fromm, filosofo contemporaneo, nel suo meraviglioso libro Avere o essere, afferma: “La domenica moderna è un giorno di divertimento, di fuga da se stessi. Ci si potrebbe chiedere se non è venuto il momento di ristabilire il sabato come giorno universale di pace e di armonia. Il sabato è un giorno di gioia perché offre l’occasione di essere pienamente se stessi. Il sabato è il giorno in cui la proprietà e il denaro, come il dolore e la tristezza, sono tabù; il giorno in cui il tempo è vinto e in cui l’unica regola è essere”.

Il sabato è, e sarà sempre, una parte del creato originale di Dio e della sua nuova creazione. “‘Avverrà che, di novilunio in novilunio e di sabato in sabato, ogni carne verrà a prostrarsi davanti a me’, dice il Signore” (Isaia 66:23).

 

Terzo comandamento. Il nome di Dio invano

Terzo comandamento. Il nome di Dio invano

Michele Abiusi – Il terzo comandamento così come è scritto nel libro dell’Esodo, al capitolo 20, recita: “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano" (v. 7). 

Nel primo precetto Dio si presenta come l’unico esistente: l’unico che salva, che libera; l’unico Dio che l’uomo può adorare. Con il secondo comandamento Dio aiuta l’uomo a combattere l’idolatria, la superstizione e le concezioni magiche che così facilmente allontanano il credente da una relazione profonda e spirituale con il divino, proibendo il culto prestato a qualsiasi immagine e a qualunque persona. Nel terzo comandamento ci mette in guardia contro un uso sbagliato, scorretto, inutile del nome di Dio. Si tratta ancora di un precetto che vuol regolare il nostro rapporto con il Signore dell’universo.

A una prima lettura capiamo che si tratta di un ordine a non bestemmiare. In effetti la bestemmia, che è purtroppo così comune nella nostra Italia e soprattutto in alcune nostre regioni, rivela non solo il non rispetto di Dio ma anche la mancanza di sensibilità verso le persone che ci ascoltano e che potrebbero essere dei credenti. 

Ma questo precetto non parla solo ai bestemmiatori. Vediamo cosa significava per Mosé, che ha trascritto le dieci parole, l’espressione “non pronunciare il nome del Signore invano”.

Bisogna tener conto che per gli antichi popoli semiti il nome non era semplicemente una parola che distingueva una persona da un’altra o un Dio da un altro; il nome era parte integrante della persona. Rispettare il nome di Dio significava rispettare Dio stesso, la sua essenza e tutto ciò che rappresentava. 

Un giorno Gesù disse al Padre riguardo ai suoi discepoli: 
– “Io ho manifestato il tuo nome agli uomini” (Giovanni 17:6);
– “Io ho fatto loro conoscere il tuo nome, e lo farò conoscere, affinché l'amore del quale tu mi hai amato sia in loro, e io in loro” (Giovanni 17:26).

Far conoscere il nome di Dio non significava, per Gesù, trasmetterci i suoi dati anagrafici. Gesù non voleva rivelarci l’unico nome accettabile per parlare del Padre e per pregare. Venendo tra di noi, ci ha comunicato il carattere e i sentimenti del Padre. Conoscere il nome di Dio significa apprendere l’amore, la grazia, il perdono, la misericordia, la pazienza del Signore. Per questo i testi appena menzionati del Vangelo di Giovanni affermano che Gesù ha “manifestato”, “ha fatto conoscere il nome di Dio agli uomini”, permettendoci così di vivere l’amore di Dio. Solo scoprendo l’amore di Dio possiamo viverlo!

Gesù è venuto non per far conoscere un nome, ma per rivelare l’essenza e il carattere di colui che si celava, e ancora oggi si nasconde, dietro i vari nomi con i quali l’uomo lo nomina. Ma c’è dell’altro: il nome era, presso gli antichi ebrei, uno strumento per parlare del significato dell’esistenza. Il nome aveva un senso, traduceva un modo di essere, era dato in funzione degli eventi legati alla nascita o di ciò che i genitori si aspettavano dal figlio. Per esempio, il nome Mosè significa “salvato dalle acque”, Samuele vuol dire “chiesto al Signore”, Giacobbe proviene dal verbo “ingannare”, Gesù significa “Dio salva”, Emmanuele è “Dio con noi”. E potremmo continuare all’infinito.

Ogni nome dei personaggi biblici porta con sé un messaggio, una missione. Per capire quanto il nome fosse legato alla realtà della persona basti sapere che a volte veniva cambiato in funzione di un evento importante che alterava il percorso della vita. Così Abramo, “padre eccelso”, diventerà Abrahamo, “padre di una moltitudine”; Giacobbe, “ingannatore”, sarà chiamato Israele, “colui che lotta con Dio”; e accadde con l’apostolo Simone che Gesù chiamò Pietro.

Tenendo conto di quanto abbiamo appena detto, è facile capire perché Dio non si lasci definire da un nome. Il Dio che parlò a Giacobbe, cambiandogli il nome e la storia, rifiutò di svelare il proprio nome dicendo “Perché chiedi il mio nome?”. La sua eternità non potrebbe essere racchiusa in un nome. La Sacra Scrittura parla di Dio solo facendo allusione alle sue caratteristiche: il Creatore, l’Eterno, il Pastore, il Re dei re, il Signore dei signori, il Potente, il Misericordioso, il Padre eterno, l’Eterno degli eserciti, e così via. Ogni nome esprime un aspetto di Dio, ma tutti insieme non riescono a qualificarlo pienamente. Dio è irraggiungibile. Il suo essere infinito non può essere bloccato con qualche consonante o vocale…  Se qualcuno pretendesse di conoscere il vero e unico nome di Dio dimostrerebbe una grande presunzione.

Gli stessi ebrei che ricevettero da Dio le prime rivelazioni contenute nella Bibbia scrivevano il nome che ritenevano più sacro di Dio con quattro consonanti, YHWH, che non pronunciavano per il grande rispetto che ne avevano. Quando si imbattevano nelle quattro consonanti cambiavano la parola e leggevano “Adonai”, che in italiano traduciamo con “Signore”. Sapendo che anticamente la lingua ebraica si scriveva senza le vocali e visto che il sacro nome non veniva pronunciato, con il passare dei secoli si è persa la vocalizzazione di quel nome e quindi la possibilità di leggerlo correttamente. Sappiamo soltanto che le quattro consonanti fanno riferimento al verbo essere, quindi all’esistere; da qui l’idea che quel nome voglia dirci che Dio sia colui che è, che esiste, che è presente.

Comunque, in conclusione, vorrei dire che la pretesa che alcuni hanno di conoscere il vero e unico nome della divinità è senza fondamento storico e biblico. Ricordate la preghiera del “Padre nostro”? Ecco le prime parole: "Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Matteo 6:9). Gesù ha preferito definire Dio con il termine “Padre”, invitandoci a seguire il suo esempio per privilegiare questo rapporto familiare, intimo e amichevole che dovrebbe istaurarsi tra noi e lui.

L’espressione “sia santificato il tuo nome” non significa soltanto rispettare un nome specifico, ma manifesta la responsabilità di colui che prega nell’adoperarsi affinché Dio sia onorato, amato, valorizzato nelle proprie parole ma anche nel comportamento. Nel pregare “sia santificato il tuo nome”, esprimo il desiderio e la volontà di dare il tempo e l’attenzione necessari al mio Creatore e ai suoi consigli, alla sua Parola.

Potrei non bestemmiare e comunque mancare di rispetto al nome di Dio se, per esempio, pur conoscendo la sua legge non la seguissi; se non leggessi quel messaggio meraviglioso, la Bibbia, che il Signore mi ha inviato; se non vivessi il suo amore con i miei familiari e con chiunque altro. 
Non potrei onorare il suo nome e maltrattare uno dei suoi figli, chiunque esso sia. 
Non è possibile santificare il suo nome e non essere sensibile verso colui che soffre. 

Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano…

 

 

 

Il secondo comandamento

Il secondo comandamento

Michele Abiusi – Continuiamo a riflettere sulla legge dei dieci comandamenti, la Torah, le dieci parole, che Dio incise su due tavole di pietra e che sono rimaste custodite per secoli nella parte più sacra del tempio di Gerusalemme, dentro l’arca dell’alleanza.

Nel primo comandamento Dio si era presentato come il Dio della storia, che interviene in favore dei suoi figli e li salva liberandoli dalla schiavitù. Quindi aveva invitato a non avere altri dèi. E come potremmo servire altri signori avendo conosciuto un Dio così straordinario, un Padre così misericordioso!

Veniamo al secondo comandamento: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi” (Esodo 20:4-6, Cei).

Il secondo comandamento segue, per contenuto e logica, il precedente. Se ho deciso di seguire soltanto il Dio che mi ha creato, che mi accompagna lungo la mia storia, che mi perdona, mi libera e mi salva, allora non solo non avrò altri signori, ma non mi farò neppure delle sculture o delle immagini di esseri che credo vivano in cielo o in terra e non presterò loro nessun culto.

La ragione di questa richiesta è che Dio è geloso.

In altre parole, Dio ci dice che, quando ci vede inginocchiati davanti a delle immagini, prova gli stessi sentimenti di un marito la cui moglie lo stia tradendo…  Rifiuto, abbandono, infedeltà, tradimento, ecco come Dio considera il prostrarsi davanti a qualunque immagine.

La presenza delle immagini non si impose facilmente nel culto cristiano e durante molti secoli i concili della chiesa si schierarono ora contro, ora a favore delle immagini. Ci fu addirittura una guerra che durò quasi un secolo, conosciuta come la guerra “iconoclasta” cioè causata dalle opinioni diverse riguardo alle icone, alle immagini. La venerazione delle immagini venne ufficializzata il 3 dicembre del 1563 al concilio di Trento.

Questo cambiamento delle pratiche cultuali e dell’insegnamento della legge di Dio trova la sua origine nel progetto realizzato già nei primi secoli della nostra era di rendere più accessibile e più accettabile il cristianesimo ai pagani che adoravano ogni specie di dèi e si prostravano davanti ad ogni sorta di immagine che avevano collocato in ciascuna piazza e collina, per ottenerne la protezione.

Nei giorni stabiliti le portavano in spalla in processione e facevano loro dei voti e sacrifici. Qual è il pericolo che si cela dietro il culto delle immagini? Se sappiamo rispondere a questa domanda capiremo perché Dio ha categoricamente proibito queste pratiche e perché le considera un tradimento.

Noi riconosciamo che esiste un solo Dio e che è eterno e onnipresente. Inoltre, siamo sicuri che è disposto a perdonarci e a salvarci perché ci ama più di quanto una madre possa amare i propri figli. Infine, Gesù ci ha insegnato che dobbiamo offrirgli un culto in Spirito e verità, cioè legato alla sua parola e al nostro intimo, più che agli oggetti.

Prima di tutto devo dire che adorare Dio o Gesù Cristo tramite immagini rischia di ridurre, di limitare il nostro Signore, eterno e infinito, a un luogo o ad alcuni oggetti. Credo che questo offenda Dio che è molto più di ciò che possiamo immaginare. In secondo luogo, prestare il culto alle immagini che rappresentano esseri umani è doppiamente inaccettabile perché il culto, l’adorazione e qualunque richiesta sono riservati unicamente a Dio e non possiamo rivolgerci a nessun altro. Gesù in questo è categorico: “Se mi chiederete qualche cosa nel mio nome, io la farò” (Giovanni 14:14).

Chi può amarci più del Signore? Chi può capirci più di Cristo? Ho sempre pensato che se i miei figli cercassero di comunicare con me solo tramite lo zio, la zia o chiunque altro, vorrebbe dire che ci sarebbe un serio problema di comunicazione fra noi!

Ma veniamo ad altri pericoli insiti in queste pratiche. Se si offre un culto alle immagini, con il tempo e inconsciamente queste immagini possono divenire così importanti da prendere il posto di Dio, introducendo nella nostra mente alcune idee superstiziose. Per esempio, pensare che Dio mi ascolti solo perché ho un crocifisso sulla parete o pensare di essere protetto se ho in tasca o appesa al collo un’immagine sacra. 

Il culto delle immagini può creare un così forte legame affettivo tra il credente e l’oggetto in questione che la necessità di conoscere Cristo e di studiare la Sacra Bibbia può diventare secondaria.

Non varrebbe la pena di ritornare alla legge di Dio?

 

 

 

Io sono il Signore, il tuo Dio

Io sono il Signore, il tuo Dio

Michele Abiusi – Questa è l’introduzione ai dieci comandamenti. Mi riferisco alla legge dei dieci comandamenti, cioè la Torah in ebraico, parola che significa insegnamento, via, cammino. Una legge quindi che doveva condurre, meglio ancora, accompagnare il credente nella vita e per il bene.

La stessa legge è stata anche chiamata le dieci parole, Debarim in ebraico. Un’espressione che ricorda le dieci volte che Dio parlò alla Genesi del mondo per creare ogni cosa, la luce, il mare, la terra, la vegetazione, gli astri, i pesci, gli uccelli, gli animali di ogni specie, i rettili e, finalmente, l’uomo. Dieci parole per creare l’habitat ideale per l’uomo e dieci parole per esprimere l’ideale della legge, sempre per l’umanità.

Non è certamente a caso che Mosè usò, nei due momenti più importanti della storia biblica, i Debarim, le dieci parole. Come se Mosè volesse dirci che la creazione non potesse sussistere senza la Torah, la legge. Come se Dio avesse, sul Sinai, completato la sua opera creatrice in favore dell’umanità. La legge ha la sua ragion d’essere con l’uomo e infatti non esiste umanità senza legge.

I dieci comandamenti sono stati considerati come la Magna Carta per il popolo di Dio, l’essenza della volontà divina, la manifestazione del suo carattere e del suo amore per i propri figli. Sulla base di questi dieci principi sono state formulate, in seguito, tutte le altre leggi, quelle civili, sociali e religiose, e non solo in Israele.

Ma vediamo adesso la prima di queste leggi:

Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me” (Esodo 20:2, 3).

All’inizio la Torah menziona il legislatore conferendo così autorità a tutto ciò che seguirà. Il nostro Dio è colui che si è rivelato nella storia, che ha agito per il bene dell’intera umanità e per Israele quando era oppresso in Egitto. Quella liberazione fu l’inizio della storia di Israele e fu il segno dell’esistenza, della grandezza e dell’amore di Dio.

Quindi il primo comandamento sembra dire: “Se io sono il tuo Dio, se mi riconosci come il Signore che si è preso e si prenderà sempre cura di te … Allora non avrai altri dèi oltre a me!”.

Dio scrisse le due tavole di pietra dopo aver dimostrato al popolo chi era; la legge fu data al Sinai dopo che il popolo aveva avuto la prova dell’amore di quel Dio creatore di cui Mosè parlava. Solo dopo le molteplici evidenze della presenza di Dio, le sue tante attenzioni in loro favore e la liberazione dall’oppressore, Dio chiese di essere accettato come loro Signore, come unico Dio. Visto che avete un Dio che vi ha accolti, visto che avete un Dio che vi ha protetti, salvati, liberati, come fareste a seguire altri dèi?

Pare che il Signore volesse dire: Non potrete seguire altri dèi proprio perché io sono e rappresento tutto ciò che voi cercate e di cui voi avete bisogno.

Malgrado Dio si sia rivelato spesso come un Padre che perdona e salva, l’uomo ha sviluppato, con il passare degli anni, nella sua mente, le immagini di un Dio autoritario, a volte quelle di un dittatore spietato ed esigente. In ogni cultura e religione, ha preso vita il volto di un Dio giustiziere che controlla minuziosamente la vita dei suoi figli e dà a ognuno secondo ciò che merita, niente di più; un Dio contabile che offre il perdono o la salvezza “all’asta”, cioè a chi paga il prezzo più alto, a chi compie sacrifici più significativi.

Alcuni hanno creduto e insegnato di un Dio guerriero e hanno combattuto e ucciso nel suo nome.

Di fronte a queste concezioni non c’è da stupirsi se molti si sono ritirati da Dio, con paura, dichiarandosi addirittura atei. Queste immagini false di Dio sono state, e sono ancora oggi, alla base di comportamenti sbagliati (come guerre, atti di terrorismo o suicidi kamikaze), e hanno allontanato molte persone dalla fede. Vorrei associarmi a coloro che si dicono atei, ribadendo che anch’io non credo al Dio contabile, guerriero, giustiziere, esigente, autoritario. Anch’io non credo a questo tipo di Dio perché non esiste affatto!

Molte delle filosofie atee sono nate proprio per contrastare le ideologie sbagliate della religione e dei religiosi che hanno presentato un Dio assurdo, incredibile: il Dio delle crociate, che offre la vita eterna a chi uccideva gli infedeli; il Dio dell’inferno, che fa soffrire per l’eternità chi ha sbagliato un solo giorno; o il Dio del purgatorio, che salva grazie a raccomandazioni… Queste invenzioni non hanno fatto che allontanare l’uomo dal vero Dio!

Ma allora chi è Dio? Come conoscerlo?

La buona notizia è che Gesù è la vera immagine di Dio:

– “Egli è l'immagine del Dio invisibile” (Colossesi 1:15);

– “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Giovanni 14:9);

– “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14:6).

Volete conoscere il Padre? Non avete altra scelta: aprite i Vangeli e scoprirete il carattere di Gesù, il suo amore, il suo perdono, la sua sensibilità verso ogni persona; la sua attenzione verso chi soffre, la sua disponibilità verso chi è emarginato, chi è solo o malato. Scoprirete che Gesù è comprensivo verso i peccatori: ci perdona e ci salva gratuitamente. Scoprirete che non ci tratta come meriteremmo: è molto più generoso di quanto pensiamo. Conosceremo un Dio che non ci stima in proporzione alle nostre ricchezze o alla nostra intelligenza, e neppure ci accoglie in funzione delle raccomandazioni che presentiamo…

Potrei dirvi che Gesù è venuto fra di noi per cambiare la concezione sbagliata che avevamo di Dio. È venuto a stare con noi per farci conoscere il vero Dio, non quello che l’uomo si è inventato e che spesso le religioni hanno mal presentato. Gesù è stato portatore di buone notizie e la migliore è che Dio ci ama!

“In quel giorno chiederete nel mio nome; e non vi dico che io pregherò il Padre per voi;poiché il Padre stesso vi ama” (Giovanni 16:26, 27).

In conclusione, posso dire che, se si è coscienti di quanto Dio sia buono e sensibile, se si è sicuri che Dio ti è Padre e ti tratta con affetto come neppure nessuna madre sa fare, allora sicuramente non avrai né la necessità né il desiderio di seguire altri dèi, altri messia, altri cristi o profeti. Non cercherai in altre persone l’aiuto che solo Gesù ti può offrire.

I dieci comandamenti. New start spirituale

I dieci comandamenti. New start spirituale

Michele Abiusi – Ripercorrendo l’esperienza della liberazione dalla schiavitù in Egitto, Dio si esprime così rivolto al popolo d’Israele: “Voi avete visto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portato sopra ali d'aquila e vi ho condotti a me” (Esodo 19:4).

Sempre partendo da questa esperienza, Dio consegna a Mosè, sul Monte Sinai, due tavole scritte col proprio dito, per una nuova partenza, un nuovo inizio. È l’introduzione a tutto ciò che segue. “Dio allora pronunciò tutte queste parole: ‘Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù’” (Esodo 20:1-2).

In questi versetti sono evidenti tre punti: 
– Dio tuo (conosciuto); 
– che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto; 
– dalla condizione di schiavitù.

Gli Ebrei le definivano le dieci parole; noi li conosciamo come i dieci comandamenti. 

Queste dieci parole non sono state divise aritmeticamente sulle due tavole. Nella prima ve ne sono quattro e nella seconda sei. I primi quattro comandamenti regolano la nostra relazione con Dio, gli altri sei quella con gli uomini; anche perché il nostro rapporto con il prossimo dipende da quello con Dio. Vediamoli brevemente, riproponendoci di esaminarli più dettagliatamente uno per uno, in seguito.

1. Non avere altri dèi oltre a me. Non permettere a niente di interporsi tra me e te, non renderti di nuovo schiavo di te stesso, permettendo al tuo io di sentirsi un dio anche quando non te ne rendi conto. Concedimi di lavorare nella tua parte inconscia affinché la mia immagine ripristinata (e non la tua o quella di qualsiasi altro) risieda in te.

2. Non ti fare scultura alcuna. Non crearti immagini sbagliate anche di Dio, non permettere alle tue idee, anche religiose, o a immagini che ti puoi creare, di riportarti nella schiavitù da cui ti ho tolto. Non adorarti, sentendoti a posto anche spiritualmente.

3. Non pronunciare il nome di Dio invano. Non usiamo il nome dell’Eterno invano solo con la bestemmia o nominandolo senza motivo. Possiamo profanarlo presentando agli altri un a sua immagine sbagliata, facendo dire a Dio cose che non sono sue, ma nostre. Non permettere al tuo ego di sentirsi un dio e parlare al suo posto.

4. Ricordati del giorno del sabato… lavora sei giorni… Con amore ho messo da parte un giorno per toglierti dalla schiavitù della vita quotidiana. È per te e per coloro che sono nella tua casa, affinché tu permetta anche agli altri di godere della libertà che ti offro. Ricordati. Non devi ricordarti solo che un tempo (alla creazione) osservavi questo giorno, ma ricordati che per amore io sono entrato nella tua valenza, creando il sabato e riposandomi dopo sei giorni creativi. Ho fatto il primo passo per incontrarti e ora ti offro la gioia di entrare nel sabato, affinché quella relazione sia ripristinata.

Entrando ora tu nella mia valenza, ti permetto di estraniarti dalla schiavitù giornaliera e ti faccio accedere alla dimensione del cielo. Entrando nel sabato ti santifichi se lo vivi nella dimensione che io ti propongo. Non renderti schiavo della tua vita.

5. Onora tuo padre… Impara il rispetto. Solo onorando e rispettando i tuoi genitori, che rappresentano la tua autorità fin da piccolo, imparerai ad avere rispetto per Dio. Questo non significa sottomissione cieca, ma prendere le proprie decisioni pur rispettando i genitori.

6, 7, 8, 9, 10. Non renderti schiavo dei tuoi desideri inappagati. Non permettere al tuo inconscio di fare i capricci come un bambino piccolo, tanto che razionalmente decidi di accondiscendere. Solo permettendo a Dio di lavorare in noi per toglierci dalla nostra schiavitù possiamo poi avere un buon rapporto con gli altri; altrimenti chi ci circonda vedrà sempre un bambino che non riesce a crescere, pronto a fare capricci per qualsiasi cosa non può avere.

Il new-start spirituale che ci viene offerto è uno stile di vita nuovo, non costituito da regole o proibizioni, ma una nuova partenza in cui saremo liberi di vivere la nostra vita incentrandola su Cristo anziché su noi stessi. Una vita fatta di coerenza, priva della schiavitù di apparire quello che non siamo. Liberi di entrare nella dimensione del cielo, senza preoccuparci della routine. Liberi di ascoltare la voce di Dio con la certezza che è lui a parlare e non il nostro ego inappagato. Liberi di entrare nella dimensione del cielo con la certezza di vivere l’incontro con il Padre, non in un momento estatico, ma come stile di vita.

Questa è la mia esperienza quotidiana, la mia gioia e desidero invitare anche te a questa nuova partenza, con coraggio.
Credimi, ne vale veramente la pena!

Il sacerdozio cristiano

Il sacerdozio cristiano

Michele Abiusi – In ogni religione esiste la funzione sacerdotale. In genere è riconosciuta al sacerdote un’autorità sacrale che fa di lui una persona particolare, diversa, per certe ragioni, dagli altri credenti, spesso più santa.

A lui ci si rivolge per compiere dei sacrifici, per officiare riti e cerimonie, per comunicare con Dio, per ottenere da Dio qualche grazia.

Nella Bibbia, Antico Testamento, il sacerdote oltre ad essere l’autorità in materia religiosa, legale e sanitaria, era mediatore tra il credente peccatore e il Dio santissimo. Solo lui poteva entrare nel santuario, cioè alla presenza di Dio, e solo lui compiva i riti in favore e al posto del popolo. Una parte importante del sacerdozio erano i sacrifici di animali.

Mentre nei culti politeisti i sacrifici servivano a placare l’ira degli dèi e a manipolarli, nel sistema ebraico i sacrifici erano segno e accettazione del perdono di Dio.

Ma con il vangelo di Gesù Cristo, tutto il sistema sacrificale è stato modificato profondamente.

Il primo cambiamento riguarda i sacrifici: all’inizio del suo ministero, nel giorno del suo battesimo, Gesù fu chiamato “l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Con questa frase Giovanni il Battista preannunciava l’insegnamento apostolico sul sacrificio “più eccellente” di Gesù Cristo: “Era dunque necessario che i simboli delle realtà celesti fossero purificati con questi mezzi. Ma le cose celesti stesse dovevano essere purificate con sacrifici più eccellenti di questi” (Ebrei 9:23). E sull’offerta del suo corpo “fatta una volta per sempre”. “Mentre ogni sacerdote sta in piedi ogni giorno a svolgere il suo servizio e offrire ripetutamente gli stessi sacrifici che non possono mai togliere i peccati, Gesù, dopo aver offerto un unico sacrificio per i peccati, e per sempre, si è seduto alla destra di Dio, e aspetta soltanto che i suoi nemici siano posti come sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che sono santificati” (Ebrei 10:11-14).

Alla sua morte Cristo ha messo la parola fine al sistema sacrificale di Israele.

Ormai il segno, la prova evidente del perdono di Dio non è più un agnello o un montone, ma il Cristo stesso che dalla croce lanciò il grido di perdono che valica il tempo e lo spazio: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Il secondo cambiamento del sistema sacerdotale riguarda il Sommo Sacerdote: in Israele questa funzione era esercitata dalla famiglia di Aronne. Solo lui poteva incontrarsi con Dio, tramite un cerimoniale realizzato una volta l’anno, lo Yom Kippur, il giorno del grande perdono o del giudizio.

L’autore della Lettera agli Ebrei è categorico nel riconoscere che, per il cristiano, l’unico Sommo Sacerdote è Gesù. “Ora, il punto essenziale delle cose che stiamo dicendo è questo: abbiamo un sommo sacerdote tale che si è seduto alla destra del trono della Maestà nei cieli (Ebrei 8:1) … “dove Gesù è entrato per noi quale precursore, essendo diventato sommo sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec” (Ebrei 6:20).

“Infatti a noi era necessario un Sommo Sacerdote come quello: santo, innocente, immacolato, separato dai peccatori ed elevato al di sopra dei cieli” (Ebrei 7:26).

È utile sapere che la versione latina della Sacra Bibbia, la famosa Vulgata, traduce l’espressione “Sommo Sacerdote” con la parola “Pontefice”, dichiarando così che Gesù ha abolito e sostituito tutti i sommi sacerdoti del passato ed è l’unico che, essendo santo, immacolato, innocente e senza peccato, può essere chiamato “Pontefice”, ed è l’unico che agisce eternamente in favore dell’uomo, perdonandolo e salvandolo.

Il terzo cambiamento o sconvolgimento del sistema sacerdotale che Cristo ha operato, riguarda i sacerdoti: “anche voi, come pietre viventi, siete edificati per formare una casa spirituale, un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1Pietro 2:5).

“Ma voi siete una stirpe eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, perché proclamiate le virtù di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa” (1Pietro 2:9).

Con Gesù Sommo Sacerdote o Pontefice, tutti i credenti sono dichiarati sacerdoti per continuare la missione del Maestro: testimoniare della vera luce. Ogni credente è invitato a riconciliare il mondo a Dio e rivelare il suo amore, per ricondurre l’umanità ai piedi del Signore.

Come sacerdoti possiamo avvicinarci a Dio senza più paura, senza bisogno di mediatori; senza bisogno di chi pensi per noi, di chi creda per noi, di chi preghi per noi; senza più bisogno che altri ci confessino; senza più delegare la nostra fede e le nostre scelte.

Grazie a Gesù siamo tutti sacerdoti, diventando adulti, responsabili delle nostre azioni. Non siamo più come dei bambini che ricevono il latte preconfezionato nel biberon. Con Gesù siamo adulti coscienti della chiamata di Dio al sacerdozio, per compiere una missione regale, quella affidataci da Dio stesso.

“Avendo dunque, fratelli, libertà di entrare nel luogo santissimo per mezzo del sangue di Gesù, per quella via nuova e vivente che egli ha inaugurata per noi attraverso la cortina, vale a dire la sua carne, e avendo noi un grande sacerdote sopra la casa di Dio, avviciniamoci con cuore sincero e con piena certezza di fede, avendo i cuori aspersi di quell’aspersione che li purifica da una cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura” (Ebrei 10:19-22).

Gesù ci ha aperto la strada per conoscere il Padre e per parlargli direttamente senza più paure e senza più deleghe.

Gesù ha fatto di noi tutti dei sacerdoti. Siamo chiamati a riconoscere in lui “l’agnello di Dio” e l’unico Sommo Sacerdote o Pontefice che dobbiamo adorare e servire.

Padre nostro…

Padre nostro…

Michele Abiusi – Il “Padre nostro” è la preghiera, l’unica, che Gesù insegnò ai suoi discepoli.
Desidero soffermarmi su questa preghiera.

I discepoli di Gesù avevano notato che spesso il Maestro si ritirava in luoghi isolati e, nel silenzio della notte, pregava per ore. In quelle notti, il dialogo con il Padre sostituiva il riposo del sonno. I 12 notavano anche che le forze fisiche, mentali e spirituali del loro Signore non diminuivano, anzi era capace di far fronte a qualunque difficoltà. Potremmo dire che le sue forze erano proporzionali alle sue preghiere. Più tempo passava in relazione col Padre, più pareva essere invincibile.

Gli apostoli avrebbero voluto capire il segreto di tale forza, e un giorno chiesero: “Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (Luca 11:1).

Ogni maestro spirituale lasciava ai suoi discepoli almeno una preghiera. Gesù non lo aveva ancora fatto e la domanda “insegnaci a pregare” era lecita.

È in questo momento che Gesù insegnò la preghiera più straordinaria che conosciamo, che la maggioranza di noi cristiani conosce e spesso recita a memoria. Ma il Padre nostro è molto più di una preghiera: racchiude il senso della vita del credente.

Riflettiamo brevemente insieme su ogni sua frase:

“Padre nostro che sei nei cieli, Sia santificato il tuo nome”
La vera preghiera può rivolgersi solo a Dio e a nessun altro. Non è possibile iniziare un cammino spirituale se non ci mettiamo in relazione con quel Dio-Padre che Gesù è venuto a rivelarci. David Maria Turoldo ha scritto nel suo libro Amare (Ed. San Paolo): “Quanto è pericoloso credere in Dio, tanto è benefico credere in Dio-Padre. Io temo coloro che credono solo in Dio. Non c’è nulla di più pericoloso che credere in un Dio sbagliato… Chi crede dunque in Dio, in Dio solamente, può uccidere con tutta tranquillità e lanciarsi con furore su tutte le vie di Damasco; ma chi crede in Dio Padre non può neppure offendere un uomo; tanto meno l’ultimo di tutti gli uomini…” – pp. 28-31.

Gesù ci invita quindi a rivolgerci a Dio come a un Padre che ci ama, che ci capisce, ci perdona e ci salva. Gesù voleva liberare l’umanità dalle immagini del Dio giudice che condanna, che invia malattie, disastri e guerre.

“venga il tuo regno”
È il grido dei figli di Dio che desiderano che il regno di Dio si concretizzi nel loro intimo. È anche un grido perché finiscano le guerre e ogni sofferenza quando Gesù ritornerà per stabilire il suo regno eterno di pace e di giustizia.

“sia fatta la tua volontà anche in terra come è fatta in cielo”
È credere che sia possibile trasformare il nostro mondo seguendo i principi spirituali di Cristo e abbandonare finalmente i criteri di sfruttamento, oppressione e ingiustizia che purtroppo conosciamo.

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”
È riconoscere che ogni cosa buona è un dono di Dio per chiunque vive in questo mondo. Ogni abitante di questo pianeta ci è fratello e sorella, e non possiamo mangiare il nostro pane da soli.

“rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”
È ricordare che la nostra religione, o relazione con Dio, deve passare dalla nostra relazione con gli altri. Non è possibile vivere in pace con Dio ed essere in stato di guerra con il prossimo.

“non ci esporre alla tentazione, ma liberaci dal maligno. Perché a te appartengono il regno, la potenza e la gloria, in eterno, amen”
È riconoscere che Dio non tenta nessuno perché non ha niente a che vedere con il male. Dio ci ama e ci libera dal male perché è il Creatore e tutto è nelle sue mani.

Il Padre Nostro è più che una preghiera magica da ripetere meccanicamente. Si tratta della più sublime dichiarazione di responsabilità che posso sottoscrivere nel cammino di fede con Gesù Cristo.

Vorrei proporvi una nuova lettura di questa preghiera; spetterà a voi dire “amen”, alla fine, se sarete d’accordo.

“Dio, ti riconosco come mio Padre, tu che abiti l’universo e che sei Signore di tutti. Desidero mettere il tuo nome al di sopra di tutto e la tua conoscenza al primo posto nella mia vita. Accetto che il tuo regno di grazia e di pace si stabilisca nel più profondo del mio essere. Voglio vivere su questa terra secondo i principi del cielo che Gesù mi ha insegnato e ha vissuto, come riportato nei Vangeli.

Prometto di impegnarmi con le forze e con la volontà che ogni giorno mi dai, per ottenere onestamente il necessario per la mia famiglia e per condividerlo con coloro che soffrono.

Voglio comprendere la profondità e la grandezza del tuo amore e del tuo perdono, per riuscire a capire e perdonare chiunque incontrerò sulla mia strada.

So che non permetterai che io sia tentato al di sopra della mia capacità di sopportazione e grazie della certezza della vittoria che mi dai in Cristo Gesù.

È vero, tu sei la fonte di ogni forza, la gloria che io cerco, il fondatore di questo regno nel quale io voglio vivere oggi e per sempre. Amen”.

 

Nicodemo

Nicodemo

Michele Abiusi –  Nicodemo era un teologo molto considerato ai tempi di Gesù perché era membro del Sinedrio, organismo che rappresentava la massima autorità religiosa e giuridica a Gerusalemme. Una notte Nicodemo decise di parlare con Gesù.

Le opinioni su questo nuovo Maestro erano contrastanti e alcuni, anche fra i farisei, lo consideravano un profeta, un uomo di Dio. I segni che accompagnavano i suoi straordinari insegnamenti ne erano la prova. Se Gesù era un profeta, allora poteva rispondere alle preoccupazioni del popolo: quando verrà il Messia? Quando inizierà il nuovo regno?

Nicodemo aveva bisogno di sapere! Scelse di parlare con il Maestro di notte per avere il tempo per un dialogo intimo e tranquillo. Gesù sorprese il fariseo rispondendogli, prima che formulasse una qualunque domanda: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo non può vedere il regno di Dio” (Giovanni 3:3). E subito dopo aggiunse, per chiarire il suo pensiero: “In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio” (Giovanni 3:5).

Nicodemo voleva sapere quando sarebbe giunto il regno e Gesù gli disse che avrebbe potuto vederlo, anzi poteva addirittura entrarvi. Non doveva aspettare neppure un giorno! Poteva vederlo subito e farne parte a pieno titolo. Il regno era già attuale. Era presente davanti a lui. Gesù era la prova della realtà del regno.

Quando Giovanni il Battista mandò, dalla prigione, dei messaggeri per chiedere a Gesù di chiarire i suoi dubbi,  il vangelo così descrive la risposta di Gesù: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella” (Luca 7:22).

Cosa si poteva attendere di più dal Messia? Il regno era realtà con Gesù.

Ma purtroppo Nicodemo non riusciva a vederlo. E come lui molti altri. Perché?

La ragione è semplice: i giudei aspettavano un Messia diverso da Gesù. I capi della nazione volevano un re-guerriero che li liberasse dall’oppressione romana e fondasse un regno su questa terra. Gesù, invece, lodava la fede di un centurione, non si opponeva al pagamento delle tasse al potere di Roma, disarmò Pietro quando questi voleva difenderlo con la spada e dichiarava che il suo regno non era di questo mondo.

I capi giudei attendevano un Messia di stirpe nobile, con almeno un dottorato in teologia che vivesse con i grandi. Gesù, invece, era di umili origini, crebbe nel povero villaggio di Nazaret, lodava i poveri, mangiava a casa di coloro che erano considerati peccatori, le prostitute e i senza tetto lo seguivano. Si permetteva di parlare contro il tempio, contro le tradizioni dei padri. Aveva cacciato coloro che avevano trasformato la “casa del Padre” in un “covo di ladroni” grazie ad un sistema di compra-vendita di animali da offrire in sacrificio per ottenere il perdono di Dio. E poi perdonava tutti senza chiedere in cambio né opere meritorie, né denaro; infine non condannava nessuno, neppure l’adultera, mettendo in crisi il sistema e la religione.

No, questo Gesù non poteva essere il Messia! Non corrispondeva alle aspettative, alle speranze, alle tradizioni. Ecco perché gran parte dei capi e del popolo non potevano accettare Gesù! I preconcetti avevano condizionato il pensiero delle persone a tal punto da non vedere e da non capire ciò che accadeva alla luce del sole.

Solo se si riesce a rinunciare ai preconcetti e alle tradizioni si può vedere Gesù per quello che è veramente. Senza più schemi precostituiti, liberi da idee preconfezionate, potremo avvicinarci al Gesù dei Vangeli e capire finalmente il suo messaggio, il suo amore, il suo perdono e la sua grazia infiniti e gratuiti.

Purtroppo ancora oggi il cristianesimo è intriso di tante tradizioni e di dogmi indiscutibili. La maggioranza delle persone vengono inserite alla nascita, con il battesimo, in un progetto religioso senza averlo né scelto né discusso e del quale non dovranno dubitare mai. Quando infine questi credenti saranno obbligati a confrontarsi con altre espressioni di fede, le rifiuteranno automaticamente solo perché non corrispondono al programma memorizzato.

Anche se scopriste qualcosa di meraviglioso e di liberatorio, non potreste accettarlo a causa dei condizionamenti accumulati durante tutta la vita. È stato questo il dramma dei giudei: rifiutarono il messaggio di Cristo, non perché fosse falso ma perché non corrispondeva ai dogmi e alle tradizioni inculcate da secoli.

Gesù disse allora a Nicodemo che c’era solo una condizione per entrare nel regno: “Nascere di nuovo, di acqua e di Spirito”. Gesù invitò Nicodemo a cancellare i suoi schemi mentali e religiosi e ad ascoltare il suo messaggio di salvezza. Questa è l’esperienza della rinascita.

Nascere di acqua e di Spirito. Con queste parole Gesù invitò Nicodemo al battesimo. Ma si tratta del vero battesimo, quello che include il cambiamento, la scelta, la responsabilità personale.

Molte persone hanno dovuto dimenticare le tradizioni nelle quali sono nate e cresciute. Volevano sapere, dalle vere fonti della Sacra Bibbia, ciò che Gesù ha insegnato e sentire da Lui quello che voleva dire.

Hanno iniziato così l’esperienza più straordinaria che ha sconvolto positivamente la loro vita.

 

Quando fai elemosina

Quando fai elemosina

Michele Abiusi – Nel famoso sermone sul monte, Gesù condannò il formalismo religioso che da solo può sminuire il valore della religione e della fede. La preghiera, il digiuno e le elemosine furono le pratiche menzionate da Gesù.

Riflettiamo su quest’ultimo aspetto: le elemosine.

Dai tempi più antichi l’essere umano ha manifestato la propria riconoscenza al Creatore offrendo parte del suo raccolto e dei suoi animali. In epoche meno remote, e ancora oggi, il credente offre a Dio parte delle proprie entrate in denaro, come la decima biblica.  Questa pratica trova conferma nella Bibbia e nasce dalla concezione che Dio è il proprietario di ogni cosa, mentre l’uomo si riconosce suo amministratore. Purtroppo l’uomo non si è conformato a questo principio e si è subito trasformato in padrone assoluto, sfruttando e distruggendo la natura, gli animali e addirittura i suoi simili.

Le decime, insieme alle offerte volontarie, avevano un doppio obiettivo:
– mantenere materialmente le famiglie dei sacerdoti che potevano così occuparsi dell’istruzione religiosa e di tante altre attività connesse alla famiglia e al sociale;
– educare i credenti alla generosità e alla sensibilità verso i bisogni altrui, lottando così contro la povertà, l’egoismo e l’avarizia.

Vediamo cosa Gesù disse al riguardo: “Quando dunque fai l’elemosina, non far suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. Ma quando tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra quel che fa la destra,  affinché la tua elemosina sia fatta in segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa” (Matteo 6:2-4).

Anche il fare l’elemosina può trasformarsi in strumento di ostentazione della propria santità. Un gesto umanitario rischia di diventare atto di presunzione e di orgoglio. Molti credenti pensano addirittura che la loro generosità si trasformi in atti meritori di salvezza.

Il Vangelo di Matteo riporta altre parole del Maestro: “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano. Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore” (Matteo 6:19-21).

Sono parole che invitano a non collocare la propria fiducia nelle ricchezze e a non vivere in funzione di esse. Leggendo questa frase di Gesù che incoraggia a non accumulare tesori in terra, molti hanno pensato che donando i propri beni alla chiesa si sarebbero fatti un tesoro in cielo, nel senso di crearsi un’assicurazione sulla vita… eterna.

Vedono quindi il Signore come un uomo d’affari o un banchiere che tiene i conti correnti di ognuno dei suoi figli e, quando il conto raggiunge un certo ammontare, il correntista ha diritto al paradiso. Altri pensano persino che possiamo depositare dei meriti nel conto corrente di altre persone salvandole dal “purgatorio”. In questo modo i premiati sarebbero ancora una volta i ricchi e i potenti.

Eppure Gesù insegnava esattamente il contrario: “Egli, alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva: ‘Beati voi che siete poveri, perché il regno di Dio è vostro’” (Luca 6:20).

“E ripeto: è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio” (Matteo 19:24).

Gesù va contro corrente: Dio non è affatto un banchiere che vende le sue grazie in base all’offerta migliore. Dio è un padre misericordioso e non fa differenze tra i suoi figli. Anzi, è vicino a tutti e in modo particolare ai più vulnerabili, ai più poveri, agli emarginati, agli oppressi, ai disabili.

Quante persone non credono, perché la cristianità ha inventato questo Dio “contabile” che dà esattamente a ognuno secondo i propri meriti. Quanti sono scappati dal Dio del “purgatorio” che salva da sofferenze atroci coloro che pagano più in fretta o coloro che possono avvalersi delle migliori raccomandazioni. Dobbiamo confessare che abbiamo creato un Dio fatto a nostra immagine, simile a noi!

Ma voglio darvi due buone notizie: la prima è che il Dio “contabile” non esiste; la seconda è che possiamo credere ancora in Dio, ma in quello vero, il Dio di cui ci parla la Bibbia. Ecco cosa scrisse l’apostolo Paolo ai credenti di Efeso: “Ma Dio, che è ricco in misericordia, per il grande amore con cui ci ha amati…   Infatti è per grazia che siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non viene da voi; è il dono di Dio.  Non è in virtù di opere affinché nessuno se ne vanti “ (Efesini 2:4,8,9)

Dio non ci salva in funzione delle nostre opere, delle nostre offerte, delle nostre amicizie o grazie a raccomandazioni autorevoli. Dio ci salva perché è ricco in misericordia. La salvezza è un dono e quindi non si compra. Gesù annunciò questa grande verità quando disse: “Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3:16).

Ecco la buona notizia: la vita eterna inizia in noi quando ci avviciniamo a Dio e quando lo accettiamo come un Padre buono, un amico sincero e fedele. Allora non ci sarà spazio per ipocrisie, non vivremo la nostra religione per farci vedere dagli altri o per guadagnare qualcosa dal Signore.

Con Gesù abbiamo già tutto: il perdono, la grazia, la salvezza, il suo amore.

 

 

Il cieco dalla nascita. Chi ha peccato?

Il cieco dalla nascita. Chi ha peccato?

Michele Abiusi – Un giorno Gesù camminava con i suoi discepoli in una città della Giudea quando si imbatté in un uomo non vedente. Era cieco dalla nascita. Probabilmente era seduto per terra su una stuoia in una zona di passaggio, aspettando l’elemosina dei passanti.

Quando furono abbastanza vicini al pover’uomo, i discepoli rivolsero una domanda a Gesù. Il testo dice: “Passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: ‘Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?’. Rispose Gesù: ‘Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio. Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare. Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo’. Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: ‘Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)’. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva” (Giovanni 9:1-7).

Per capire la domanda, bisogna sapere che all’epoca si riteneva che le malattie, e soprattutto quelle invalidanti come la cecità, la lebbra, le paralisi, la sordità e altre, fossero inviate da Dio per punire la persona colpevole di evidenti peccati. Quando la malattia era già presente alla nascita, si discuteva sulla possibilità che Dio punisse il figlio a causa dei peccati commessi dai genitori.

Secondo quella mentalità, Dio quindi poteva inviare malattie anche a un feto innocente per farla pagare ai genitori.  C’è da inorridire al solo pensiero che si possa credere in un Dio così crudele da colpire una persona addirittura nella sua fase prenatale… per punirla di colpe altrui. Eppure ancora oggi esiste, un po’ ovunque, una mentalità simile che si esprime spesso in frasi del tipo: “Cosa ho mai fatto di grave per meritare tanta sofferenza?”. Oppure: “Sicuramente quella persona si è meritata tale disgrazia… chissà cosa ha combinato!”. Ho conosciuto dei genitori di figli con la sindrome di Down che si sentivano colpevoli, come se Dio li avesse puniti per qualche peccato non confessato…

Certamente esistono le influenze prenatali e i genitori possono trasmettere ai figli malattie o, comunque, fragilità fisica e psichica. Questo è un dato scientifico. Ma tutt’altra cosa è ritenere che sia Dio a inviare le malattie per punire i peccatori. Questa mentalità generava e genera ancora, in chi ne è succube, sensi di colpa e, quindi, paura di Dio.

Ma torniamo alla storia dell’uomo sventurato, nato cieco. Difficile immaginare la vita di qualcuno che sia vissuto nel buio da sempre, fin dalla nascita, senza aver mai visto il volto della propria madre, del padre… Duemila anni fa un uomo simile non godeva di assistenza sociale, non poteva lavorare, era senza pensione, senza speranza. Considerato un “maledetto” da Dio, era emarginato, schivato da tutti, anche dalla propria famiglia.

Spesso mi sono chiesto cosa pensasse quel povero cieco di Dio in un contesto come il suo. Al suo posto avrei avuto paura di un Dio simile e, se ancora lo avessi pregato, sarebbe stato per timore che altre sventure potessero colpirmi. Se avessi potuto mi  sarei sbarazzato volentieri di un Dio così poco sensibile, così poco misericordioso e così ingiusto. Perché mai dovrei pagare per colpe mai commesse?

Nel sentire la domanda dei discepoli, immagino che il povero cieco ritrasse la mano protesa per chiedere uno spicciolo di attenzione. Sempre la stessa discussione: “Chi ha peccato?”. Parole che riaprivano una ferita antica che ancora sanguinava. Eppure, mentre si sentiva ancora una volta schiacciato, ecco, una voce diversa elevarsi tra le altre. Il tono era cordiale, dolce. L’uomo non si sentì giudicato né dalla voce e né dalle parole, anzi.

“Né lui ha peccato, né i suoi genitori”. Era la prima volta che qualcuno lo dichiarava innocente. Lui, condannato alla cecità eterna da tutti, dalla società, dalla famiglia, dalla chiesa, era adesso, dopo decine di anni di carcere buio, liberato dall’accusa ingiusta.

Come si sarà sentito?  Difficile descriverlo! Certo deve aver provato un sentimento di leggerezza, di libertà, di umanità sconvolgente. Poi, subito dopo quelle parole, sentì della terra umida bagnargli gli occhi e due mani calde, affettuose, quelle di Gesù, toccargli il viso… Non si ricordava più quanto fosse bello il tocco di una mano amica, non si ricordava più cosa significasse essere oggetto di attenzioni affettuose.

E subito, la stessa voce gli diceva di andare alla piscina di Siloe per lavarsi gli occhi perché, finalmente, adesso, si sarebbero rivelate le opere di Dio. E prima che il cieco partisse verso l’acqua Gesù lo aveva rassicurato, dichiarando: “Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo” (v. 5).

E lui, il cieco, partì verso l’acqua, verso la luce, correndo a tastoni, col bastone, forse con l’aiuto di qualcuno che credeva, come lui, nell’impossibile.

Giunto infine alla piscina, lo vedo bagnarsi gli occhi, poi la testa, i capelli pieni di polvere, i piedi; lo vedo saltare dentro la piscina; vedo una luce sulle sue labbra, sul suo volto, nei suoi occhi…

Purtroppo, ancora oggi, molti cristiani credono in un Dio che risponde ai peccati dell’uomo punendolo con malattie e sofferenze. Gesù ci mostra che Dio è diverso, è migliore di quanto pensiamo. Le opere di Dio si manifestano nella luce, non nelle tenebre. Dio fa il bene, non il male. Dio guarisce, non manda la malattia. Dio è vita.

Ecco come Giovanni riassume il messaggio di Gesù nella sua prima lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1 Giovanni 1:5)

Basta aver paura di Dio!

Grazie a Gesù puoi credere in un Dio misericordioso, che capisce la tua situazione, le tue sofferenze, le tue eventuali fobie.  Non è lui che te le ha inviate per punirti. Dio ti sta sempre accanto. Anche se attraversi il momento più difficile della tua esistenza, Dio non ti abbandona, anzi ti è vicino per sorreggerti, per consolarti, per accompagnarti nel cammino della tua vita, così come Gesù è stato vicino al cieco nato e a tutte le persone del suo tempo.

Gesù è venuto tra di noi e la Sacra Bibbia esiste proprio per dirci questo. Apri i Vangeli e chiedi a Dio di aiutarti a conoscerlo. Farai l’esperienza più entusiasmante della tua vita.

Ne sono sicuro perché è accaduto anche a me!

 

Alla piscina di Betesda. Vuoi guarire?

Alla piscina di Betesda. Vuoi guarire?

Michele Abiusi – Vorrei soffermarmi su un episodio della vita di Gesù, avvenuto durante le festività pasquali a Gerusalemme, presso una famosa piscina, la piscina di Betesda. L’episodio è riportato nel Vangelo di Giovanni.

Dopo queste cose ci fu una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Or a Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, c’è una vasca, chiamata in ebraico Betesda, che ha cinque portici. Sotto questi portici giaceva un gran numero d’infermi, di ciechi, di zoppi, di paralitici, [i quali aspettavano l’agitarsi dell’acqua; perché un angelo scendeva nella vasca e metteva l’acqua in movimento; e il primo che vi scendeva dopo che l’acqua era stata agitata era guarito di qualunque malattia fosse colpito]. Là c’era un uomo che da trentotto anni era infermo.  Gesù, vedutolo che giaceva e sapendo che già da lungo tempo stava così, gli disse: ‘Vuoi guarire?’. L’infermo gli rispose: ‘Signore, io non ho nessuno che, quando l’acqua è mossa, mi metta nella vasca, e mentre ci vengo io, un altro vi scende prima di me’. Gesù gli disse: ‘Àlzati, prendi il tuo lettuccio e cammina’.  In quell’istante quell’uomo fu guarito; e, preso il suo lettuccio, si mise a camminare” (Giovanni 5:1-9).

La tradizione dell’epoca diceva che questa piscina era meta di pellegrinaggi perché la sua acqua era ritenuta miracolosa. Si pensava che a volte un angelo toccasse l’acqua della vasca e il primo malato che fosse entrato nell’acqua in quel momento sarebbe stato guarito dalla sua infermità.

Questa credenza popolare aveva messo in moto tutto un sistema di costruzioni attorno alla piscina, per proteggere i pellegrini dal sole e dal freddo. Chi poteva affittare delle camere o chi viveva di commercio, doveva trarre certamente un beneficio da questa tradizione. I religiosi sicuramente coordinavano gli arrivi e le partenze da tutto il Paese, e magari anche dall’estero. Possiamo immaginare che in quella piazza ci fossero portatori di ogni tipo di infermità.

Ma il tempo passava inesorabile e allora i più poveri dovevano darsi da fare chiedendo l’elemosina e sistemandosi nel quartiere trasformato per loro in luogo di lavoro e di sopravvivenza.

Quando Gesù arrivò a Betesda, si guardò intorno e vide un paralitico. Era infermo da 38 anni. Doveva essere a Betesda da molti anni e ormai, pare, non pensasse più alla guarigione.

Forse era vero che non avesse nessuno ad aiutarlo a entrare nell’acqua quando questa si muoveva… Ma è più probabile che si fosse così abituato alla sua situazione di paralitico, che comunque gli dava da vivere e non pensare a nient’altro. Magari era divenuto un personaggio importante del luogo che gli altri rispettavano. Forse era il responsabile della questua locale o forse non credeva più nella storia dell’angelo e dell’acqua benedetta.

Troppi anni aveva trascorso invano presso quella piscina.

Gesù guarisce
Forse era solo una tradizione, una leggenda per gli ingenui o per i nuovi arrivati. Comunque Gesù si avvicinò proprio al nostro uomo e gli pose una domanda: “Vuoi guarire?”.
Il Maestro voleva risvegliarlo: “Veramente vuoi guarire?”. Sei qui per guarire o per fare i tuoi affari? Che cosa vuoi dalla vita? Sei soddisfatto di come sei?

Il paralitico gli rispose con quella che io chiamo una scusa per nascondere le sue motivazioni ormai ben diverse: “Non ho nessuno che mi metta nella piscina quando l’acqua è agitata. Quando sto per entrarci un altro scende in acqua prima di me”.
E allora Gesù gli disse: “Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina”. In altre parole, Gesù voleva dirgli: “Non hai bisogno dell’aiuto di nessuno e neppure dell’acqua di Betesda. Basta che tu creda alla mia parola e sarai guarito. Alzati! Cammina!”.

A quell’ordine, il malato credette, sentì una forza spingerlo a muoversi e si alzò, prese le sue cose e partì da Betesda per non tornarvi più.

Penso a quanti credenti sinceri compiono viaggi interminabili, spendendo a volte cifre incredibili per raggiungere luoghi considerati sacri e miracolosi. Nella religiosità popolare si ritiene che Dio sia presente in un luogo più che in un altro. Si pensa che un santuario abbia un potere superiore rispetto a un altro. Si crede che un’acqua sia più santa o benedetta di un’altra. Si mantiene l’idea che Dio ascolti più le preghiere innalzate da credenti inginocchiati in una chiesa piuttosto che in un’altra.

Se la tradizione fosse stata vera
Immaginate per un attimo che la tradizione di Betesda fosse vera e che veramente ogni tanto Dio inviasse un angelo a muovere l’acqua della piscina per guarire unicamente il primo che vi si bagnasse. In questo caso Dio premierebbe il più svelto, forse colui che usava ogni mezzo pur di arrivare per primo, forse qualche ricco che poteva pagarsi degli aiutanti. Erano comunque esclusi i malati gravi o i più poveri. Questi non arrivavano mai in tempo.

Così, a Betesda, Dio avrebbe istallato un sistema per premiare ancora una volta i potenti, i ricchi, i meno bisognosi. E inoltre, fra decine, forse centinaia di malati, Dio ne premiava solo uno. Gli altri avrebbero aspettato che Dio desse il via per un’altra corsa, come in un’arena olimpica. Forse fra un mese o magari fra un anno, in occasione della festa patronale o nazionale…

Che Dio sarebbe questo? Un Dio ingiusto! Un Dio parziale! Un Dio che non risponde alla fede o al bisogno dell’uomo, ma alla sua capacità di correre più svelto di un altro o di pagare un costo più elevato! Un Dio creato a nostra immagine!

Gesù a Betesda
Cari lettori, meno male che Gesù è sceso a Betesda!
Gesù mi insegna che ciò che conta è credere in lui e in nessun altro.
È Gesù l’acqua della vita e se io mi avvicino a lui, non ho bisogno di piscine, di vasche o di acque benedette.
È Gesù la salvezza e devo rispondere alla sua chiamata: “Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi: io vi farò riposare” (Matteo 11:28, Tilc).

Non  ho bisogno di pellegrinare verso santuari o terre ritenute sante per cercare o per comprare dei ricordi miracolosi, perché Gesù è sceso fra di noi con un obiettivo preciso: “il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Luca 19:10, Cei).

È lui che mi cerca ogni giorno, ogni momento. Devo solo accettare la sua offerta di salvezza. Qui dove sono, in questo momento, Gesù mi chiede: “Vuoi guarire?”.

Potete trovare qualcosa che Gesù non vi possa dare? Allora perché andare altrove? Accettate l’offerta di Gesù e lui vi accoglierà con amore, qualunque sia il vostro bisogno.

Questo è il messaggio meraviglioso della parola di Dio, che vi incoraggio a leggere, ad amare e a seguire.

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